Gli ultimi testimoni. Intervista

Leonid Jakovlevič Muravnik: Vita di un bambino abbandonato L. Ja. Muravnik è figlio di un funzionario di partito. Il padre e la madre sono stati fucilati nel 1937. Dall’età di 9 anni ha vissuto in vari orfanotrofi, dai quali è scappato ripetutamente, vivendo da vagabondo. È meccanico aeronautico e giornalista. ———- L’arresto dei genitori Il momento dell’addio a mia madre mi è rimasto impresso per tutta la vita. È avvenuto sul viale Petrovskij, c’era una panchina. L’ho vista per l’ultima volta su quella panchina, sul viale Petrovskij. E su quella panchina mi ha detto, in lacrime: “Lenik, figlio mio, non so se tornerò, non voglio illuderti. Nella vita non ti aiuterà mai nessuno, impara da te a superare le difficoltà. Impara a fidarti dei tuoi genitori e la vita sarà più facile”. Siamo andati dalla nonna, io ero sfinito, stremato, e mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato mia madre non c’era più. Era andata a Rostov. Non poteva andare in Siberia per motivi etici: come posso lasciare mio marito? Io devo salvarlo. Era così ingenua.   Vagabondando da un parente all’altro Naturalmente aspettavo con ansia mia madre. Quando sono arrivato dalla zia Olga, di notte, ho sentito che diceva al marito, lo zio Kostja: “No, dobbiamo sbarazzarci di quest’ospite. Se i čekisti lo venissero a sapere, arresterebbero i nostri ragazzi, Dio non voglia”. E la mattina mi ha detto: “Lenja, adesso fai colazione, poi vai dalla nonna”. Io ho fatto colazione, diligentemente, e sono andato dalla nonna, Berta Moiseeva: “Che ci fai qui?”. “Zia Olja mi ha detto di venire da te”. Tutti avevano paura. La nonna aveva tre figlie e queste tre figlie le aveva portate da qualche parte, Dio solo sa dove, perché potessero sopravvivere. Aveva paura che anche loro… Capiva che se i čekisti mi avessero catturato, avrebbero sofferto anche le figlie. Ci teneva alle figlie, comunque più alle figlie che al nipote. Erano state tutte espulse dal Komsomol. La nonna aveva detto: “Sbrigatevi a partire, così che il vostro spirito non resti qui”. Una volta, il bidello mi ha preso per il bavero e mi ha detto: “Len’ka, devi fuggire da qui, ti tengono d’occhio. Dove sono i tuoi genitori?”. Io rispondo: “Verrà. La mamma ha detto che verrà presto”. “Tua madre non verrà”.   Il centro di raccolta Danilovskij dell’NKVD Sono andato al Danilovka solo per dormire. Mi hanno portato nell’altare di destra. Hanno portato un materasso, una specie di cuscino imbottito di fieno e una specie di straccio. Io, poiché ero un ragazzo educato, mi sono tolto la giacca di velluto e i pantaloni. E mi sono messo a dormire. La mattina, come se nulla fosse, ci hanno portati alla mensa per mangiare polenta di grano saraceno con carne. Quello era il piatto forte. Cucinato benissimo, vischioso; una polenta non granulosa, una polenta di grano saraceno vischiosa con bocconi di carne. I bambini, spossati, leccavano le ciotole. Non scendeva in gola, quella carne, quel grano. Eravamo in uno stato di prostrazione tale che non pensavamo a nulla, non capivamo nulla. Come se non esistessimo realmente. Poi è arrivato il momento in cui hanno fatto alzare e schierare 15 di noi. Ci siamo schierati e ci hanno spinti su una macchina con la scritta “Sottoprodotti”. Ci hanno caricati su quella macchina e ci hanno portati alla stazione. Lungo la strada, una ragazza ha detto: “Dove ci portano, ci uccideranno?”. Ecco, ricordo ancora la sua voce angosciata. Poi siamo saliti sui vagoni e siamo partiti. C’era una guardia molto brava. Nella fondina portava il tabacco. Non aveva armi.   L’orfanotrofio di Geničesk Ognuno pensava tra sé: “Dove ci condurrà il destino?”. Non in prigione, comunque, bensì in orfanotrofio. E siamo passati sotto le arcate di quest’orfanotrofio. Là c’era quasi l’intero orfanotrofio ad attenderci. Ci hanno messo in isolamento. Appena ci hanno sistemato, dopo qualche minuto, arriva un quindicenne alto e robusto, abbronzato, forte, che dice: “Mi chiamo Kandyba. Sono l’atamano di quest’orfanotrofio. D’ora in poi sarete soggetti solo a me”. “Dimenticate il passato, voi non avete passato. Vi insegnerò io. Diverrete degli scapestrati e tra un mese vi assumerò”. Che cos’è uno scapestrato? Uno scapestrato deve saper rubare, infilarsi nelle tasche. Una volta imparato vi verrà naturale. Vi sazierete e così via”. Cosa ci hanno insegnato i bambini dell’orfanotrofio. Siamo andati al molo e abbiamo tolto i cerchi dalle botti, li abbiamo raddrizzati, affilati e in questo modo abbiamo ricavato delle sciabole. Di notte siamo andati con queste sciabole nel sottotetto, dove avevano appeso del pesce pregiato. Grondante e appetitoso. Il nostro compito era di – zac! Paf! E cadeva. Zac! E cadeva di nuovo, sottobraccio e via, all’orfanotrofio. Questo Kandyba aveva strettissimi legami con l’NKVD. Non sapeva quasi scrivere, ma ci hanno raccontato che trovava delle persone disposte a scrivere sotto dettatura. Scriveva dei rapporti su quello che facevamo, dove andavamo, se non andavamo a scuola, di cosa parlavamo e così via.   La fuga. L’orfanotrofio di Cholmsk Dopo esserci consultati, abbiamo deciso di scappare e nel ’40 l’abbiamo fatto. Siamo andati ad Arabat. Là, sulle rotaie c’erano dei camion che trasportavano la sabbia nelle industrie metallurgiche dell’Ucraina. Ci siamo nascosti nella sabbia e così siamo scappati dall’orfanotrofio di Geničesk. Naturalmente, arrivati a Zaporož’e siamo andati innanzitutto al mercato e le lezioni di Kandyba su come procacciarsi il pane si sono rivelate utili. Grazie ai furti ci siamo procurati non solo la panna acida, ma anche pane e focacce. Ai piedi della diga della centrale idroelettrica del Dnepr abbiamo trovato un bel posticino appartato, un pozzetto, dove abbiamo iniziato a mangiare la nostra preda. Era da quasi ventiquattr’ore che non mangiavamo nulla. Poi, di notte, siamo stati circondati dalla polizia. Ci hanno trasferiti in un altro orfanotrofio, quello di Cholmsk, dov’è iniziata un’altra fase della nostra infanzia. Era un bell’orfanotrofio, senza nessun atamano, con un consiglio dell’orfanotrofio e dove, tra l’altro, c’era un certo numero di bambini i cui genitori erano stati deportati e con i quali c’era un buon rapporto.   La… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

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“Magadan, davanti a noi…” Il trasferimento nella Kolyma. In virtù della sua posizione geografica, merci e lavoratori, compresi i forzati, potevano raggiungere la Kolyma soltanto via mare. La principale via di comunicazione andava da Vladivostok alla baia di Nagaev. Nel 1945 è stato aperto il porto di Vanino. ——— Semën Ivanovič Kolegaev Nato nel 1920. Ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale. Fatto prigioniero, è riuscito a scappare. Alla fine della guerra si trovava in Giappone. Arrestatao nel 1947, è stato condannato a 10 anni da scontare in campo di lavoro. Trasferito a Dal’nij (Cina) – Vladivostok – e nella baia di Nagaev nel 1949.   Ci hanno portati a Vladivostok con la nave “Stepan Razin”. Sulla nave c’è stata una ribellione, ma non da parte nostra. Noi abbiamo picchiato i criminali. Ci avevano messo nella stiva insieme a quella banda e ci avevano spogliato di tutto. Ci avevano offeso. Ci hanno preso lo zucchero che avevamo conservato per noi. Ci hanno preso tutto. Sulla nave si trovavano anche tre emigrate; una di diciassette anni, una di trentacinque e un’altra, probabilmente, di ventotto o venticinque. Una corda le separava da noi. Da quel lato c’era una guardia armata. Il bagno era un barile, un bugliolo con una vela appesa per coprirlo. Loro sono andate nel bagno e lì le hanno prese e violentate. Piangevano e imploravano. La guardia osservava, il caposcorta, non ha preso alcun provvedimento. Non ha preso nessun provvedimento, capisce. Con noi viaggiava un artigliere, un ricognitore aereo, Bulygin, un maggiore. Ci incoraggiava. Noi siamo di più. Loro sono undici. E fuori quanti siamo? Al segnale, prima di colazione, gli saltiamo addosso. Batterli per bene, dargliele. Ed è andata così. Ci siamo scagliati contro di loro, le guardie erano inesperte, erano ragazzini. Nella fretta hanno dimenticato le armi lì in un angolo. Sono schizzati via. Per farla breve, siamo arrivati a Vladivostok con la nave. Abbiamo visto macchine, soldati, BTR o come diavolo si chiamano. Ci stavano già aspettando. Avevamo provocato una rivolta. Si alza un colonnello, con lui ci sono dei soldati e anche un altro funzionario. “Raccogliete le armi”. Hanno disarmato i soldati che le portavano e li hanno arrestati; noi siamo stati mandati via.   Michail Iosifovič Tamarain Nato nel 1912, è stato arrestato a Mosca quando era ancora studente. Per cinque anni è stato prigioniero nei campi della Kolyma. Arrestato ripetutamente nel 1951, è stato condannato all’esilio a vita nella regione di Krasnojarsk. Trasferito a Mosca – Vladivostok – baia di Nagaev nel dicembre del 1937. Siamo arrivati, ci hanno portati qui a Vladivos/, fino a Vladivostok, ci hanno sistemato in un’enorme cella di transito. Un’enorme cella di transito. Oltretutto, in quella cella si trovava molta gente interessante, tra cui uno che chiamavano il morituro, tutto sporco. Sa, era il fratello di Lev Kassil’. Poi siamo stati caricati e trasferiti, siamo andati a piedi per Vladivostok fino al porto, poi sul, sul piroscafo.   Elena-Lidija Pavlovna Postnik È nata nel 1924. Nel ’42 si trovava nei territori occupati. È stata arrestata nel 1945 e condannata a 15 anni di lavori forzati. Trasferita dal Tajšetlag al porto di Vanino, alla baia di Nagaev nel 1949. Ci hanno portati nella baia di Vanino. Per qualche motivo, nel nostro ambiente veniva anche chiamato Tiškingrad. Era una spedizione enorme alle rive dello stretto di La Pérouse. E lì abbiamo trascorso tutta l’estate. Tutta l’estate. Ci mandavano solo, sa dove? Ci nutrivano molto bene. Ci si lavava sotto la pioggia, visto che c’erano certi acquazzoni. Eravamo solo donne. Ci si poteva lavare quanto si voleva. Ci hanno portato a bordo della nave Feliks Dzeržinskij. In realtà si trattava di una nave tedesca con palamiti catturata come trofeo. Naturalmente ci avevano messo nella stiva inferiore.   Vitautas Kazjulenis È nato nel 1930. È stato deportato dalla Lituania all’oblast’ di Tjumen’ insieme ai genitori nel 1947. Ha aderito all’organizzazione “Prisjaga v ssylke” (“Giuramento in esilio”). Nel 1951 è stato arrestato e condannato alla fucilazione. La condanna a morte è stata poi commutata in 25 anni di lager. Ha partecipato alla rivolta di Noril’sk del 1953. Trasferito nella Kolyma nel 1954, è stato liberato dal luogo di detenzione nel 1958. Ho visto allora per la prima volta un piroscafo, anche se sul Tobol viaggiavano imbarcazioni fluviali, piroscafi. La stiva era costituita da diversi piani. Mio Dio, quel piroscafo. Siamo saliti sulla passerella, al quarto, quinto piano. Quella era un’imbarcazione marittima.   Nikolaj Alekseevič Prjadilov Arrestato nel 1943, a sedici anni, è stato condannato 7 anni da scontare in un campo e trasferito nella Kolyma dall’Ozerlag (oblast’ di Irkutsk) nel 1949.   Là giravano criminali. Ho anche scritto su questo. Si sono intrufolati attraverso la ventila/ attraverso la ventilazione, i tubi di ventilazione, in un altro scompartimento e hanno portato via i viveri. Anche dalla nostra stiva hanno rubato i viveri. Lo spezzatino, il latte condensato e (ride). Quindi erano dei professionisti, tutti professionisti. Un ladro li ha trovati e li ha rubati. Ci siamo imbattuti in una tempesta nel mare di Ochotsk, non so a quale livello di forza fosse. Siamo finiti in una tempesta. Metà della nostra stiva era rovesciata.   Kazjulenis Allora, mi ricordo quando è iniziata la tempesta: ti scaraventa fuori dalle cuccette e appena il piroscafo s’impenna ti fa volare da qualche parte. Ed erano pochi quelli che riuscivano a mangiare.   Postnik Per due giorni non siamo riusciti a uscire dallo stretto La Pérouse. Alla fine siamo usciti. Quando abbiamo raggiunto il mare aperto ci hanno detto: “Chi vuole andare a respirare all’aria aperta lo può fare”. Come abbiamo fatto a camminare non lo ricordo. Ci siamo trascinati in coperta. Sono salita in coperta e mi sono sdraiata. Non avevo più forza. Hanno portato la zuppa di verdure e nient’altro. Il cielo sembrava triangolare.   Jurij L’vovič Fidel’gol’c È nato nel 1927. Studente alla scuola di teatro, è stato arrestato nel 1948 con l’accusa di aver formato un’organizzazione antisovietica e condannato a 10 anni da scontare in… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

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Il lavoro femminile nei campi Le donne, nei campi di lavoro staliniani, svolgevano le stesse mansioni degli uomini, nelle miniere, nel disboscamento, nelle costruzioni… Ma per le donne, che il campo privava della famiglia e della giovinezza, tali mansioni non erano soltanto gravose. Il lavoro comportava umiliazioni e violenza. ——– Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati giustiziati; il padre mediante fucilazione nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona di occupazione nell’oblast’ di Doneck. Dopo la liberazione dell’oblast’ da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata da organi dell’NKVD e condannata a 15 anni di lavori forzati. È stata rinchiusa a Vorkuta per 10 anni e riabilitata. È dottore in Scienze Tecniche. Vive a Mosca. La questione “uomo-donna” per noi era molto penosa. Le ragazze giovani cedevano subito a certe condizioni quando, ecco, i superiori, uomini, avanzavano determinate pretese. Se rifiutavi ti facevano scendere in miniera. E io scendevo molto velocemente, in miniera. E lì, sottoterra, ho svolto un lavoro per me nuovo, sui vagoncini. Allora non c’erano i cavalli sottoterra, negli anni di cui stiamo parlando. Sono comparsi dopo e i forzati, insieme ai cavalli, spingevano i vagoncini con il carbone attraverso la galleria. Io ero tra questi. Oppure si costruiva la ferrovia. Anche questo, tra l’altro, era una lavoro orribile. Sembrava già una buona cosa non lavorare in miniera. Com’era? Costruivamo una ferrovia che si allontanava sempre più dalla nostra zona. Quindi dovevamo camminare, camminare e camminare fino al luogo di lavoro. Alla fine facevamo dieci chilometri per arrivarci e lavoravamo per dieci ore all’aria aperta per costruire questa ferrovia. Poi, dieci chilometri per tornare. Non si trattava della miniera ma in superficie, per la ferrovia. Ma ci stancavamo così tanto, me lo ricordo ancora benissimo come se fosse adesso. Dieci chilometri all’andata e dieci al ritorno, con abiti pesanti, portandosi dietro i badili. Siamo caduti esanimi sulle cuccette senza neanche svestirci. Esanimi. I primi giorni non andavamo nemmeno a cena o a pranzo. Ci davano pranzo e cena insieme. Non avevamo la forza di andare alla mensa. Ioanna Murejkene (Ulinauskajte) è nata nel 1928 a Kaunas. Nel 1944, dopo il ritorno dell’esercito sovietico, ha appoggiato la resistenza antisovietica. È stata arrestata e condannata a 10 anni di campo di lavoro correzionale, scontati a Komi, Tajšet e Noril’sk fino al 1956. Ha partecipato attivamente alla rivolta del campo di Noril’sk. È una pediatra e vive a Vilnius. In generale lavoravamo in condizioni molto, molto dure. Ci portavano a scavare la torba. D’inverno bisognava scavare nella neve, ma la torba non gela, non gela. All’inizio trovi uno strato ghiacciato, poi trovi la torba tiepida. Non gela. A che scopo si scavava non si sa. Probabilmente ce la facevano scavare solo per farci lavorare. Si scavava questa torba bagnata con gli stivali, bagnati anch’essi, fradici. Stavamo tutto il giorno in quel pantano. Poi si tornava a casa, gli stivali gelavano. Non è facile raccontare. Arrivi е non c’è un posto in cui asciugarsi, di giorno bisogna far asciugare un po’ i vestiti e tutto il resto vicino alla stufa e alle botti. Noi lavoravamo là, abbattevamo gli alberi del bosco, li tagliavamo. La quota di produzione era molto alta. Bisognava abbattere sei pini alti con la sega manuale. Non meccanica, manuale. Gi-ru-gi-ru.. Si lavorava così, sa, poi si abbattevano. Fatto ciò, bisognava staccare i rami, in modo da poter tagliare l’albero in tre pezzi da sei metri e mezzo, tre pezzi. Sei pini così, era questa la norma. Un lavoro molto duro. Vera Jul’evna Chudjakova (Gekker) è nata a Potsdam nel 1922. In quello stesso anno, la famiglia si è trasferita nella Russia sovietica. Nel 1938 il padre è stato fucilato e la madre arrestata. Le sorelle Marsella, Alisa e Vera, studentesse al conservatorio, sono state arrestate nel settembre del ’42 e condannate a 5 anni. Vera ha scontato la pena nei campi di Kirghizistan, Uzbekistan, Siberia e Kazakistan. È un’insegnate di musica. Vive nell’oblast’ di Mosca. Certo, c’erano le norme. Ma il lavoro che facevo io non poteva avere alcuna relazione con le norme perché non si tratta di norme, in genere era così. cosa può fare, mettiamo, una donna malata o un’anziana o persone così? Noi non avevamo norme da rispettare. Semplicemente ognuno scavava come poteva. Si faceva molto poco, molto poco. Anna Matljuk (Peca) è nata nel 1927 nel villaggio di Tiškovcy, regione di Gorodenskij, oblast’ Stanislavskaja. Nel 1944 è stata arrestata con l’accusa di partecipazione a un’organizzazione ribelle ucraina e condannata a 10 anni di ITL. Ha scontato la pena partecipando alla costruzione del cantiere n. 501 e dopo la chiusura è stata trasferita nel Osoblag (regione di Irkutsk) per svolgere lavori edili generici. Riabilitata, ha lavorato come bambinaia negli asili nido. Vive nella città di Pečora, repubblica di Komi. Ci hanno portati fino al cantiere 501. Là c’erano 50-60 gradi sotto zero. Faceva un freddo terribile. E noi camminavamo. Ogni giorno c’era un controllo, per verificare che ci fossimo tutti, che eravamo arrivati vivi. Si vedeva solo la parte in basso, le facce no. Un gelo talmente forte e una tale brina. Immagini: le donne portavano le rotaie, spianavamo la strada. Per fare arrivare la ferrovia. La strada era tracciata, un po’. Sono arrivati i mezzi girevoli con sabbia e ghiaia e noi, per due giorni, abbiamo continuato a scaricarli nello stesso luogo. Andava a finire tutto da qualche parte, ecco, come un fiume, un ruscelletto. E noi trasportavamo le rotaie. Ricordo circa 19 ragazze, hanno preso 19 donne. In verità c’era un uomo, il capocantiere, no il caposquadra. Era il caposquadra. Aveva una certa asta. Misurava tutto. Аbbiamo posizionato le traversine. Tutte. Ecco, è così che ho scoperto quanto siano leggere le rotaie. Elena-Lidija Posnik (Koz’mina) è nata nel 1924. Nel 1945 è stata deportata e condannata a 15 anni di lavori forzati. Ha scontato la pena nell’oblast’ di Archangel’sk, regione di Krasnojarsk, e nella Kolyma. Riabilitata, ha lavorato come insegnante di tedesco. Vive… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

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Roza Šovkrinskaja ricorda: “affinché il ricordo di migliaia di destini come il mio rimanga vivo” Rosa Šovkrinskaja è nata nel 1930. Il padre, Jusup Šovkrinskij ha combattuto la guerra civile ed è stato a capo dell’ufficio propaganda e cultura del comitato di partito distrettuale del Daghestan. Nel 1937 è stato arrestato ed è morto nel lager di Vorkuta. La sorella Oktjabrina è stata arrestata all’età di 17 anni e condannata a 10 anni di lager. ———— L’arresto del padre La mamma veniva da una grande famiglia. Aveva cinque fratelli, che vivevano tutti in Russia e godevano di una buona reputazione. Hanno rifiutato la proposta di matrimonio di mio papà. Papà ha rapito mia madre che allora aveva solo 15 anni. Per prima cosa si sono trasferiti a Machačkala. Nel 1936, quando sono iniziate le repressioni, mio padre è stato arrestato. La mamma raccontava che sono arrivati tre uomini vestiti di nero. Una macchina nera era parcheggiata vicino all’ingresso del palazzo del governo in cui abitavamo. Papà li ha pregati: “Vengo da solo, non voglio che i bambini si agitino e piangano. Andate. Vi raggiungo”. Sono usciti e papà li ha seguiti. La mamma ci ha detto che il papà era in missione. Ma non lo abbiamo più rivisto. Papà è rimasto tre anni nel carcere di Machačkala. Papà è stato interrogato e torturato per tre anni, in prigione per tre anni, cambiavano gli inquirenti. Ha scritto tutto questo e l’ha trasmesso tramite i secondini. Ha spedito anche varie lettere a Stalin. I guardiani ci hanno consegnato gli appunti di papà in cui descriveva le torture e i maltrattamenti. Uno di questi guardiani, che a quanto pare aveva personalmente assistito, descriveva come durante uno degli interrogatori papà, sfinito e fuori di sé, l’aveva picchiato con una sedia. In seguito è stato trasferito in una cella da solo. Papà è stato per tre anni in prigione, in segregazione. Dopo tre anni è iniziato il processo. Ci sono state deposizioni e hanno chiamato un nuovo inquirente. Si è riunita una trojka che lo ha condannato a otto anni.   Tutti consigliavano di abbandonare il cognome di famiglia Papà diceva: “Se abbandoni il cognome di famiglia, per i bambini sarà un duro colpo. I bambini penseranno che sono davvero un traditore, un nemico del popolo. Fa capire loro che sono un comunista retto e che non ho mai tradito”.  Era membro del partito da quando aveva 18 anni. E quante volte mamma è stata chiamata. E tutti le consigliavano: “Metti da parte il cognome, e vedrai che i bambini non avranno problemi ad andare a  scuola”. La mamma era bella, di bella presenza e prosperosa. Non dimenticherò mai di quando mia cugina mi ha raccontato di un inquirente che aveva trattenuto la mamma per più ore. E mio fratello più piccolo, Hussein, aveva solo 6 mesi. L’ha trattenuta per più ore e mamma gli diceva che doveva allattare il bambino e che le sue mammelle erano già gonfie. Lui l’ha trattenuta lo stesso. A quel punto – così raccontava mia cugina – la mamma ha tirato fuori il seno e gli ha spruzzato il latte direttamente sul volto. L’ha lasciata andare. La mamma è rimasta una settimana a letto cercando di riprendersi. Ma non ha cambiato il cognome. Fino alla fine abbiamo mantenuto il nostro nome di famiglia “Šovkrinskaja”.   Incontro in prigione Papà, dopo essere stato assegnato ad un trasporto di prigionieri, ha ricevuto l’autorizzazione per un incontro. Mamma aveva fatto di tutto perché questo avvenisse. La sorella di papà si è versata un sorso di cognac e ne ha dato un po’ anche alla mamma. Si sono fatte coraggio e sono andate all’incontro. Quando sono arrivate al carcere in via Puškin a Machačkala, le hanno fatte entrare. Raccontava che c’erano reti, porte e serrature ovunque e tutto d’un tratto si sono fermate. La zia aveva inculcato alla mamma: “Nessuna lacrima! Guai se mio fratello ti vede piangere!”. Karr-karr-karr risuonava il ferro. Hanno fatto entrare papà. È entrato e non appena ha visto la mamma e sua sorella gli sono scese le lacrime. La sorella ha detto: “Tu! Tu! Che uomo sei se mostri le lacrime? Tu, tu! Non ti considero un uomo e nemmeno mio fratello!”. A quel punto lui ha alzato le sue braccia ammanettate, ha agitato i piedi e ha detto: “Non piango perché mi hanno condannato e ora mi deportano. Non sono stato condannato da un tribunale sovietico, ma da un tribunale feudale preistorico”. E ha mostrato le sue mani incatenate.   Fuga da Machačkala La sera stessa la mamma ha fatto le valigie e nella notte ce ne siamo andati. In direzione dell’aul, a 180 km di distanza. Pioveva. Allora le strade non erano come oggi. Ovunque c’era sporcizia. Le strade erano così pericolose – da un lato c’era il dirupo, dall’altro la montagna. Questi percorsi erano dissestati. L’autista era russo e si chiamava probabilmente Kolja, ma non so perché la mamma lo chiamava Vakolin’ka. Siamo arrivati nel centro abitato. In passato, al nostro arrivo ci accoglievano tutti. Nemmeno un’anima. Non è venuto nessuno a salutarci. L’autista ci ha aiutato, siamo entrati in casa e siamo rimasti lì. Questo è stato il nostro arrivo all’aul, grazie all’aiuto di quella brava persona. Siamo rimasti all’aul.   Come siamo stati accolti all’aul Dopo il nostro arrivo nell’aul, quando il primo giorno siamo usciti – non so chi l’avesse insegnato ai bambini – i bambini non sapevano il russo – i bambini ci hanno bloccato la strada. “Trockisti! Trockisti!”. Da chi avranno mai imparato quella parola? Siamo scoppiati a piangere, siamo tornati a casa e abbiamo detto: “Mamma, non usciremo più, non andremo più in quella scuola”. Siamo rimasti all’aul. La mamma non poteva lavorare nel kolchoz e noi non potevamo andare a scuola. Non potevamo comprare nel negozio. La mamma è stata classificata come contadino individuale. A quei tempi i contadini dei kolchoz venivano tassati in modo molto elevato, ma i contadini individuali subivano una tassazione doppia. Tutti pensavano… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste

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Figli dei “nemici del popolo”: ricordi di Leonid Muravnik, Elizaveta Rivčun, Valentina Tichanova, Ol’ga Cybul’skaja e Roza Šovkrinskaja ——- Arresto del padre Leonid Muravnik – Figlio di un funzionario di partito. Il padre e la madre sono stati fucilati nel 1937. Dall’età di 9 anni è stato inviato in diverse case per l’infanzia da cui è sempre fuggito finendo quindi per vagabondare. Muravnik: Dato che vivevamo in una sola stanza, quando il papà tornava dal lavoro stanco, pensieroso intorno a mezzanotte mi capitava spesso di sentirlo discutere animatamente con la mamma. Lei gli diceva: “Jaša, hai sentito? Hanno arrestato Larin” e il papà rispondeva: “Ho sentito”. “Jaša, hai sentito? Hanno arrestato Orlov”. “Ho sentito”.  La mamma rispondeva: “Ma tu cosa pensi di tutto questo?” e lui rispondeva: “Il partito sa quello che sta facendo”. La risposta era sempre la stessa: “Il partito sa quello che sta facendo”. Era un uomo fanatico, ma cosa altro avrebbe potuto dirle? Niente. Ed è arrivato il fatidico giorno 25 maggio, quando un’operazione organizzata, non c’è che dire ben organizzata, è stata messa in atto: hanno arrestato tutti! Hanno riunito il Bjuro del comitato distrettuale del partito ad una conferenza e li hanno arrestati tutti dal primo all’ultimo. Valentina Tichanova – Figlia adottiva del Commissario del popolo della giustizia della RSFSR. Il patrigno e la madre sono stati fucilati e Valentina a 4 anni è stata inviata in una casa  per l’infanzia a Dnepropetrovsk. Tichanova: Era l’11 settembre. Di notte sono stata svegliata da un rumore, da dei suoni indefiniti. Ho indossato la vestaglia, sono uscita dalla mia stanza, ho attraversato il corridoio e sono arrivata alla porta dello studio in cui la luce era accesa. Sulla porta c’era Lukinična, la nostra domestica, e nella stanza c’erano due uomini, uno dei quali teneva in mano la cornetta del telefono e diceva: “Sì, abbiamo finito. Abbiamo fatto tutto. Sì, va bene”. E ha riattaccato. L’unica cosa che poi ricordo è che mi sono ritrovata sulla porta che piangevo. Elizaveta Rivčun – Figlia del musicista David Gejgner. Nel 1935 la famiglia era rientrata dalla Cina in URSS e nel 1938 David Gejgner è stato fucilato. Rivčun: Ecco quello che mi ricordo dell’ultima notte con mio padre. Quando tutti sono usciti, siamo rimasti seduti e impietriti fino alla mattina seguente. La mattina sono andata a scuola con mio fratello e la mamma ha corso per le varie prigioni in cerca del papà. Dopo alcuni giorni ha trovato il suo nome nelle liste della prigione Butyrka. Per due mesi hanno accettato di recapitargli la posta e dei soldi, ma poi hanno detto che era stato mandato in un altro luogo e che non era più nelle liste. Con questo abbiamo ogni traccia del papà.   I nostri conoscenti avevano paura di frequentarci Rivčun: Semplicemente ci hanno isolati. Hanno smesso di telefonarci e nessuno veniva a trovarci. I nostri conoscenti avevano paura.Temevano per la loro vita. Tutto questo l’ho capito solo dopo. Allora, capivo solo che eravamo soli. All’inizio non hanno permesso a mia madre di lavorare. Figuratevi che temevo che il direttore mi chiamasse e mi dicesse che non potevo più andare a scuola, perché “il tuo papà è un nemico del popolo e tu non puoi andare a scuola”. Sovkrinskaja Roza Jusupovna – Il padre, membro del comitato regionale del partito del Dagestan, è morto in prigione. La sorella, Oktjabrina, è stata condannata a 10 anni di lager. Šovkrinskaja: Dopo il nostro arrivo nell’aul, quando il primo giorno siamo usciti, non so chi l’avesse insegnato ai bambini – i bambini non sapevano il russo – i bambini ci hanno bloccato la strada: “Trockisti! Trockisti!”. Da chi avranno mai imparato quella parola? Siamo scoppiati a piangere. Siamo tornati a casa e abbiamo detto: “Mamma non usciamo più. Non andremo più in quella scuola”. Muravnik: Quando andavo dalla zia Olja, sentivo che di notte diceva a suo marito e al nonno Kostja: “Noi non lo possiamo tenere. Se lo vengono a sapere i čekisti arrestano i nostri bambini”. E la mattina mi diceva: “Lenja, fai colazione e vai dalla nonna”. Io facevo colazione in silenzio e andavo dalla nonna. Arrivavo da Berta Mojseevna “Che ci fai qui?”. “La zia Olja mi ha detto di venire da voi”. Ma anche la nonna non era contenta della mia presenza. “Nonna, ma dov’è il problema? Perché?”. “Perché tu sei marchiato”. “Ma come marchiato?” “Quando il nonno verrà a sapere che sei venuto si arrabbierà molto”.   Arresto della madre Muravnik: Ci siamo incontrati per l’ultima volta su una panchina del boulevard Petrovskij. Lei, in lacrime, mi ha detto: “Lenik, figlio mio, non so se tornerò. Non voglio ingannarti. Ma voglio che tu cresca come un uomo onesto e che tu impari da solo a superare le difficoltà. Nessuno in questa vita ti aiuterà, per cui impara da solo ad affrontare le situazioni. Credi nei tuoi genitori perché ti aiuterà nella vita”. Siamo andati dalla nonna e mi sono sdraiato affranto fino a quando non mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato la mamma non c’era più. Rivčun: La mamma era a letto. Aveva la febbre a 38 ed era raffreddata. Sono arrivati e lei ha detto: “Sono malata”. “Ma noi la tratterremo per poco tempo. Suo marito non si ricorda molto e lei ci aiuterà”. Lei ha risposto: “Ho la febbre”. “Ma noi vi riporteremo a casa”. Lei si è alzata, si è coperta ed è uscita con le pantofole calde. Se n’è andata. È tutto. Non l’abbiamo più vista. In seguito si è saputo che era stata fucilata.   Casa per l’infanzia Tichanova: Quando sono arrivata, dietro ad un tavolo sedeva un certo nonno Miša in uniforme militare. Non ricordo cosa gli ho chiesto ma ricordo che lui mi ha detto: “Lei resterà qui”. Ma ricordo perfettamente di essermi molto spaventata. Lui ha detto: “La manderemo in una casa per l’infanzia”. Muravnik: Ad un certo punto di notte sono venuti a prenderci. Eravamo circa una quindicina. Ci hanno messo su una… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

Gli ultimi testimoni. Interviste

Elena Markova ricorda: forzata Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati vittime di repressioni, il padre fucilato nel 1937. Nel 1941-43 si trovava nel territorio occupato della regione di Doneck. Dopo la liberazione della regione da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata dagli organi dell’Nkvd e condannata a 15 anni di lavori forzati. Per 10 anni è stata detenuta al Vorkutlag. Riabilitata. È dottore in scienze tecniche. ——— Be’, se parliamo della rovina di quella generazione, dunque mio papà, insegnante, è stato sottoposto a repressioni e fucilato nel ’37, durante il grande terrore. La mamma è stata arrestata nel ’38. Ed ecco mi hanno proposto di scrivere una dichiarazione per il giornale murale, che rinnegavo i miei genitori e così via, che ero una patriota. Ma non l’ho fatto.   Inizio della II guerra mondiale. La vita sotto l’occupazione E così, l’inizio della guerra. Naturalmente era svanito il mio sogno di andare all’università. Nonostante fossi figlia di una vittima delle repressioni, allora non capivo che forse all’università non mi avrebbero preso. Dunque, avevano ceduto il Donbass senza combattimenti. Perciò sulla linea del fronte, ecco, quando i tedeschi avanzavano e noi ci ritiravamo, non capivamo neanche cosa stesse succedendo. Non tutti gli ebrei sono riusciti a sfollare, perché semplicemente non c’erano mezzi. Be’, a piedi, andavamo a piedi. Ed ecco un altro dettaglio di una famiglia ebrea che conoscevamo bene. Li ricordo dall’infanzia, erano molto amici del papà e della mamma. C’erano due sorelle, medici. Hanno caricato un po’ di masserizie, sono partiti. C’era un cavallino, o due. Dopo aver fatto un po’ di strada, si è scoperto che davanti c’erano già i tedeschi. Sono tornati. Ed ecco, quando sono tornati, e qui erano già arrivati i tedeschi, mi hanno chiesto di abitare per un po’ da loro, così, se fossero arrivati i tedeschi, avrei aperto io la porta, e non loro. Be’, pensavano che comunque il pericolo c’era, ma se ci fosse stata una bambina russa, i tedeschi se ne sarebbero andati subito. Nessuno capiva la situazione reale. Ed ecco, per qualche tempo ho abitato da loro. Poi naturalmente li hanno poratati via comunque, e sono morti. Febbraio, doveva essere l’undici febbraio. C’è stato lo sfondamento del fronte già nel punto dove vivevamo noi. Era il Donbass, la città di Krasnoarmejsk. E io sono corsa fuori in via Lenin, e là i feriti erano distesi semplicemente per strada. Non c’era nessun battaglione sanitario, nessuna infermiera. La gente perdeva sangue, gridava, e nessuno la salvava. Ho cominciato a trasportare i feriti nell’edificio del nostro poliambulatorio cittadino, che si trovava alcune vie più in là, in via Sverdlov. Mi è venuta subito l’idea che comunque quello era un istituto medico, bisognava salvare le persone e trasportarle là. Là ho dato loro da bere, li ho medicati, li ho consolati in qualche modo. C’era questo gruppo di feriti in quell’edificio vuoto del poliambulatorio, dove ho cercato di soccorrerli. E poi, già dopo qualche ora, è arrivato ufficialmente il battaglione sanitario. E così c’è stato lo sfondamento del fronte, e la battaglia per la città è continuata ancora. Una parte della città era delle truppe da sbarco, e una parte della città era dei tedeschi. E noi non abbiamo fatto in tempo a guardarci intorno, che qualcuno ha gridato alla finestra: «Arrivano i carri armati tedeschi!» Li chiamavano “tigri”. Che fare? Alcuni erano feriti leggermente, potevano camminare, ma una parte erano feriti gravemente. Così è maturata un’idea. Di notte, attraverso l’uscita posteriore, perché davanti a quella principale c’era una guardia, cercare di dare la possibilità di fuggire ai feriti meno gravi, perché si nascondessero dalla popolazione locale. Allora non c’erano passaporti, c’erano gli Ausweis. Erano dei certificati che rilasciava l’ufficio di collocamento. Be’, come un attestato che eri residente in quel luogo. Alla fine di marzo sono andato a lavorare all’ufficio di collocamento. E in agosto c’è stata la definitiva liberazione di quella località dai tedeschi. Cioè, ho lavorato là per un periodo piuttosto breve. Ma per quel periodo davvero mi sono procurato quegli Ausweis, anche se c’era pericolo di morte, per quei documenti falsi. E tutte le persone nascoste da noi sono state salvate.   Fine dell’occupazione. Primo arresto. Dunque, è finita l’occupazione, sono arrivate le nostre truppe. Be’, qui, se fossi stata un po’ più intelligente, un po’ più calcolatrice, non avrei fatto il passo che, sconsideratamente, ho fatto. Che cosa ho fatto? La popolazione del territorio occupato non aveva diritto di spostamento, quando i nostri hanno occupato quelle truppe. Perché hanno iniziato le verifiche, là c’erano nemici del popolo, traditori della patria, traditori. Non lasciavano muovere un passo a nessuno, cioè trasferirsi in un’altra città. E a un tratto mi vado io stessa a cacciare in quelle fauci, e dico: datemi il permesso di andare a studiare all’università. Naturalmente non mi danno nessun certificato. Ed ecco mi sono ritrovata in quello scantinato, al mulino, alla fabbrica di farina, nel reparto femminile. E vicino c’era un enorme locale sotterraneo, dove si trovavano gli uomini. Tutti stipati come sardine in un barile. Non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è niente. E la gente non capisce, come all’inferno: che cosa succederà? Non si respira. È uno scantinato. Dunque, condizioni assolutamente antigieniche. E mi è venuta l’erisipela, un’infiammazione alla gamba. Perché stavamo in un tale sudiciume, che è cominciata anche la dissenteria, e Dio sa cosa. E a me è venuta l’erisipela.   Secondo arresto e inchiesta E mi trovo a casa sotto cauzione, ma mi sembra che debba esserci stato un errore, io non ho nessuna colpa, ho salvato delle persone, devo andare all’università. Mi sembra perfino inverosimile. Era mai possibile che non capissi niente a questo modo, e solo perché volevo studiare, che agissi per la seconda volta allo stesso modo, quando la prima volta mi avevano già arrestato? E andai una seconda volta. Ma è andata ancora peggio. Dunque, mi gettarono in una fossa. In una parola, per quell’episodio, che avevo lavorato come interprete all’ufficio… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste

Gli ultimi testimoni. Interviste

Ioanna Murejkene ricorda: Gridavamo: “Libertà o morte” Ioanna Ulinauskajte è nata a Kaunas nel 1928. Nel 1940, quando la Lituania è stata unita all’Urss, sono cominciati gli arresti di massa. Il padre di Ioanna, Kazimiras Ulinauskajtis, è stato anch’egli arrestato e ha scontato la pena nei lager di Vorkuta. In famiglia non si sapeva nulla del suo destino. Nel 1944, dopo il ritorno dell’esercito sovietico, Ioanna ha sostenuto l’opposizione antisovietica, è stata arrestata e condannata a 10 anni di campi di lavoro correzionale, che ha scontati nella Repubblica dei Komi, a Tajšet e a Noril’sk. Ha partecipato attivamente alla rivolta del campo di Noril’sk. Nell’ottobre del 1956 il caso di Ioanna Ulinauskajte è stato riesaminato; poiché era stata arrestata ancora minorenne, è stata liberata ed tornata in Lituania. Si è iscritta alla facoltà di medicina specializzandosi in pediatria. Dal 1959 è sposata, ha cresciuto due figli.   L’occupazione sovietica. L’arresto del padre, gennaio 1941 Poi ricordo quando nel ’40 sono entrati i russi, sì, le truppe sovietiche. Abitavamo non lontano dalla strada Kaunas-Vilnius, Kaunas-Marjampole-Vilnius. E per quella strada hanno iniziato a passare camion pieni di soldati, che cantavano. Ma erano tutti molto impolverati. Be’, sa, era stato un lungo viaggio. Alcuni di noi correvano, si congratulavano. Altri piangevano e dicevano che ormai le cose sarebbero andate male. Ma noi bambini eravamo contenti. E quando sono entrata in casa, avevamo una grande cucina, che era anche sala da pranzo. Ed era tutto sparpagliato per terra, tutte le cose, i libri, mio padre aveva moltissimi libri. Leggeva molto. Tutti i libri, tutta la roba, tutto era sparso per terra. Mia sorella gridava, piangeva, la mamma invece era seduta su una sedia e fissava un punto. Quando sono entrata, ho pensato: “Che cosa è successo?” E mia sorella ha detto: “Hanno preso papà. Hanno arrestato papà”. E così mi sono seduta vicino alla porta. Così hanno preso papà, e non l’ho più visto fino al ’54. L’hanno processato, noi abbiamo cercato molto, non sapevamo dove fosse. La mamma portava dei pacchi. All’inizio li prendevano, ma poi hanno smesso di accettarli. E non sapevamo più dove fosse. Allora si trovava al Forte IX, e là non accettavano pacchi, niente.   L’occupazione tedesca, 1941-1944 Quando sono arrivati i tedeschi, abbiamo iniziato a cercare mio padre in tutte le prigioni. Perché cominciavano già a tornare dal carcere quelli che erano stati in prigione in Lituania o al Forte IX. E, sa, non lontano da Kaunas, a Petrasiunai, dicevano che avrebbero riesumato i corpi dei fucilati che erano stati in carcere. Là c’è un posto, pare che volessero fare un cimitero, lo avevano recintato, ma poi avevano vietato di fare il cimitero e così li portavano là, in quel bosco. La mamma dice: “Forse tu sarai più svelta a riconoscerlo”. Ha portato anche me. Sa, gli ebrei scavavano, scavavano, e trascinavano fuori i cadaveri, li adagiavano sul bordo. E tutti noi ci avvicinavamo, be’, ci mettevamo dei fazzoletti intorno alla bocca, ci avvicinavamo e li guardavamo. Li guardavamo uno per uno. E anch’io li ho guardavo uno per uno. Mi facevano una tale impressione. Quelli che trovavano i loro cari si mettevano subito a piangere, sa, quelli che li riconoscevano. E lì c’erano subito delle bare, e li deponevano e li portavano a seppellire. Ma noi non abbiamo trovato il nostro papà.   Ingresso delle truppe sovietiche. Partecipazione alla resistenza contro il regime sovietico Be’, quando è stato oltrepassato il fronte, sa, io forse avevo già quindici anni. Ed ecco, hanno cominciato a reclutare i nostri uomini, a prenderli nell’esercito, e loro non volevano entrare nell’esercito. Sono andati nei boschi. È stato allora che anche molti nostri conoscenti sono andati nei boschi. Io andavo spesso nel villaggio dov’era nata la mamma. Là, in quel villaggio, viveva suo fratello, e c’erano i miei cugini. Be’ e allora mi è venuto in mente: ecco, vendicherò il papà, lavorerò. E ho iniziato ad aiutare con i volantini. Là nel bosco stampavano dei volantini, e così io andavo nel villaggio, prendevo questi volantini, e poi li distribuivo ai miei amici al ginnasio, poi ai conoscenti. La mamma non sapeva quel che facevo. E la mamma una volta mi ha sorpreso con quei volantini e con quella medicina. E si è raccomandata. La mamma si è tanto raccomandata, be’, ma io non le ho dato retta. Lei si angosciava molto, pregava: “Vattene di casa. Vai al villaggio. Vai da qualche parte dai parenti”. Ma io sapevo che, se fossi partita, avrebbero arrestato la mamma, allora l’avrebbero presa e portata via. E gli altri figli più piccoli di me, che fine avrebbero fatto? Così non sono andata al villaggio, non sono andata da nessuna parte, e ho aspettato che venissero a prendermi. E allora mi hanno preso quelli del controspionaggio. Era il ’45, sa, c’era il controspionaggio.   L’arresto. Il lager sovietico E gli interrogatori si svolgevano sempre e soltanto di notte, mentre di giorno non ci lasciavano dormire. E non c’era modo di dormire, non davano niente per farsi un giaciglio, niente, niente. Solo sul pavimento di cemento. E quando sono stata arrestata era autunno, un cappotto autunnale, scarpette, non avevo nient’altro. Sì. E faceva così freddo che non potevo addormentarmi. E poi di giorno il sorvegliante non lasciava dormire. Tutto il tempo: “Non dormire. Sta seduta. O in piedi. O seduta”. E appena faceva notte, portavano all’interrogatorio. Ci hanno processato in quattordici. Il processo è durato tre giorni. Tre giorni. E anche il processo si è svolto sempre di notte. Ci hanno caricato nei vagoni. In un vagone cinquanta persone, moltissime, si stava molto stretti. Faceva freddo, era febbraio, faceva molto freddo. I vagoni semplicemente si coprivano di brina. E abbiamo viaggiato forse per due settimane. Abbiamo viaggiato per due settimane fino alla Pečora. Avevo una gran sete, perché ci davano da mangiare solo acciughe. I lavori erano di vario genere. Ci portavano a Sivomaskinskij a scaricare i vagoni. Era un lavoro pesante. Se portavano tavole di legno, bisognava scaricare… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste