Roza Šovkrinskaja ricorda: “affinché il ricordo di migliaia di destini come il mio rimanga vivo” Rosa Šovkrinskaja è nata nel 1930. Il padre, Jusup Šovkrinskij ha combattuto la guerra civile ed è stato a capo dell’ufficio propaganda e cultura del comitato di partito distrettuale del Daghestan. Nel 1937 è stato arrestato ed è morto nel lager di Vorkuta. La sorella Oktjabrina è stata arrestata all’età di 17 anni e condannata a 10 anni di lager. ———— L’arresto del padre La mamma veniva da una grande famiglia. Aveva cinque fratelli, che vivevano tutti in Russia e godevano di una buona reputazione. Hanno rifiutato la proposta di matrimonio di mio papà. Papà ha rapito mia madre che allora aveva solo 15 anni. Per prima cosa si sono trasferiti a Machačkala. Nel 1936, quando sono iniziate le repressioni, mio padre è stato arrestato. La mamma raccontava che sono arrivati tre uomini vestiti di nero. Una macchina nera era parcheggiata vicino all’ingresso del palazzo del governo in cui abitavamo. Papà li ha pregati: “Vengo da solo, non voglio che i bambini si agitino e piangano. Andate. Vi raggiungo”. Sono usciti e papà li ha seguiti. La mamma ci ha detto che il papà era in missione. Ma non lo abbiamo più rivisto. Papà è rimasto tre anni nel carcere di Machačkala. Papà è stato interrogato e torturato per tre anni, in prigione per tre anni, cambiavano gli inquirenti. Ha scritto tutto questo e l’ha trasmesso tramite i secondini. Ha spedito anche varie lettere a Stalin. I guardiani ci hanno consegnato gli appunti di papà in cui descriveva le torture e i maltrattamenti. Uno di questi guardiani, che a quanto pare aveva personalmente assistito, descriveva come durante uno degli interrogatori papà, sfinito e fuori di sé, l’aveva picchiato con una sedia. In seguito è stato trasferito in una cella da solo. Papà è stato per tre anni in prigione, in segregazione. Dopo tre anni è iniziato il processo. Ci sono state deposizioni e hanno chiamato un nuovo inquirente. Si è riunita una trojka che lo ha condannato a otto anni. Tutti consigliavano di abbandonare il cognome di famiglia Papà diceva: “Se abbandoni il cognome di famiglia, per i bambini sarà un duro colpo. I bambini penseranno che sono davvero un traditore, un nemico del popolo. Fa capire loro che sono un comunista retto e che non ho mai tradito”. Era membro del partito da quando aveva 18 anni. E quante volte mamma è stata chiamata. E tutti le consigliavano: “Metti da parte il cognome, e vedrai che i bambini non avranno problemi ad andare a scuola”. La mamma era bella, di bella presenza e prosperosa. Non dimenticherò mai di quando mia cugina mi ha raccontato di un inquirente che aveva trattenuto la mamma per più ore. E mio fratello più piccolo, Hussein, aveva solo 6 mesi. L’ha trattenuta per più ore e mamma gli diceva che doveva allattare il bambino e che le sue mammelle erano già gonfie. Lui l’ha trattenuta lo stesso. A quel punto – così raccontava mia cugina – la mamma ha tirato fuori il seno e gli ha spruzzato il latte direttamente sul volto. L’ha lasciata andare. La mamma è rimasta una settimana a letto cercando di riprendersi. Ma non ha cambiato il cognome. Fino alla fine abbiamo mantenuto il nostro nome di famiglia “Šovkrinskaja”. Incontro in prigione Papà, dopo essere stato assegnato ad un trasporto di prigionieri, ha ricevuto l’autorizzazione per un incontro. Mamma aveva fatto di tutto perché questo avvenisse. La sorella di papà si è versata un sorso di cognac e ne ha dato un po’ anche alla mamma. Si sono fatte coraggio e sono andate all’incontro. Quando sono arrivate al carcere in via Puškin a Machačkala, le hanno fatte entrare. Raccontava che c’erano reti, porte e serrature ovunque e tutto d’un tratto si sono fermate. La zia aveva inculcato alla mamma: “Nessuna lacrima! Guai se mio fratello ti vede piangere!”. Karr-karr-karr risuonava il ferro. Hanno fatto entrare papà. È entrato e non appena ha visto la mamma e sua sorella gli sono scese le lacrime. La sorella ha detto: “Tu! Tu! Che uomo sei se mostri le lacrime? Tu, tu! Non ti considero un uomo e nemmeno mio fratello!”. A quel punto lui ha alzato le sue braccia ammanettate, ha agitato i piedi e ha detto: “Non piango perché mi hanno condannato e ora mi deportano. Non sono stato condannato da un tribunale sovietico, ma da un tribunale feudale preistorico”. E ha mostrato le sue mani incatenate. Fuga da Machačkala La sera stessa la mamma ha fatto le valigie e nella notte ce ne siamo andati. In direzione dell’aul, a 180 km di distanza. Pioveva. Allora le strade non erano come oggi. Ovunque c’era sporcizia. Le strade erano così pericolose – da un lato c’era il dirupo, dall’altro la montagna. Questi percorsi erano dissestati. L’autista era russo e si chiamava probabilmente Kolja, ma non so perché la mamma lo chiamava Vakolin’ka. Siamo arrivati nel centro abitato. In passato, al nostro arrivo ci accoglievano tutti. Nemmeno un’anima. Non è venuto nessuno a salutarci. L’autista ci ha aiutato, siamo entrati in casa e siamo rimasti lì. Questo è stato il nostro arrivo all’aul, grazie all’aiuto di quella brava persona. Siamo rimasti all’aul. Come siamo stati accolti all’aul Dopo il nostro arrivo nell’aul, quando il primo giorno siamo usciti – non so chi l’avesse insegnato ai bambini – i bambini non sapevano il russo – i bambini ci hanno bloccato la strada. “Trockisti! Trockisti!”. Da chi avranno mai imparato quella parola? Siamo scoppiati a piangere, siamo tornati a casa e abbiamo detto: “Mamma, non usciremo più, non andremo più in quella scuola”. Siamo rimasti all’aul. La mamma non poteva lavorare nel kolchoz e noi non potevamo andare a scuola. Non potevamo comprare nel negozio. La mamma è stata classificata come contadino individuale. A quei tempi i contadini dei kolchoz venivano tassati in modo molto elevato, ma i contadini individuali subivano una tassazione doppia. Tutti pensavano… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste
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Figli dei “nemici del popolo”: ricordi di Leonid Muravnik, Elizaveta Rivčun, Valentina Tichanova, Ol’ga Cybul’skaja e Roza Šovkrinskaja ——- Arresto del padre Leonid Muravnik – Figlio di un funzionario di partito. Il padre e la madre sono stati fucilati nel 1937. Dall’età di 9 anni è stato inviato in diverse case per l’infanzia da cui è sempre fuggito finendo quindi per vagabondare. Muravnik: Dato che vivevamo in una sola stanza, quando il papà tornava dal lavoro stanco, pensieroso intorno a mezzanotte mi capitava spesso di sentirlo discutere animatamente con la mamma. Lei gli diceva: “Jaša, hai sentito? Hanno arrestato Larin” e il papà rispondeva: “Ho sentito”. “Jaša, hai sentito? Hanno arrestato Orlov”. “Ho sentito”. La mamma rispondeva: “Ma tu cosa pensi di tutto questo?” e lui rispondeva: “Il partito sa quello che sta facendo”. La risposta era sempre la stessa: “Il partito sa quello che sta facendo”. Era un uomo fanatico, ma cosa altro avrebbe potuto dirle? Niente. Ed è arrivato il fatidico giorno 25 maggio, quando un’operazione organizzata, non c’è che dire ben organizzata, è stata messa in atto: hanno arrestato tutti! Hanno riunito il Bjuro del comitato distrettuale del partito ad una conferenza e li hanno arrestati tutti dal primo all’ultimo. Valentina Tichanova – Figlia adottiva del Commissario del popolo della giustizia della RSFSR. Il patrigno e la madre sono stati fucilati e Valentina a 4 anni è stata inviata in una casa per l’infanzia a Dnepropetrovsk. Tichanova: Era l’11 settembre. Di notte sono stata svegliata da un rumore, da dei suoni indefiniti. Ho indossato la vestaglia, sono uscita dalla mia stanza, ho attraversato il corridoio e sono arrivata alla porta dello studio in cui la luce era accesa. Sulla porta c’era Lukinična, la nostra domestica, e nella stanza c’erano due uomini, uno dei quali teneva in mano la cornetta del telefono e diceva: “Sì, abbiamo finito. Abbiamo fatto tutto. Sì, va bene”. E ha riattaccato. L’unica cosa che poi ricordo è che mi sono ritrovata sulla porta che piangevo. Elizaveta Rivčun – Figlia del musicista David Gejgner. Nel 1935 la famiglia era rientrata dalla Cina in URSS e nel 1938 David Gejgner è stato fucilato. Rivčun: Ecco quello che mi ricordo dell’ultima notte con mio padre. Quando tutti sono usciti, siamo rimasti seduti e impietriti fino alla mattina seguente. La mattina sono andata a scuola con mio fratello e la mamma ha corso per le varie prigioni in cerca del papà. Dopo alcuni giorni ha trovato il suo nome nelle liste della prigione Butyrka. Per due mesi hanno accettato di recapitargli la posta e dei soldi, ma poi hanno detto che era stato mandato in un altro luogo e che non era più nelle liste. Con questo abbiamo ogni traccia del papà. I nostri conoscenti avevano paura di frequentarci Rivčun: Semplicemente ci hanno isolati. Hanno smesso di telefonarci e nessuno veniva a trovarci. I nostri conoscenti avevano paura.Temevano per la loro vita. Tutto questo l’ho capito solo dopo. Allora, capivo solo che eravamo soli. All’inizio non hanno permesso a mia madre di lavorare. Figuratevi che temevo che il direttore mi chiamasse e mi dicesse che non potevo più andare a scuola, perché “il tuo papà è un nemico del popolo e tu non puoi andare a scuola”. Sovkrinskaja Roza Jusupovna – Il padre, membro del comitato regionale del partito del Dagestan, è morto in prigione. La sorella, Oktjabrina, è stata condannata a 10 anni di lager. Šovkrinskaja: Dopo il nostro arrivo nell’aul, quando il primo giorno siamo usciti, non so chi l’avesse insegnato ai bambini – i bambini non sapevano il russo – i bambini ci hanno bloccato la strada: “Trockisti! Trockisti!”. Da chi avranno mai imparato quella parola? Siamo scoppiati a piangere. Siamo tornati a casa e abbiamo detto: “Mamma non usciamo più. Non andremo più in quella scuola”. Muravnik: Quando andavo dalla zia Olja, sentivo che di notte diceva a suo marito e al nonno Kostja: “Noi non lo possiamo tenere. Se lo vengono a sapere i čekisti arrestano i nostri bambini”. E la mattina mi diceva: “Lenja, fai colazione e vai dalla nonna”. Io facevo colazione in silenzio e andavo dalla nonna. Arrivavo da Berta Mojseevna “Che ci fai qui?”. “La zia Olja mi ha detto di venire da voi”. Ma anche la nonna non era contenta della mia presenza. “Nonna, ma dov’è il problema? Perché?”. “Perché tu sei marchiato”. “Ma come marchiato?” “Quando il nonno verrà a sapere che sei venuto si arrabbierà molto”. Arresto della madre Muravnik: Ci siamo incontrati per l’ultima volta su una panchina del boulevard Petrovskij. Lei, in lacrime, mi ha detto: “Lenik, figlio mio, non so se tornerò. Non voglio ingannarti. Ma voglio che tu cresca come un uomo onesto e che tu impari da solo a superare le difficoltà. Nessuno in questa vita ti aiuterà, per cui impara da solo ad affrontare le situazioni. Credi nei tuoi genitori perché ti aiuterà nella vita”. Siamo andati dalla nonna e mi sono sdraiato affranto fino a quando non mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato la mamma non c’era più. Rivčun: La mamma era a letto. Aveva la febbre a 38 ed era raffreddata. Sono arrivati e lei ha detto: “Sono malata”. “Ma noi la tratterremo per poco tempo. Suo marito non si ricorda molto e lei ci aiuterà”. Lei ha risposto: “Ho la febbre”. “Ma noi vi riporteremo a casa”. Lei si è alzata, si è coperta ed è uscita con le pantofole calde. Se n’è andata. È tutto. Non l’abbiamo più vista. In seguito si è saputo che era stata fucilata. Casa per l’infanzia Tichanova: Quando sono arrivata, dietro ad un tavolo sedeva un certo nonno Miša in uniforme militare. Non ricordo cosa gli ho chiesto ma ricordo che lui mi ha detto: “Lei resterà qui”. Ma ricordo perfettamente di essermi molto spaventata. Lui ha detto: “La manderemo in una casa per l’infanzia”. Muravnik: Ad un certo punto di notte sono venuti a prenderci. Eravamo circa una quindicina. Ci hanno messo su una… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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Elena Markova ricorda: forzata Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati vittime di repressioni, il padre fucilato nel 1937. Nel 1941-43 si trovava nel territorio occupato della regione di Doneck. Dopo la liberazione della regione da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata dagli organi dell’Nkvd e condannata a 15 anni di lavori forzati. Per 10 anni è stata detenuta al Vorkutlag. Riabilitata. È dottore in scienze tecniche. ——— Be’, se parliamo della rovina di quella generazione, dunque mio papà, insegnante, è stato sottoposto a repressioni e fucilato nel ’37, durante il grande terrore. La mamma è stata arrestata nel ’38. Ed ecco mi hanno proposto di scrivere una dichiarazione per il giornale murale, che rinnegavo i miei genitori e così via, che ero una patriota. Ma non l’ho fatto. Inizio della II guerra mondiale. La vita sotto l’occupazione E così, l’inizio della guerra. Naturalmente era svanito il mio sogno di andare all’università. Nonostante fossi figlia di una vittima delle repressioni, allora non capivo che forse all’università non mi avrebbero preso. Dunque, avevano ceduto il Donbass senza combattimenti. Perciò sulla linea del fronte, ecco, quando i tedeschi avanzavano e noi ci ritiravamo, non capivamo neanche cosa stesse succedendo. Non tutti gli ebrei sono riusciti a sfollare, perché semplicemente non c’erano mezzi. Be’, a piedi, andavamo a piedi. Ed ecco un altro dettaglio di una famiglia ebrea che conoscevamo bene. Li ricordo dall’infanzia, erano molto amici del papà e della mamma. C’erano due sorelle, medici. Hanno caricato un po’ di masserizie, sono partiti. C’era un cavallino, o due. Dopo aver fatto un po’ di strada, si è scoperto che davanti c’erano già i tedeschi. Sono tornati. Ed ecco, quando sono tornati, e qui erano già arrivati i tedeschi, mi hanno chiesto di abitare per un po’ da loro, così, se fossero arrivati i tedeschi, avrei aperto io la porta, e non loro. Be’, pensavano che comunque il pericolo c’era, ma se ci fosse stata una bambina russa, i tedeschi se ne sarebbero andati subito. Nessuno capiva la situazione reale. Ed ecco, per qualche tempo ho abitato da loro. Poi naturalmente li hanno poratati via comunque, e sono morti. Febbraio, doveva essere l’undici febbraio. C’è stato lo sfondamento del fronte già nel punto dove vivevamo noi. Era il Donbass, la città di Krasnoarmejsk. E io sono corsa fuori in via Lenin, e là i feriti erano distesi semplicemente per strada. Non c’era nessun battaglione sanitario, nessuna infermiera. La gente perdeva sangue, gridava, e nessuno la salvava. Ho cominciato a trasportare i feriti nell’edificio del nostro poliambulatorio cittadino, che si trovava alcune vie più in là, in via Sverdlov. Mi è venuta subito l’idea che comunque quello era un istituto medico, bisognava salvare le persone e trasportarle là. Là ho dato loro da bere, li ho medicati, li ho consolati in qualche modo. C’era questo gruppo di feriti in quell’edificio vuoto del poliambulatorio, dove ho cercato di soccorrerli. E poi, già dopo qualche ora, è arrivato ufficialmente il battaglione sanitario. E così c’è stato lo sfondamento del fronte, e la battaglia per la città è continuata ancora. Una parte della città era delle truppe da sbarco, e una parte della città era dei tedeschi. E noi non abbiamo fatto in tempo a guardarci intorno, che qualcuno ha gridato alla finestra: «Arrivano i carri armati tedeschi!» Li chiamavano “tigri”. Che fare? Alcuni erano feriti leggermente, potevano camminare, ma una parte erano feriti gravemente. Così è maturata un’idea. Di notte, attraverso l’uscita posteriore, perché davanti a quella principale c’era una guardia, cercare di dare la possibilità di fuggire ai feriti meno gravi, perché si nascondessero dalla popolazione locale. Allora non c’erano passaporti, c’erano gli Ausweis. Erano dei certificati che rilasciava l’ufficio di collocamento. Be’, come un attestato che eri residente in quel luogo. Alla fine di marzo sono andato a lavorare all’ufficio di collocamento. E in agosto c’è stata la definitiva liberazione di quella località dai tedeschi. Cioè, ho lavorato là per un periodo piuttosto breve. Ma per quel periodo davvero mi sono procurato quegli Ausweis, anche se c’era pericolo di morte, per quei documenti falsi. E tutte le persone nascoste da noi sono state salvate. Fine dell’occupazione. Primo arresto. Dunque, è finita l’occupazione, sono arrivate le nostre truppe. Be’, qui, se fossi stata un po’ più intelligente, un po’ più calcolatrice, non avrei fatto il passo che, sconsideratamente, ho fatto. Che cosa ho fatto? La popolazione del territorio occupato non aveva diritto di spostamento, quando i nostri hanno occupato quelle truppe. Perché hanno iniziato le verifiche, là c’erano nemici del popolo, traditori della patria, traditori. Non lasciavano muovere un passo a nessuno, cioè trasferirsi in un’altra città. E a un tratto mi vado io stessa a cacciare in quelle fauci, e dico: datemi il permesso di andare a studiare all’università. Naturalmente non mi danno nessun certificato. Ed ecco mi sono ritrovata in quello scantinato, al mulino, alla fabbrica di farina, nel reparto femminile. E vicino c’era un enorme locale sotterraneo, dove si trovavano gli uomini. Tutti stipati come sardine in un barile. Non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è niente. E la gente non capisce, come all’inferno: che cosa succederà? Non si respira. È uno scantinato. Dunque, condizioni assolutamente antigieniche. E mi è venuta l’erisipela, un’infiammazione alla gamba. Perché stavamo in un tale sudiciume, che è cominciata anche la dissenteria, e Dio sa cosa. E a me è venuta l’erisipela. Secondo arresto e inchiesta E mi trovo a casa sotto cauzione, ma mi sembra che debba esserci stato un errore, io non ho nessuna colpa, ho salvato delle persone, devo andare all’università. Mi sembra perfino inverosimile. Era mai possibile che non capissi niente a questo modo, e solo perché volevo studiare, che agissi per la seconda volta allo stesso modo, quando la prima volta mi avevano già arrestato? E andai una seconda volta. Ma è andata ancora peggio. Dunque, mi gettarono in una fossa. In una parola, per quell’episodio, che avevo lavorato come interprete all’ufficio… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste
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Ioanna Murejkene ricorda: Gridavamo: “Libertà o morte” Ioanna Ulinauskajte è nata a Kaunas nel 1928. Nel 1940, quando la Lituania è stata unita all’Urss, sono cominciati gli arresti di massa. Il padre di Ioanna, Kazimiras Ulinauskajtis, è stato anch’egli arrestato e ha scontato la pena nei lager di Vorkuta. In famiglia non si sapeva nulla del suo destino. Nel 1944, dopo il ritorno dell’esercito sovietico, Ioanna ha sostenuto l’opposizione antisovietica, è stata arrestata e condannata a 10 anni di campi di lavoro correzionale, che ha scontati nella Repubblica dei Komi, a Tajšet e a Noril’sk. Ha partecipato attivamente alla rivolta del campo di Noril’sk. Nell’ottobre del 1956 il caso di Ioanna Ulinauskajte è stato riesaminato; poiché era stata arrestata ancora minorenne, è stata liberata ed tornata in Lituania. Si è iscritta alla facoltà di medicina specializzandosi in pediatria. Dal 1959 è sposata, ha cresciuto due figli. L’occupazione sovietica. L’arresto del padre, gennaio 1941 Poi ricordo quando nel ’40 sono entrati i russi, sì, le truppe sovietiche. Abitavamo non lontano dalla strada Kaunas-Vilnius, Kaunas-Marjampole-Vilnius. E per quella strada hanno iniziato a passare camion pieni di soldati, che cantavano. Ma erano tutti molto impolverati. Be’, sa, era stato un lungo viaggio. Alcuni di noi correvano, si congratulavano. Altri piangevano e dicevano che ormai le cose sarebbero andate male. Ma noi bambini eravamo contenti. E quando sono entrata in casa, avevamo una grande cucina, che era anche sala da pranzo. Ed era tutto sparpagliato per terra, tutte le cose, i libri, mio padre aveva moltissimi libri. Leggeva molto. Tutti i libri, tutta la roba, tutto era sparso per terra. Mia sorella gridava, piangeva, la mamma invece era seduta su una sedia e fissava un punto. Quando sono entrata, ho pensato: “Che cosa è successo?” E mia sorella ha detto: “Hanno preso papà. Hanno arrestato papà”. E così mi sono seduta vicino alla porta. Così hanno preso papà, e non l’ho più visto fino al ’54. L’hanno processato, noi abbiamo cercato molto, non sapevamo dove fosse. La mamma portava dei pacchi. All’inizio li prendevano, ma poi hanno smesso di accettarli. E non sapevamo più dove fosse. Allora si trovava al Forte IX, e là non accettavano pacchi, niente. L’occupazione tedesca, 1941-1944 Quando sono arrivati i tedeschi, abbiamo iniziato a cercare mio padre in tutte le prigioni. Perché cominciavano già a tornare dal carcere quelli che erano stati in prigione in Lituania o al Forte IX. E, sa, non lontano da Kaunas, a Petrasiunai, dicevano che avrebbero riesumato i corpi dei fucilati che erano stati in carcere. Là c’è un posto, pare che volessero fare un cimitero, lo avevano recintato, ma poi avevano vietato di fare il cimitero e così li portavano là, in quel bosco. La mamma dice: “Forse tu sarai più svelta a riconoscerlo”. Ha portato anche me. Sa, gli ebrei scavavano, scavavano, e trascinavano fuori i cadaveri, li adagiavano sul bordo. E tutti noi ci avvicinavamo, be’, ci mettevamo dei fazzoletti intorno alla bocca, ci avvicinavamo e li guardavamo. Li guardavamo uno per uno. E anch’io li ho guardavo uno per uno. Mi facevano una tale impressione. Quelli che trovavano i loro cari si mettevano subito a piangere, sa, quelli che li riconoscevano. E lì c’erano subito delle bare, e li deponevano e li portavano a seppellire. Ma noi non abbiamo trovato il nostro papà. Ingresso delle truppe sovietiche. Partecipazione alla resistenza contro il regime sovietico Be’, quando è stato oltrepassato il fronte, sa, io forse avevo già quindici anni. Ed ecco, hanno cominciato a reclutare i nostri uomini, a prenderli nell’esercito, e loro non volevano entrare nell’esercito. Sono andati nei boschi. È stato allora che anche molti nostri conoscenti sono andati nei boschi. Io andavo spesso nel villaggio dov’era nata la mamma. Là, in quel villaggio, viveva suo fratello, e c’erano i miei cugini. Be’ e allora mi è venuto in mente: ecco, vendicherò il papà, lavorerò. E ho iniziato ad aiutare con i volantini. Là nel bosco stampavano dei volantini, e così io andavo nel villaggio, prendevo questi volantini, e poi li distribuivo ai miei amici al ginnasio, poi ai conoscenti. La mamma non sapeva quel che facevo. E la mamma una volta mi ha sorpreso con quei volantini e con quella medicina. E si è raccomandata. La mamma si è tanto raccomandata, be’, ma io non le ho dato retta. Lei si angosciava molto, pregava: “Vattene di casa. Vai al villaggio. Vai da qualche parte dai parenti”. Ma io sapevo che, se fossi partita, avrebbero arrestato la mamma, allora l’avrebbero presa e portata via. E gli altri figli più piccoli di me, che fine avrebbero fatto? Così non sono andata al villaggio, non sono andata da nessuna parte, e ho aspettato che venissero a prendermi. E allora mi hanno preso quelli del controspionaggio. Era il ’45, sa, c’era il controspionaggio. L’arresto. Il lager sovietico E gli interrogatori si svolgevano sempre e soltanto di notte, mentre di giorno non ci lasciavano dormire. E non c’era modo di dormire, non davano niente per farsi un giaciglio, niente, niente. Solo sul pavimento di cemento. E quando sono stata arrestata era autunno, un cappotto autunnale, scarpette, non avevo nient’altro. Sì. E faceva così freddo che non potevo addormentarmi. E poi di giorno il sorvegliante non lasciava dormire. Tutto il tempo: “Non dormire. Sta seduta. O in piedi. O seduta”. E appena faceva notte, portavano all’interrogatorio. Ci hanno processato in quattordici. Il processo è durato tre giorni. Tre giorni. E anche il processo si è svolto sempre di notte. Ci hanno caricato nei vagoni. In un vagone cinquanta persone, moltissime, si stava molto stretti. Faceva freddo, era febbraio, faceva molto freddo. I vagoni semplicemente si coprivano di brina. E abbiamo viaggiato forse per due settimane. Abbiamo viaggiato per due settimane fino alla Pečora. Avevo una gran sete, perché ci davano da mangiare solo acciughe. I lavori erano di vario genere. Ci portavano a Sivomaskinskij a scaricare i vagoni. Era un lavoro pesante. Se portavano tavole di legno, bisognava scaricare… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste