Nelle miniere di Vorkuta, nelle cave della Kolyma. Il lavoro nei lager In tutte le fabbriche dell’URSS era esposto un cartello con queste parole di Stalin: “Il lavoro in un paese sovietico è una questione d’onore, di gloria, di valore ed eroismo!”. I detenuti dei lager staliniani, il cui lavoro si era trasformato in una tortura e umiliazione infinte, sapevano bene quanto cinismo vi fosse in quelle parole. Ecco il loro racconto. ———- Elena Vladimirovna Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati giustiziati nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona occupata. Dopo la liberazione della regione da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata dagli organi dell’NKVD. È stata rinchiusa nel campo di Vorkuta per 10 anni. Dunque, siamo finiti nella miniera. Ci hanno sbattuti lì dopo l’appello, dopo il viaggio sul convoglio, ecc., ecc.. Ci siamo avvicinati a quelle nere fauci spalancate. Era la discesa che portava alla miniera. La miniera 9 aveva una perforazione orizzontale. Ci siamo addentrati nell’oscurità con le lanterne da minatore, che producevano una luce fioca, tremolante, che non illuminava nulla. Siamo scesi attraversando le passerelle, sprofondando e cadendo fino ad arrivare alla nostra galleria. L’abbiamo raggiunta. Io sono stata assegnata al nastro trasportatore. Era come un circuito sul quale veniva trasportato il carbone dal luogo di estrazione fino ai vagoncini che attraversavano la galleria. Il mio compito era spingere avanti il carbone. Ero ai lavori forzati, quindi dovevo stare lì in piedi, vicino al nastro, e spingere, spingere, spingere velocemente il carbone con una pala. Ma non ce la facevo, soprattutto all’inizio, non ci riuscivo. Là, sopra, si estraeva il carbone. E il carbone aumentava, aumentava, aumentava. Così il nastro trasportatore, che dalla cava giungeva alla linea di trasporto, s’intasava. Allora accorreva il caposquadra. Da noi i capi, i capisquadra, erano dei delinquenti. Cominciava a picchiarmi. Ecco, il primo giorno che sono finita nella miniera è andata così. Lavoravo sui vagoncini. Dopo la miniera numero nove ci hanno mandati nella numero due dove, sottoterra, ho svolto un lavoro per me nuovo, sui vagoncini. Sottoterra non c’erano cavalli. Ma solo negli anni di cui stiamo parlando. Poi sono arrivati anche i cavalli. Allora i forzati, insieme a loro, spingevano i vagoncini con il carbone attraverso la galleria. E io ero tra questi. Avvenivano molti incidenti. C’erano sempre nuovi trasferimenti di detenuti, anche donne. In uno di questi nuovi trasferimenti era capitata una ragazza molto giovane, avrà avuto diciotto anni. Noi ne avevamo già venti, ventidue, ventitre; mentre lei era molto giovane e anche molto bella. All’inizio tutti sono rimasti colpiti dalla sua bellezza. Naturalmente non soltanto noi, ma anche gli uomini. Volevano sistemarla da qualche parte, ma non sapevano dove. Hanno litigato ed è stata mandata in miniera. E cosa crede che sia successo? È stata assegnata al trasporto. Il primo giorno ha avuto un incidente e le hanno amputato tutt’e due le gambe. Michail Iosifovič Tamarin è nato nel 1912. Studente, è stato arrestato a Mosca nel 1937. È rimasto fino al 1942 nei campi della Kolyma. Arrestato ripetutamente, è stato condannato all’esilio a vita nella regione di Krasnojarsk. Così mi sono ritrovato nella miniera di Berzin, sì era la miniera di Berzin. L’insegna diceva così: “Miniera di Berzin”, poi l’hanno ribattezzata Verchnij At-Urjach, perché Berzin, alla fine, è stato arrestato. Ho passato cinque anni in quel campo, esattamente cinque anni. Di solito facevamo il turno di notte, nella galleria, a dissotterrare la cosiddetta torba, lo strato superficiale che ricopre lo strato aurifero. Lo strato aurifero si trova sempre sott’acqua, per questo bisognava sciogliere il ghiaccio perenne. Si lavorava sempre nell’acqua. Ecco, noi lavoravamo sempre di notte; ci costringevano a lavorare molto, ovviamente; il turno iniziava intorno alle cinque del mattino, o alle sei, e finiva il mattino dopo. Cambiava il personale di scorta e noi restavamo fino al raggiungimento della quota di produzione. Se la quota non era stata raggiunta non permettevano a nessuno di uscire dalla miniera. Avevamo a disposizione solo qualche strumento: piccone, pala, piccozza, carriola e basta, questi erano i nostri strumenti. Quindi, si trasportava sulle carriole, si caricava sui vagoncini, che attraverso il cavalcavia salivano sul monte di ganga, e qui si scaricava dalle carriole. Io rimanevo in piedi, rivolto verso i vagoncini, pronto a riceverli. Una volta mi si è attorcigliato un cavo attorno alla giacca imbottita e sono rimasto appeso, mentre il cavo era in movimento. Ancora cinque minuti e sarei morto. Ma, per fortuna, lì si trovava uno che è corso verso l’interruttore e ha fermato il nastro trasportatore. La cosa interessante è stato l’arrivo di un giovane, un giovane con la gamba amputata. Lavorava in una squadra, d’inverno. Mentre stava lavorando, la parte rocciosa del terreno è crollata colpendolo alla gamba. Nemmeno venti persone con le piccozze sono riusciti a smuoverlo. Hanno chiamato un certo Tokmakov che, lì sul posto, gli ha amputato la gamba e, senza gambe, il giovane è stato portato in infermeria. Una tortura nella tortura, lei non può immaginarsi, quando alle sette ti mandano in miniera, fino alle sette, almeno fino alle sette del mattino, e lavori di notte, al freddo, mentre le guardie fanno un falò standosene al caldo. Chiamano qualche scemo come me per farsi portare dei rami, o qualcosa del genere, per il falò. Poi, di nuovo al lavoro. Vitautas Kazjulenis è nato nel 1930. Nel 1947 è stato mandato in esilio dalla Lettonia all’oblast’ di Tjumen’ insieme ai genitori. Ha aderito all’organizzazione “Prisjaga v ssylke” (“Giuramento in esilio”). Nel 1951 è stato arrestato e condannato alla fucilazione. La condanna a morte è stata poi commutata in 25 anni di lager. Ha partecipato alla rivolta di Noril’sk del 1953. Trasferito nella Kolyma nel 1954, è stato liberato dal luogo di detenzione nel 1958. Allora ci hanno fatto fare altri 400 chilometri circa, fino alle miniere d’oro. Nella regione di Jagodinsk, distretto di Utinyj, miniera di Cholodnaja. Il campo si chiamava Cholodnyj (Freddo), e faceva freddo davvero. Sorgeva… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste