Susanna Pečuro: “Volevamo parlare liberamente” Susanna Solomonovna Pečuro è nata a Mosca nel 1933. Negli ultimi anni di scuola ha aderito all’organizzazione giovanile clandestina “Unione lotta per la causa della rivoluzione”. Nel gennaio del 1951 tutti i membri dell’organizzazione sono stati arrestati. Tre persone – Boris Sluckij, Vladilen Furman e Evgenij Gurevič – sono state condannate alla fucilazione, gli altri a varie pene detentive da scontare in carcere o in un campo di lavoro. Susanna, diciassettenne, è stata condannata a 25 anni di campo di lavoro correzionale che ha scontato, passando attraverso vari istituti di pena, a Inta, Abez’ e Pot’ma. Nel 1956 il caso Pečuro è stato riesaminato, la condanna è stata diminuita a 5 anni e nel 1956 Susanna Pečuro è stata liberata. Terminato l’istituto storico-archivistico di Mosca, ha lavorato nell’archivio storico dell’istituto dell’Africa. Da molti anni fa parte dell’associazione “Memorial”. Vive a Mosca. ————— Mi chiamo Susanna Solomonovna Pečuro. Questo è il mio cognome da nubile, non l’ho mai cambiato. La scuola era tutta la mia vita. Devo dire che sono sempre stata una persona molto impegnata. Ci rispettavamo e rispettavamo anche gli insegnanti. Per questo ci impegnavamo davvero nello studio. Ci interessava. Non c’era la televisione, non c’era nulla. I libri/, per molto tempo non ci sono stati; i libri, in genere, erano molto difficili da trovare. Poi, nell’edificio di fronte al teatro Vachtangov, hanno aperto una biblioteca per l’infanzia. La fila arrivava fino in fondo. Tutti i bambini del quartiere accorrevano. E quando a qualcuno di noi capitava di trovare un bel libro ce lo passavamo, finché i bibliotecari capivano che girava sempre nella stessa scuola. Chiamavamo la nostra scuola democratica, perché vi erano ammessi… Inoltre, allora si portavano le divise scolastiche e molte famiglie non avevano la possibilità di comprarle per i propri figli e, in genere, di mandarli a scuola. Allora l’abbiamo fatto noi. Avevamo un consiglio scolastico e anche la Casa dei Pionieri, oltre a tutto il resto. C’era anche un circolo letterario. Molto buono, molto/. L’insegnamento era scarso, ma noi insegnavamo l’uno all’altro. La cosa più importante è che eravamo tutti insieme, eravamo molto amici, ci volevamo molto bene. Però l’educatrice/, la nostra direttrice è stata una di quelli che ci ha denunciato. Abbiamo detto che ne avevamo abbastanza e abbiamo cominciato a prendere iniziative. Così è nata la nostra organizzazione. Volevamo parlare liberamente di quello che ci riguardava, in generale, di ciò che stava accadendo nel paese. Perché, comunque, sapevamo del cosmopolitismo. Sapevamo della nuova ondata repressiva. Vivevamo tra la gente. Siamo andati da Boris non solo perché viveva solo, ma anche perché era molto istruito per uno della sua età. Leggeva molto. Conosceva molto bene il marxismo, per esempio. Leggeva di tutto con facilità. Alla fine è risultato che, più che di qualsiasi studio, parlavamo della vita. Parlavamo del fatto che, ecco, comunque, avevamo tutti letto Lenin. “Stato e rivoluzione” era il nostro vademecum. È successo che i principi leninisti non coincidevano per niente con i principi di “Stato e rivoluzione”, che tutto era stato travisato, che non era affatto così. E poi? Poi abbiamo letto “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” e così via. Tutte quelle cose. Allora, per la prima volta, Boris ha detto che tutto ciò somigliava al bonapartismo. E poi abbiamo parlato, beh, di cose come, per esempio, la vita nelle campagne. Cosa avesse significato l’ondata repressiva degli anni passati. Cosa volesse dire politica nazionale, così come appariva a noi. La deportazione e tutto il resto. La collettivizzazione. Della collettivizzazione sapevamo poco. Io l’ho scoperta dopo, nei campi. I miei erano andati a dormire. Tutta la mia famiglia. Io ero seduta in un angolo, come sempre. Avevamo un tavolo e nell’angolo c’era un bauletto che conteneva tutti i miei libri, i quaderni e altro. Sedevo sempre su questo bauletto, studiavo qui, in quest’angolo. Ho iniziato a leggere e a fare il riassunto di un articolo di Lenin sugli Stati uniti d’Europa. Improvvisamente suonano alla porta. Si sentiva uno scalpiccio, delle voci sguaiate. Sono andati in giro per le stanze e ogni famiglia pensava che fossero lì per loro. Per ultimi sono venuti da noi. Hanno detto a tutti di non uscire dall’appartamento. Sono venuti da noi. Il capo si è avvicinato a me, si chiamava Blinov. Nikitin/, Skorochodov, Blinov e Nikitin. Tre persone. Mi mettono davanti il mandato. “Firmi”. Il mandato di perquisizione e di arresto. Lui mi ha coperto con il suo corpo, perché c’era quell’angolino. E dico, firmo e dico: “Dite ai miei genitori che è solo una perquisizione. Non dite dell’arresto. Li avvertirò io”. Lui si scosta e dice: “Tu lo capi/, lo sai?”. E io: “Lo so”. Non ha detto loro dell’arresto, ha detto che si trattava di una perquisizione. La perquisizione è iniziata. Hanno fatto alzare tutti, anche il mio fratellino di quattro anni. Si sono alzati. Mio fratello piangeva in braccio a mia madre, batteva i pugni e gridava: “Manda via i signori”. Mia mamma gli ha tappato la bocca, piangeva… La perquisizione è andata avanti fin quasi le quattro di notte. Si sono portati via chissà cosa… Narrativa che, per qualche motivo, chissà che cosa doveva sembrare. Ma più di tutto, a loro interessava il libro di Reed “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”. “A-a-a!”. E uno dice all’altro: “Guarda, un inglese, e ha scritto su Trockij”. Io dico: “Un americano”. “Ha scitto di Trockij e lei l’ha letto”. Allora io: “Guardate di chi è la prefazione”. Guarda e dice: “Ah, Krupskaja. Ma davvero? Beh, porta via”. L’ha messo nel sacco. Hanno preso una copia del programma, ma io ne avevo due. Per una posso anche mentire, ma due? La seconda era là, dove c’erano i libri. Nel bauletto. Cominciano a rovistare nel bauletto, tra libri e quaderni, e io inizio a strillare: “Cosa fate? Domani devo andare a scuola! Ho un compito in classe! Cosa fate con i libri? Rovinate le copertine…” e così via. Prendo le cose che hanno già controllato e le ripongo… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
Categoria: Gli ultimi testimoni. Gli italiani di Crimea
Progetto in collaborazione con Memorial Mosca e Memorial Germania
Gli ultimi testimoni. Intervista
Racconti sulla dekulakizzazione I loro genitori erano normali contadini russi. Vivevano in grandi famiglie, con molti bambini, nelle quali tutti lavoravano dalla mattina alla sera. Ma quando L’URSSha iniziato ad istituire i kolchoz, quei contadini sono stati definiti kulaki e insieme alle loro famiglie sono stati deportati nel nord o in Siberia. Ecco cosa raccontano. Anochina Ekaterina Gavrilovna, nata nel 1923. È stata deportata all’età di dieci anni insieme alla famiglia, composta di kulaki espropriati, nel nord, dove i suoi genitori sono morti di fame nel giro di un anno. Ekaterina ha cambiato diversi orfanotrofi. Ha terminato l’istituto tecnico pedagogico. Vive a Voronež. Kuz’mina Tat’jana Petrovna, nata nel 1921. Proviene da una famiglia di contadini dekulakizzati. Nel 1930 la famiglia è stata mandata negli Urali. Ha lavorato in una fabbrica di mobili. Vive nella città di Kropotkin, nella regione di Krasnojarsk. Mikljaeva Marija Maksimovna, nata nel 1923. Nel 1931 la famiglia è stata perseguitata perché composta di kulaki e deportata in Kazakistan. Ha lavorato come insegnante in una scuola. Vive a Voronež. Smirnova Nina Fominična, nata nel 1926. È stata deportata nella regione di Krasnojarsk insieme alla famiglia, composta di kulaki espropriati. Ha lavorato in un asilo. Vive nella città di Kropotkin, nella regione di Krasnojarsk. Frolova Marija Andreevna, nata nel 1921 in una famiglia di kulaki. Il padre è stato arrestato e fucilato. Lei ha partecipato alla seconda guerra mondiale. Ha lavorato come insegnante di geografia. Vive nel villaggio di Novyj Kurlak, oblast’ di Voronež. Charečko Antonina Semënovna, nata nel 1918. Nel 1930 è stata deportata nel nord insieme alla famiglia, composta di kulaki espropriati, nell’oblast’ di Archangel’sk. Dopo un anno sono riusciti a fuggire e a tornare fino a casa, ma quello stesso giorno sono stati deportati di nuovo. Il padre è morto in esilio. Lei ha lavorato in un kolchoz del villaggio di Rogovskij, nella regione di Krasnojarsk. Mikljaeva: In base a quello che dicevano i miei genitori, io non me lo ricordo, ma i miei genitori raccontavano che vivevano in una grande famiglia, ehm, una quarantina di persone. Vivevano così, in un’izba enorme che chiamavano Il Collegamento. In genere c’erano degli androni e su entrambi i lati si trovavano delle izbe spaziose. Vivevamo lì. Cinque figli, ognuno con una propria famiglia, figli che a loro volta avevano dei figli. In parole povere, si arrivava fino a quaranta persone. Smirnova: Chi lavora la terra sa benissimo che si tratta di un lavoro infernale. La famiglia si sfamava esclusivamente con il proprio lavoro e c’erano anche dei bambini, dieci persone, come ho già detto. Poi, due sono morti, bisognava dare da mangiare alla famiglia e pagare le tasse per la terra in affitto, pagavamo le tasse, chiaramente. Avevamo da mangiare, non si pativa la fame, indossavamo vestiti di tela e quando nel 1930 è iniziata la dekulakizzazione, mia mamma ha comprato delle pezze di calicò, da noi ci si metteva questi abitini per le feste di calicò e lei ci legava intorno alla pancia – eravamo in tre: io del ventisei, mia sorella del venticinque e del l’altra del ventiquattro, gli altri erano più grandi. Lei legava in vita i più piccoli con queste pezze di calicò e così ci siamo salvati, non ci hanno portato via. Con la dekulakizzazione, a papà hanno tolto pure gli stivali. Mikljaeva: Beh (sospira) si viveva come vivevano, come tutti i contadini, si andava in chiesa, si pregava, si credeva in Dio, si viveva in armonia con i vicini, con i genitori. È arrivata la collettivizzazione. Allora Svobodnoe è diventata un kolchoz e hanno iniziato a liberarsi di quelli un po’ più ricchi. Quindi li hanno definiti kulaki e hanno deciso, i capi hanno deciso, naturalmente, che non dovevano impedire la costruzione di una vita nuova, kolchoz, dekulakizzazione, esilio. Anche la mia famiglia è finita in questa categoria. Kuz’mina: Era una famiglia numerosa e sono morti tutti di fame. Sono usciti, sa, appena sono usciti dal villaggio sono stati fucilati, oppure li hanno fatti tornare indietro. Non so chi! Frolova: I.O. – Chi se n’è occupato? M.F. – Il soviet del villaggio. Indigenti, il comitato per gli indigenti, c’erano questi comitati per gli indigenti. I.O. – Chi poteva farne parte e come? M.F. – Gli ultimi, i fannulloni, quelli che non avevano mai lavorato, loro non avevano mai avuto nulla, erano gli ultimi. Ecco, allora erano al comando. Charečko: Allora c’erano i Komsod. I Komsod si trovavano nei consigli dei villaggi. Là c’era un consiglio del villaggio, dove si riunivano per decidere la sorte della gente e deportarla. Li caricavano anche alla stazione Brjuchoveckij. Molte famiglie sono state mandate là. Senza portare nulla. Hanno dovuto lasciare tutto. Hanno preso tutti. Sono arrivati i carri. Noi eravamo ancora a casa; i cuscini, la macchina per cucire a pedale, i cuscini e i tavoli erano belli, se li sono presi e hanno venduto tutto al mercato. Mikljaeva: Il foulard non l’hanno strappato via dalla testa. Le gonne in più le toglievano, anche alle madri. Si indossavano tre gonne insieme per poterle tenere. Erano così pignoli, talmente fanatici della nuova vita da obbligarti a togliere le due gonne in più, ne bastava una. A.K. Chi erano queste persone? M.M. Compaesani. Fannulloni che non volevano lavorare la terra. Braccianti. Kuz’mina: Ecco. E poi è toccato a noi. “Staccatevi dalla stufa!”. E noi: “No!”. “Staccatevi!” e noi ci siamo messi a urlare. Ecco, e poi è entrato uno, forse, e poi hanno preso l’attizzatoio e con quel piccolo attizzatoio ci hanno, capisce? Ci hanno tirati fuori uno per uno, ci hanno fatto uscire dalla casa e “restate in cortile!”. Capito? Restate in cortile. E così ci hanno radunati tutti, ecco, la mamma è arrivata di corsa dalla chiesa e le hanno detto che ci avevano dekulakizzati. Anochina: Per come lo ricordo io, era un giorno soleggiato, chiaro. Arriva uno con i calzoni militari a sbuffo, con un libro, un registro, che dice: “Preparatevi”. Mia madre dice: “Dove?”. “Trasferimento”. Mia madre gemeva, mia sorella è scoppiata in… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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Michail Iosifovič Tamarin ricorda: La storia della mia vita non l’ho raccontata a nessuno Michail Tamarin è nato nel 1916. Ingegnere e violinista, è stato arrestato due volte. È stato nei campi della Kolyma e in esilio nella regione di Krasnojarsk. L’arresto e le sue conseguenze Il sedici aprile del trentasette mi hanno fatto venire sulla Kuzneckij Most ventiquattro. Da quel momento, capisce, ho fatto amicizia con i miei compagni di corso. In realtà, dal quarto anno è arrivato quel Saša Brezickij e anche Miša, un altro compagno, che sono diventati miei grandi amici. Ci divertivamo con le ragazze, organizzavamo festicciole, già. Ecco, mi è stata mossa un’accusa terribile: аvremmo organizzato riunioni controrivoluzionarie e preparato atti terroristici contro il partito e il governo. In realtà, all’inizio mi hanno interrogato. È capitato tutto in modo talmente inaspettato da risultare semplicemente spaventoso. Mi hanno messo in cella d’isolamento, si sentivano solo i lamenti delle persone dalle celle vicine. C’era un silenzio di tomba. Si chiamava torre Pugačëv, sì, torre Pugačëv, mi ricordo. Quella stessa notte, ecco, ho sentito il rumore delle chiavi, il loro tintinnio. La cella si è aperta ed è entrato Petrov, già direttore della prigione, e due o tre assistenti, i quali mi hanno consegnato la sentenza di condanna. “Sentenza di condanna. Gli organi della direzione generale dello Stato per la sicurezza dell’URSS hanno scoperto un’organizzazione terroristica studentesca d’ispirazione buchariniana, finalizzata a compiere atti terroristici contro i dirigenti del partito e del governo”. Ciò comportava l’arresto di tutti gli affiliati, la confisca dei beni e la fucilazione entro ventiquattr’ore. Avevano promulgato questa legge dopo l’assassinio di Kirov, nel trentaquattro. Ecco, se ne sono andati lasciandomi questa sentenza da leggere. Io l’ho letta e mi sono sentito male, proprio lì, su quel divano di ferro. Anzi no, non un divano ma un letto, con il materasso imbottito di fieno. Ho sentito una pozza sotto di me, capisce? Mi deve scusare, avevo perso la facoltà di controllare i miei organi, stavo davvero malissimo. Sono rinvenuto la mattina presto e mi hanno detto: “Raccogli le tue cose; dai, raccogli le tue cose”. Ricordo che avevo solo una cosa: lo spazzolino da denti. Nient’altro. Mi hanno portato giù, di sotto, mi hanno messo in una specie di vano e mi hanno costretto a spogliarmi completamente. Hanno perquisito i pantaloni, tutto, tutti gli abiti. Poi, dopo avermi fatto rivestire, mi hanno portato fuori dalla cella. Siamo saliti su una di quelle auto speciali e lì c’era una celletta dove si poteva soltanto sedersi; alzarsi e sedersi. È evidente che in quella cell/, in quella macchina c’erano varie cellette, poi ho scoperto che nelle altre si trovavano i miei compagni, che dovevano essere trasferiti al Collegio Militare della Corte Suprema con sede nel carcere di Lefortovo. È durato poco. Io ho detto: “Dinanzi alla morte la mia coscienza è pulita, non ho nessuna colpa, è tutta un’invenzione”. “Tutto?” – “Tutto”. La corte si è ritirata per deliberare. Mi hanno riportato nel corridoio, di nuovo, e sudavo, perché ero consapevole delle accuse che mi rivolgevano, sì, sì. Dopo più di un’ora che stavo lì in piedi, mi hanno riportato indietro: il caso è stato rinviato per ulteriori indagini. Mi hanno riportato nella cella da cui mi avevano prelevato e, sa, nessuno mi ha riconosciuto, tant’ero sconvolto; non riuscivo a riprendermi, non riuscivo a parlare, nulla. Mi hanno fatto sdraiare e per tre o quattro giorni sono rimasto nell’ospedale per detenuti, finché non mi sono ripreso. Il trasferimento nella Kolyma Già, era un treno merci quello usato per il trasporto dei detenuti. Ci hanno portato lì di notte, con i cani e tutto il resto, le guardie ci hanno messo sui vagoni merci. Ecco, ricordo che siamo saliti sulla carrozza, abbiamo occupato i tavolacci e siamo rimasti ad aspettare. In quel momento si è aperta di nuovo la carrozza e sono saliti i criminali comuni; sono entrati in quello scompartimento e ci hanno buttati tutti giù dai tavolacci, capisce? Ma tra noi c’era un militare, il colonnello Pozorich, al quale avevano strappato le mostrine. Sapeva sette lingue, tra cui due lingue orientali. Era un interlocutore molto interessante, raccontava molti romanzi e uno di questi, oh, ho dimenticato il titolo, ce l’ha raccontato quasi parola per parola. Quei romanzi divertivano anche i criminali, a loro piacevano molto, tanto che ci hanno fatto tornare ai nostri posti, e abbiamo dormito insieme. Per tutto il viaggio ha continuato a raccontare a memoria quel romanzo, come se lo stesse leggendo. Poi, ci hanno fatto scendere e ci hanno portati, a piedi, in giro per Vladivostok, al porto, al piroscafo, un qualche piroscafo, già. E ci hanno messi nella stiva. “Kulu”, il piroscafo si chiamava “Kulu” e con quel piroscafo siamo arrivati fino alla baia di Nagaev, proprio a Magadan. Abbiamo navigato di notte, viaggiando per circa tre giorni e tre notti, da Vladivostok, per doppiare le isole giapponesi, dove tutte le guardie hanno indossato abiti civili, senza mai consentirci di salire sul ponte. Siamo rimasti nella stiva con le pareti di ferro, al gelo. Era terribile. Il venticinque dicembre, di notte, ci hanno portati a Magadan e ci hanno fatto sbarcare. Nella baia di Nagaev, mi pare, sì. Quando ci hanno fatto sbarcare eravamo tutti, ehm, in abiti civili, il gelo era terribile. Era il venticinque dicembre e molti sono rimasti congelati mentre aspettavano di scendere dal piroscafo, soprattutto il naso, le orecchie e alcune dita di mani e piedi. Era terribile. Quella stessa notte siamo rimasti svegli, non riuscivamo a dormire. C’era una bufera, la neve copriva tutte le strade e ci hanno costretti a prendere le vanghe e andare a spalare le strade, capisce? Kolyma – La miniera Berzin 1938-1943 Così mi sono ritrovato nella miniera di Berzin, sì era la miniera di Berzin. L’insegna diceva così: “Miniera di Berzin”, poi l’hanno ribattezzata Verchnij At-Urjach, perché alla fine Berzin è stato arrestato. Ho passato cinque anni in quel campo, esattamente cinque anni. Di solito facevamo il turno di… Continua a leggere Glu ultimi testimoni. Intervista
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Lettere, pacchi, visite Lettere, pacchi e visite rappresentavano le gioie più grandi per i detenuti nei campi di lavoro staliniani. Le lettere dei parenti ti aiutavano a credere che non ti avessero dimenticato, i pacchi di alimentari aiutavano semplicemente a sopravvivere e le rare visite, quando avvenivano, erano felicità pura. —————- David Budënnyj (1930-2011) è stato arrestato nel 1950 con l’accusa di aver fatto parte dell’organizzazione giovanile “Unione Comunista della gioventù” e condannato a cinque anni di ITL [Isprovitel’no- Trudovye Lagerja, campi di lavoro correzionale], che ha scontato nei campi del Kazakistan. È stato riabilitato. Insegna all’università di Voronež ed è dottore in scienze economiche. All’inizio ero in isolamento, da solo. Per un mese, probabilmente. Solo. Fino a quei giorni di tensione durante i quali si è svolta l’inchiesta. Poi ne hanno messi lì altri. Lo guardo: un altro. Eravamo già in quattro e c’era anche un tipo, non ricordo il nome, uno capace. Giusto, era così. “Sai, si può scrivere alla mamma. Si può provare. Un biglietto”. Io dico “Come?”. “Ascoltami. Scrivi quello che vuoi. In ogni caso, scrivi in modo tale che neanche una parola si ritorca contro di te. Per esempio, non scrivere «Abbasso Stalin» o cose del genere”. In parole povere, non bisognava danneggiare se stessi ancora di più. “Ma come si fa a consegnarlo?”. Tu scrivi. Qualcuno ha una matita chimica e qualcun altro ha della carta… Io ho scritto il biglietto. “E ora?”. “Ecco, ora guarda”. Ha rovesciato il sacchetto che conteneva tutte le cose che mi avevano portato. Rovesciato. Quindi, sul fondo/, questo/ha nascosto il mio biglietto e ha rovesciato di nuovo il sacchetto. No, no, non ancora. Il biglietto era fissato, così non si rovesciava, era cucito. Qualcuno aveva ago e filo. I detenuti/come? Ogni giorno c’era la perquisizione. Però qualcuno ci riusciva lo stesso. Erano svegli. C’erano ago e filo. Era cucito sul fondo. Per esempio un centimetro e mezzo, forse. Il meno possibile, perché non si notasse. Lo si cuciva. Il sacchetto veniva rivoltato dalla parte giusta. Ed era vuoto. Nikolaj Nastjukov è nato nel 1933 a Pavlovsk, nell’oblast’ di Voronež. Nel 1952 è stato arrestato con l’accusa di aver fatto parte di un’organizzazione giovanile antisovietica di stampo terroristico. Condannato a otto anni di ITL, ha scontato la pena in un Rečlag a Vorkuta. È stato riabilitato. È dottore in scienze biologiche. Vive a Voronež. Sì, si poteva ricevere visite ma erano molto brevi, circa, circa dieci minuti. Ecco, da un lato c’era una, una reticella; lì stavano i parenti, la mamma, in lacrime, andava lì, all’interno, nello spazio dove c’era la sentinella, intendo, o qualcuno/. Di solito un poliziotto o una sentinella, lì nello spazio gridavo qualcosa anch’io/. I.O. E non si sentiva niente. N.N. La mamma piange, è in lacrime, è ovvio cosa le dici, là. Sì, “va tutto bene”, tutto qui, ecco. Là gridi una cosa qualsiasi, tutto qui. Una visita c’è stata. Susanna Pečuro è nata a Mosca nel 1933. È stata arrestata nel 1951 all’età di 17 anni in quanto membro dell’organizzazione giovanile “Unione lotta per la causa della rivoluzione” e condannata a 25 anni di ITL. Ha scontato la pena nei campi di Inta, Abez’, e nella prigione della centrale di Vladimir fino al 1956. Riabilitata, è storica e archivista. Vive a Mosca. Mi hanno portata davanti alla commissione medica prima del trasferimento. Il medico ha guardato e ha detto: “Allora, dunque, è uno scompenso. Ha un edema polmonare. Eh, dove la manderanno? Come farà ad arrivarci? Chi vive con lei?”. Io dico: “la mamma”. “Dove vive?”. E dopo qualche giorno mi hanno detto: “Senza roba”. E mi hanno portato al colloquio con mia mamma, alla quale avevo detto che andava tutto bene, che ci trattavano bene, tutto perfetto. La mamma non ha pianto, è rimasta lì tutta impietrita. Una visita di quindici minuti. Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati perseguitati, il padre è stato fucilato nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona di occupazione nell’oblast’ di Doneck. Dopo la liberazione dell’oblast’ da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata da organi dell’NKVD e condannata a 15 anni di lavori forzati. È stata rinchiusa nel campo di Vorkuta per 10 anni e riabilitata. È dottore in Scienze Tecniche. Vive a Mosca. Sono finita a Vorkuta. Non mi hanno concesso un incontro con mia mamma. Anche questa è una cosa talmente atroce. Quindici anni di lavori forzati. Mamma è venuta in carcere, ma non le hanno permesso di avere nemmeno un incontro di addio con me. Ol’ga Cybul’skaja (Sorokoumova), nata nel 1935 a Frunze, è figlia di perseguitati. Il padre è stato fucilato, la madre ha scontato una pena detentiva nel campo di Akmolinsk per le mogli dei traditori della patria. È ingegnere-chimico. Vive nella città di Korolev, oblast’ di Mosca. La mamma è tornata, ci avevano cacciati, vivevamo nell’appartamento del direttore a Frunze, ci avevano cacciati nel chiosco. Sedevamo sui fagotti e la mamma ha iniziato la ricerca febbrile di un alloggio da qualche parte. E l’ha trovato in una zona molto, molto periferica di Frunze. Ci ha portato lì, poi lei è andata a far visita a papà. E ha portato tutto quello che riteneva necessario: vestiti di lana, l’orologio e tutto, cioccolato, e quando ha visto papà, lei l’ha guardato e ha visto che esteriormente era molto cambiato. Aveva le dita completamente blu. Evidentemente erano i segni delle torture subite. La mamma gli si è gettata addosso dicendo: “Griša, ti ho portato tutto”, lui dice: “Nadja, e da fumare?”. Lei dice: “Griša, l’ho dimenticato, domani te lo porto”. Ma lui sapeva già che l’indomani l’avrebbero fucilato, era stato avvertito. Nikolaj Nastjukov In un campo c’era, per esempio questa procedura. Il capo della sezione speciale, per non, diciamo, stare lì a rompersi le scatole, aveva dei moduli già preparati: “Sto bene, non mi serve niente. Spedite il pacco”. Così non doveva controllare ogni lettera scritta dai detenuti,… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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Leonid Jakovlevič Muravnik: Vita di un bambino abbandonato L. Ja. Muravnik è figlio di un funzionario di partito. Il padre e la madre sono stati fucilati nel 1937. Dall’età di 9 anni ha vissuto in vari orfanotrofi, dai quali è scappato ripetutamente, vivendo da vagabondo. È meccanico aeronautico e giornalista. ———- L’arresto dei genitori Il momento dell’addio a mia madre mi è rimasto impresso per tutta la vita. È avvenuto sul viale Petrovskij, c’era una panchina. L’ho vista per l’ultima volta su quella panchina, sul viale Petrovskij. E su quella panchina mi ha detto, in lacrime: “Lenik, figlio mio, non so se tornerò, non voglio illuderti. Nella vita non ti aiuterà mai nessuno, impara da te a superare le difficoltà. Impara a fidarti dei tuoi genitori e la vita sarà più facile”. Siamo andati dalla nonna, io ero sfinito, stremato, e mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato mia madre non c’era più. Era andata a Rostov. Non poteva andare in Siberia per motivi etici: come posso lasciare mio marito? Io devo salvarlo. Era così ingenua. Vagabondando da un parente all’altro Naturalmente aspettavo con ansia mia madre. Quando sono arrivato dalla zia Olga, di notte, ho sentito che diceva al marito, lo zio Kostja: “No, dobbiamo sbarazzarci di quest’ospite. Se i čekisti lo venissero a sapere, arresterebbero i nostri ragazzi, Dio non voglia”. E la mattina mi ha detto: “Lenja, adesso fai colazione, poi vai dalla nonna”. Io ho fatto colazione, diligentemente, e sono andato dalla nonna, Berta Moiseeva: “Che ci fai qui?”. “Zia Olja mi ha detto di venire da te”. Tutti avevano paura. La nonna aveva tre figlie e queste tre figlie le aveva portate da qualche parte, Dio solo sa dove, perché potessero sopravvivere. Aveva paura che anche loro… Capiva che se i čekisti mi avessero catturato, avrebbero sofferto anche le figlie. Ci teneva alle figlie, comunque più alle figlie che al nipote. Erano state tutte espulse dal Komsomol. La nonna aveva detto: “Sbrigatevi a partire, così che il vostro spirito non resti qui”. Una volta, il bidello mi ha preso per il bavero e mi ha detto: “Len’ka, devi fuggire da qui, ti tengono d’occhio. Dove sono i tuoi genitori?”. Io rispondo: “Verrà. La mamma ha detto che verrà presto”. “Tua madre non verrà”. Il centro di raccolta Danilovskij dell’NKVD Sono andato al Danilovka solo per dormire. Mi hanno portato nell’altare di destra. Hanno portato un materasso, una specie di cuscino imbottito di fieno e una specie di straccio. Io, poiché ero un ragazzo educato, mi sono tolto la giacca di velluto e i pantaloni. E mi sono messo a dormire. La mattina, come se nulla fosse, ci hanno portati alla mensa per mangiare polenta di grano saraceno con carne. Quello era il piatto forte. Cucinato benissimo, vischioso; una polenta non granulosa, una polenta di grano saraceno vischiosa con bocconi di carne. I bambini, spossati, leccavano le ciotole. Non scendeva in gola, quella carne, quel grano. Eravamo in uno stato di prostrazione tale che non pensavamo a nulla, non capivamo nulla. Come se non esistessimo realmente. Poi è arrivato il momento in cui hanno fatto alzare e schierare 15 di noi. Ci siamo schierati e ci hanno spinti su una macchina con la scritta “Sottoprodotti”. Ci hanno caricati su quella macchina e ci hanno portati alla stazione. Lungo la strada, una ragazza ha detto: “Dove ci portano, ci uccideranno?”. Ecco, ricordo ancora la sua voce angosciata. Poi siamo saliti sui vagoni e siamo partiti. C’era una guardia molto brava. Nella fondina portava il tabacco. Non aveva armi. L’orfanotrofio di Geničesk Ognuno pensava tra sé: “Dove ci condurrà il destino?”. Non in prigione, comunque, bensì in orfanotrofio. E siamo passati sotto le arcate di quest’orfanotrofio. Là c’era quasi l’intero orfanotrofio ad attenderci. Ci hanno messo in isolamento. Appena ci hanno sistemato, dopo qualche minuto, arriva un quindicenne alto e robusto, abbronzato, forte, che dice: “Mi chiamo Kandyba. Sono l’atamano di quest’orfanotrofio. D’ora in poi sarete soggetti solo a me”. “Dimenticate il passato, voi non avete passato. Vi insegnerò io. Diverrete degli scapestrati e tra un mese vi assumerò”. Che cos’è uno scapestrato? Uno scapestrato deve saper rubare, infilarsi nelle tasche. Una volta imparato vi verrà naturale. Vi sazierete e così via”. Cosa ci hanno insegnato i bambini dell’orfanotrofio. Siamo andati al molo e abbiamo tolto i cerchi dalle botti, li abbiamo raddrizzati, affilati e in questo modo abbiamo ricavato delle sciabole. Di notte siamo andati con queste sciabole nel sottotetto, dove avevano appeso del pesce pregiato. Grondante e appetitoso. Il nostro compito era di – zac! Paf! E cadeva. Zac! E cadeva di nuovo, sottobraccio e via, all’orfanotrofio. Questo Kandyba aveva strettissimi legami con l’NKVD. Non sapeva quasi scrivere, ma ci hanno raccontato che trovava delle persone disposte a scrivere sotto dettatura. Scriveva dei rapporti su quello che facevamo, dove andavamo, se non andavamo a scuola, di cosa parlavamo e così via. La fuga. L’orfanotrofio di Cholmsk Dopo esserci consultati, abbiamo deciso di scappare e nel ’40 l’abbiamo fatto. Siamo andati ad Arabat. Là, sulle rotaie c’erano dei camion che trasportavano la sabbia nelle industrie metallurgiche dell’Ucraina. Ci siamo nascosti nella sabbia e così siamo scappati dall’orfanotrofio di Geničesk. Naturalmente, arrivati a Zaporož’e siamo andati innanzitutto al mercato e le lezioni di Kandyba su come procacciarsi il pane si sono rivelate utili. Grazie ai furti ci siamo procurati non solo la panna acida, ma anche pane e focacce. Ai piedi della diga della centrale idroelettrica del Dnepr abbiamo trovato un bel posticino appartato, un pozzetto, dove abbiamo iniziato a mangiare la nostra preda. Era da quasi ventiquattr’ore che non mangiavamo nulla. Poi, di notte, siamo stati circondati dalla polizia. Ci hanno trasferiti in un altro orfanotrofio, quello di Cholmsk, dov’è iniziata un’altra fase della nostra infanzia. Era un bell’orfanotrofio, senza nessun atamano, con un consiglio dell’orfanotrofio e dove, tra l’altro, c’era un certo numero di bambini i cui genitori erano stati deportati e con i quali c’era un buon rapporto. La… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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“Magadan, davanti a noi…” Il trasferimento nella Kolyma. In virtù della sua posizione geografica, merci e lavoratori, compresi i forzati, potevano raggiungere la Kolyma soltanto via mare. La principale via di comunicazione andava da Vladivostok alla baia di Nagaev. Nel 1945 è stato aperto il porto di Vanino. ——— Semën Ivanovič Kolegaev Nato nel 1920. Ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale. Fatto prigioniero, è riuscito a scappare. Alla fine della guerra si trovava in Giappone. Arrestatao nel 1947, è stato condannato a 10 anni da scontare in campo di lavoro. Trasferito a Dal’nij (Cina) – Vladivostok – e nella baia di Nagaev nel 1949. Ci hanno portati a Vladivostok con la nave “Stepan Razin”. Sulla nave c’è stata una ribellione, ma non da parte nostra. Noi abbiamo picchiato i criminali. Ci avevano messo nella stiva insieme a quella banda e ci avevano spogliato di tutto. Ci avevano offeso. Ci hanno preso lo zucchero che avevamo conservato per noi. Ci hanno preso tutto. Sulla nave si trovavano anche tre emigrate; una di diciassette anni, una di trentacinque e un’altra, probabilmente, di ventotto o venticinque. Una corda le separava da noi. Da quel lato c’era una guardia armata. Il bagno era un barile, un bugliolo con una vela appesa per coprirlo. Loro sono andate nel bagno e lì le hanno prese e violentate. Piangevano e imploravano. La guardia osservava, il caposcorta, non ha preso alcun provvedimento. Non ha preso nessun provvedimento, capisce. Con noi viaggiava un artigliere, un ricognitore aereo, Bulygin, un maggiore. Ci incoraggiava. Noi siamo di più. Loro sono undici. E fuori quanti siamo? Al segnale, prima di colazione, gli saltiamo addosso. Batterli per bene, dargliele. Ed è andata così. Ci siamo scagliati contro di loro, le guardie erano inesperte, erano ragazzini. Nella fretta hanno dimenticato le armi lì in un angolo. Sono schizzati via. Per farla breve, siamo arrivati a Vladivostok con la nave. Abbiamo visto macchine, soldati, BTR o come diavolo si chiamano. Ci stavano già aspettando. Avevamo provocato una rivolta. Si alza un colonnello, con lui ci sono dei soldati e anche un altro funzionario. “Raccogliete le armi”. Hanno disarmato i soldati che le portavano e li hanno arrestati; noi siamo stati mandati via. Michail Iosifovič Tamarain Nato nel 1912, è stato arrestato a Mosca quando era ancora studente. Per cinque anni è stato prigioniero nei campi della Kolyma. Arrestato ripetutamente nel 1951, è stato condannato all’esilio a vita nella regione di Krasnojarsk. Trasferito a Mosca – Vladivostok – baia di Nagaev nel dicembre del 1937. Siamo arrivati, ci hanno portati qui a Vladivos/, fino a Vladivostok, ci hanno sistemato in un’enorme cella di transito. Un’enorme cella di transito. Oltretutto, in quella cella si trovava molta gente interessante, tra cui uno che chiamavano il morituro, tutto sporco. Sa, era il fratello di Lev Kassil’. Poi siamo stati caricati e trasferiti, siamo andati a piedi per Vladivostok fino al porto, poi sul, sul piroscafo. Elena-Lidija Pavlovna Postnik È nata nel 1924. Nel ’42 si trovava nei territori occupati. È stata arrestata nel 1945 e condannata a 15 anni di lavori forzati. Trasferita dal Tajšetlag al porto di Vanino, alla baia di Nagaev nel 1949. Ci hanno portati nella baia di Vanino. Per qualche motivo, nel nostro ambiente veniva anche chiamato Tiškingrad. Era una spedizione enorme alle rive dello stretto di La Pérouse. E lì abbiamo trascorso tutta l’estate. Tutta l’estate. Ci mandavano solo, sa dove? Ci nutrivano molto bene. Ci si lavava sotto la pioggia, visto che c’erano certi acquazzoni. Eravamo solo donne. Ci si poteva lavare quanto si voleva. Ci hanno portato a bordo della nave Feliks Dzeržinskij. In realtà si trattava di una nave tedesca con palamiti catturata come trofeo. Naturalmente ci avevano messo nella stiva inferiore. Vitautas Kazjulenis È nato nel 1930. È stato deportato dalla Lituania all’oblast’ di Tjumen’ insieme ai genitori nel 1947. Ha aderito all’organizzazione “Prisjaga v ssylke” (“Giuramento in esilio”). Nel 1951 è stato arrestato e condannato alla fucilazione. La condanna a morte è stata poi commutata in 25 anni di lager. Ha partecipato alla rivolta di Noril’sk del 1953. Trasferito nella Kolyma nel 1954, è stato liberato dal luogo di detenzione nel 1958. Ho visto allora per la prima volta un piroscafo, anche se sul Tobol viaggiavano imbarcazioni fluviali, piroscafi. La stiva era costituita da diversi piani. Mio Dio, quel piroscafo. Siamo saliti sulla passerella, al quarto, quinto piano. Quella era un’imbarcazione marittima. Nikolaj Alekseevič Prjadilov Arrestato nel 1943, a sedici anni, è stato condannato 7 anni da scontare in un campo e trasferito nella Kolyma dall’Ozerlag (oblast’ di Irkutsk) nel 1949. Là giravano criminali. Ho anche scritto su questo. Si sono intrufolati attraverso la ventila/ attraverso la ventilazione, i tubi di ventilazione, in un altro scompartimento e hanno portato via i viveri. Anche dalla nostra stiva hanno rubato i viveri. Lo spezzatino, il latte condensato e (ride). Quindi erano dei professionisti, tutti professionisti. Un ladro li ha trovati e li ha rubati. Ci siamo imbattuti in una tempesta nel mare di Ochotsk, non so a quale livello di forza fosse. Siamo finiti in una tempesta. Metà della nostra stiva era rovesciata. Kazjulenis Allora, mi ricordo quando è iniziata la tempesta: ti scaraventa fuori dalle cuccette e appena il piroscafo s’impenna ti fa volare da qualche parte. Ed erano pochi quelli che riuscivano a mangiare. Postnik Per due giorni non siamo riusciti a uscire dallo stretto La Pérouse. Alla fine siamo usciti. Quando abbiamo raggiunto il mare aperto ci hanno detto: “Chi vuole andare a respirare all’aria aperta lo può fare”. Come abbiamo fatto a camminare non lo ricordo. Ci siamo trascinati in coperta. Sono salita in coperta e mi sono sdraiata. Non avevo più forza. Hanno portato la zuppa di verdure e nient’altro. Il cielo sembrava triangolare. Jurij L’vovič Fidel’gol’c È nato nel 1927. Studente alla scuola di teatro, è stato arrestato nel 1948 con l’accusa di aver formato un’organizzazione antisovietica e condannato a 10 anni da scontare in… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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Il lavoro femminile nei campi Le donne, nei campi di lavoro staliniani, svolgevano le stesse mansioni degli uomini, nelle miniere, nel disboscamento, nelle costruzioni… Ma per le donne, che il campo privava della famiglia e della giovinezza, tali mansioni non erano soltanto gravose. Il lavoro comportava umiliazioni e violenza. ——– Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati giustiziati; il padre mediante fucilazione nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona di occupazione nell’oblast’ di Doneck. Dopo la liberazione dell’oblast’ da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata da organi dell’NKVD e condannata a 15 anni di lavori forzati. È stata rinchiusa a Vorkuta per 10 anni e riabilitata. È dottore in Scienze Tecniche. Vive a Mosca. La questione “uomo-donna” per noi era molto penosa. Le ragazze giovani cedevano subito a certe condizioni quando, ecco, i superiori, uomini, avanzavano determinate pretese. Se rifiutavi ti facevano scendere in miniera. E io scendevo molto velocemente, in miniera. E lì, sottoterra, ho svolto un lavoro per me nuovo, sui vagoncini. Allora non c’erano i cavalli sottoterra, negli anni di cui stiamo parlando. Sono comparsi dopo e i forzati, insieme ai cavalli, spingevano i vagoncini con il carbone attraverso la galleria. Io ero tra questi. Oppure si costruiva la ferrovia. Anche questo, tra l’altro, era una lavoro orribile. Sembrava già una buona cosa non lavorare in miniera. Com’era? Costruivamo una ferrovia che si allontanava sempre più dalla nostra zona. Quindi dovevamo camminare, camminare e camminare fino al luogo di lavoro. Alla fine facevamo dieci chilometri per arrivarci e lavoravamo per dieci ore all’aria aperta per costruire questa ferrovia. Poi, dieci chilometri per tornare. Non si trattava della miniera ma in superficie, per la ferrovia. Ma ci stancavamo così tanto, me lo ricordo ancora benissimo come se fosse adesso. Dieci chilometri all’andata e dieci al ritorno, con abiti pesanti, portandosi dietro i badili. Siamo caduti esanimi sulle cuccette senza neanche svestirci. Esanimi. I primi giorni non andavamo nemmeno a cena o a pranzo. Ci davano pranzo e cena insieme. Non avevamo la forza di andare alla mensa. Ioanna Murejkene (Ulinauskajte) è nata nel 1928 a Kaunas. Nel 1944, dopo il ritorno dell’esercito sovietico, ha appoggiato la resistenza antisovietica. È stata arrestata e condannata a 10 anni di campo di lavoro correzionale, scontati a Komi, Tajšet e Noril’sk fino al 1956. Ha partecipato attivamente alla rivolta del campo di Noril’sk. È una pediatra e vive a Vilnius. In generale lavoravamo in condizioni molto, molto dure. Ci portavano a scavare la torba. D’inverno bisognava scavare nella neve, ma la torba non gela, non gela. All’inizio trovi uno strato ghiacciato, poi trovi la torba tiepida. Non gela. A che scopo si scavava non si sa. Probabilmente ce la facevano scavare solo per farci lavorare. Si scavava questa torba bagnata con gli stivali, bagnati anch’essi, fradici. Stavamo tutto il giorno in quel pantano. Poi si tornava a casa, gli stivali gelavano. Non è facile raccontare. Arrivi е non c’è un posto in cui asciugarsi, di giorno bisogna far asciugare un po’ i vestiti e tutto il resto vicino alla stufa e alle botti. Noi lavoravamo là, abbattevamo gli alberi del bosco, li tagliavamo. La quota di produzione era molto alta. Bisognava abbattere sei pini alti con la sega manuale. Non meccanica, manuale. Gi-ru-gi-ru.. Si lavorava così, sa, poi si abbattevano. Fatto ciò, bisognava staccare i rami, in modo da poter tagliare l’albero in tre pezzi da sei metri e mezzo, tre pezzi. Sei pini così, era questa la norma. Un lavoro molto duro. Vera Jul’evna Chudjakova (Gekker) è nata a Potsdam nel 1922. In quello stesso anno, la famiglia si è trasferita nella Russia sovietica. Nel 1938 il padre è stato fucilato e la madre arrestata. Le sorelle Marsella, Alisa e Vera, studentesse al conservatorio, sono state arrestate nel settembre del ’42 e condannate a 5 anni. Vera ha scontato la pena nei campi di Kirghizistan, Uzbekistan, Siberia e Kazakistan. È un’insegnate di musica. Vive nell’oblast’ di Mosca. Certo, c’erano le norme. Ma il lavoro che facevo io non poteva avere alcuna relazione con le norme perché non si tratta di norme, in genere era così. cosa può fare, mettiamo, una donna malata o un’anziana o persone così? Noi non avevamo norme da rispettare. Semplicemente ognuno scavava come poteva. Si faceva molto poco, molto poco. Anna Matljuk (Peca) è nata nel 1927 nel villaggio di Tiškovcy, regione di Gorodenskij, oblast’ Stanislavskaja. Nel 1944 è stata arrestata con l’accusa di partecipazione a un’organizzazione ribelle ucraina e condannata a 10 anni di ITL. Ha scontato la pena partecipando alla costruzione del cantiere n. 501 e dopo la chiusura è stata trasferita nel Osoblag (regione di Irkutsk) per svolgere lavori edili generici. Riabilitata, ha lavorato come bambinaia negli asili nido. Vive nella città di Pečora, repubblica di Komi. Ci hanno portati fino al cantiere 501. Là c’erano 50-60 gradi sotto zero. Faceva un freddo terribile. E noi camminavamo. Ogni giorno c’era un controllo, per verificare che ci fossimo tutti, che eravamo arrivati vivi. Si vedeva solo la parte in basso, le facce no. Un gelo talmente forte e una tale brina. Immagini: le donne portavano le rotaie, spianavamo la strada. Per fare arrivare la ferrovia. La strada era tracciata, un po’. Sono arrivati i mezzi girevoli con sabbia e ghiaia e noi, per due giorni, abbiamo continuato a scaricarli nello stesso luogo. Andava a finire tutto da qualche parte, ecco, come un fiume, un ruscelletto. E noi trasportavamo le rotaie. Ricordo circa 19 ragazze, hanno preso 19 donne. In verità c’era un uomo, il capocantiere, no il caposquadra. Era il caposquadra. Aveva una certa asta. Misurava tutto. Аbbiamo posizionato le traversine. Tutte. Ecco, è così che ho scoperto quanto siano leggere le rotaie. Elena-Lidija Posnik (Koz’mina) è nata nel 1924. Nel 1945 è stata deportata e condannata a 15 anni di lavori forzati. Ha scontato la pena nell’oblast’ di Archangel’sk, regione di Krasnojarsk, e nella Kolyma. Riabilitata, ha lavorato come insegnante di tedesco. Vive… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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Nelle miniere di Vorkuta, nelle cave della Kolyma. Il lavoro nei lager In tutte le fabbriche dell’URSS era esposto un cartello con queste parole di Stalin: “Il lavoro in un paese sovietico è una questione d’onore, di gloria, di valore ed eroismo!”. I detenuti dei lager staliniani, il cui lavoro si era trasformato in una tortura e umiliazione infinte, sapevano bene quanto cinismo vi fosse in quelle parole. Ecco il loro racconto. ———- Elena Vladimirovna Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati giustiziati nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona occupata. Dopo la liberazione della regione da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata dagli organi dell’NKVD. È stata rinchiusa nel campo di Vorkuta per 10 anni. Dunque, siamo finiti nella miniera. Ci hanno sbattuti lì dopo l’appello, dopo il viaggio sul convoglio, ecc., ecc.. Ci siamo avvicinati a quelle nere fauci spalancate. Era la discesa che portava alla miniera. La miniera 9 aveva una perforazione orizzontale. Ci siamo addentrati nell’oscurità con le lanterne da minatore, che producevano una luce fioca, tremolante, che non illuminava nulla. Siamo scesi attraversando le passerelle, sprofondando e cadendo fino ad arrivare alla nostra galleria. L’abbiamo raggiunta. Io sono stata assegnata al nastro trasportatore. Era come un circuito sul quale veniva trasportato il carbone dal luogo di estrazione fino ai vagoncini che attraversavano la galleria. Il mio compito era spingere avanti il carbone. Ero ai lavori forzati, quindi dovevo stare lì in piedi, vicino al nastro, e spingere, spingere, spingere velocemente il carbone con una pala. Ma non ce la facevo, soprattutto all’inizio, non ci riuscivo. Là, sopra, si estraeva il carbone. E il carbone aumentava, aumentava, aumentava. Così il nastro trasportatore, che dalla cava giungeva alla linea di trasporto, s’intasava. Allora accorreva il caposquadra. Da noi i capi, i capisquadra, erano dei delinquenti. Cominciava a picchiarmi. Ecco, il primo giorno che sono finita nella miniera è andata così. Lavoravo sui vagoncini. Dopo la miniera numero nove ci hanno mandati nella numero due dove, sottoterra, ho svolto un lavoro per me nuovo, sui vagoncini. Sottoterra non c’erano cavalli. Ma solo negli anni di cui stiamo parlando. Poi sono arrivati anche i cavalli. Allora i forzati, insieme a loro, spingevano i vagoncini con il carbone attraverso la galleria. E io ero tra questi. Avvenivano molti incidenti. C’erano sempre nuovi trasferimenti di detenuti, anche donne. In uno di questi nuovi trasferimenti era capitata una ragazza molto giovane, avrà avuto diciotto anni. Noi ne avevamo già venti, ventidue, ventitre; mentre lei era molto giovane e anche molto bella. All’inizio tutti sono rimasti colpiti dalla sua bellezza. Naturalmente non soltanto noi, ma anche gli uomini. Volevano sistemarla da qualche parte, ma non sapevano dove. Hanno litigato ed è stata mandata in miniera. E cosa crede che sia successo? È stata assegnata al trasporto. Il primo giorno ha avuto un incidente e le hanno amputato tutt’e due le gambe. Michail Iosifovič Tamarin è nato nel 1912. Studente, è stato arrestato a Mosca nel 1937. È rimasto fino al 1942 nei campi della Kolyma. Arrestato ripetutamente, è stato condannato all’esilio a vita nella regione di Krasnojarsk. Così mi sono ritrovato nella miniera di Berzin, sì era la miniera di Berzin. L’insegna diceva così: “Miniera di Berzin”, poi l’hanno ribattezzata Verchnij At-Urjach, perché Berzin, alla fine, è stato arrestato. Ho passato cinque anni in quel campo, esattamente cinque anni. Di solito facevamo il turno di notte, nella galleria, a dissotterrare la cosiddetta torba, lo strato superficiale che ricopre lo strato aurifero. Lo strato aurifero si trova sempre sott’acqua, per questo bisognava sciogliere il ghiaccio perenne. Si lavorava sempre nell’acqua. Ecco, noi lavoravamo sempre di notte; ci costringevano a lavorare molto, ovviamente; il turno iniziava intorno alle cinque del mattino, o alle sei, e finiva il mattino dopo. Cambiava il personale di scorta e noi restavamo fino al raggiungimento della quota di produzione. Se la quota non era stata raggiunta non permettevano a nessuno di uscire dalla miniera. Avevamo a disposizione solo qualche strumento: piccone, pala, piccozza, carriola e basta, questi erano i nostri strumenti. Quindi, si trasportava sulle carriole, si caricava sui vagoncini, che attraverso il cavalcavia salivano sul monte di ganga, e qui si scaricava dalle carriole. Io rimanevo in piedi, rivolto verso i vagoncini, pronto a riceverli. Una volta mi si è attorcigliato un cavo attorno alla giacca imbottita e sono rimasto appeso, mentre il cavo era in movimento. Ancora cinque minuti e sarei morto. Ma, per fortuna, lì si trovava uno che è corso verso l’interruttore e ha fermato il nastro trasportatore. La cosa interessante è stato l’arrivo di un giovane, un giovane con la gamba amputata. Lavorava in una squadra, d’inverno. Mentre stava lavorando, la parte rocciosa del terreno è crollata colpendolo alla gamba. Nemmeno venti persone con le piccozze sono riusciti a smuoverlo. Hanno chiamato un certo Tokmakov che, lì sul posto, gli ha amputato la gamba e, senza gambe, il giovane è stato portato in infermeria. Una tortura nella tortura, lei non può immaginarsi, quando alle sette ti mandano in miniera, fino alle sette, almeno fino alle sette del mattino, e lavori di notte, al freddo, mentre le guardie fanno un falò standosene al caldo. Chiamano qualche scemo come me per farsi portare dei rami, o qualcosa del genere, per il falò. Poi, di nuovo al lavoro. Vitautas Kazjulenis è nato nel 1930. Nel 1947 è stato mandato in esilio dalla Lettonia all’oblast’ di Tjumen’ insieme ai genitori. Ha aderito all’organizzazione “Prisjaga v ssylke” (“Giuramento in esilio”). Nel 1951 è stato arrestato e condannato alla fucilazione. La condanna a morte è stata poi commutata in 25 anni di lager. Ha partecipato alla rivolta di Noril’sk del 1953. Trasferito nella Kolyma nel 1954, è stato liberato dal luogo di detenzione nel 1958. Allora ci hanno fatto fare altri 400 chilometri circa, fino alle miniere d’oro. Nella regione di Jagodinsk, distretto di Utinyj, miniera di Cholodnaja. Il campo si chiamava Cholodnyj (Freddo), e faceva freddo davvero. Sorgeva… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste
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Figli dei “nemici del popolo”: ricordi di Leonid Muravnik, Elizaveta Rivčun, Valentina Tichanova, Ol’ga Cybul’skaja e Roza Šovkrinskaja ——- Arresto del padre Leonid Muravnik – Figlio di un funzionario di partito. Il padre e la madre sono stati fucilati nel 1937. Dall’età di 9 anni è stato inviato in diverse case per l’infanzia da cui è sempre fuggito finendo quindi per vagabondare. Muravnik: Dato che vivevamo in una sola stanza, quando il papà tornava dal lavoro stanco, pensieroso intorno a mezzanotte mi capitava spesso di sentirlo discutere animatamente con la mamma. Lei gli diceva: “Jaša, hai sentito? Hanno arrestato Larin” e il papà rispondeva: “Ho sentito”. “Jaša, hai sentito? Hanno arrestato Orlov”. “Ho sentito”. La mamma rispondeva: “Ma tu cosa pensi di tutto questo?” e lui rispondeva: “Il partito sa quello che sta facendo”. La risposta era sempre la stessa: “Il partito sa quello che sta facendo”. Era un uomo fanatico, ma cosa altro avrebbe potuto dirle? Niente. Ed è arrivato il fatidico giorno 25 maggio, quando un’operazione organizzata, non c’è che dire ben organizzata, è stata messa in atto: hanno arrestato tutti! Hanno riunito il Bjuro del comitato distrettuale del partito ad una conferenza e li hanno arrestati tutti dal primo all’ultimo. Valentina Tichanova – Figlia adottiva del Commissario del popolo della giustizia della RSFSR. Il patrigno e la madre sono stati fucilati e Valentina a 4 anni è stata inviata in una casa per l’infanzia a Dnepropetrovsk. Tichanova: Era l’11 settembre. Di notte sono stata svegliata da un rumore, da dei suoni indefiniti. Ho indossato la vestaglia, sono uscita dalla mia stanza, ho attraversato il corridoio e sono arrivata alla porta dello studio in cui la luce era accesa. Sulla porta c’era Lukinična, la nostra domestica, e nella stanza c’erano due uomini, uno dei quali teneva in mano la cornetta del telefono e diceva: “Sì, abbiamo finito. Abbiamo fatto tutto. Sì, va bene”. E ha riattaccato. L’unica cosa che poi ricordo è che mi sono ritrovata sulla porta che piangevo. Elizaveta Rivčun – Figlia del musicista David Gejgner. Nel 1935 la famiglia era rientrata dalla Cina in URSS e nel 1938 David Gejgner è stato fucilato. Rivčun: Ecco quello che mi ricordo dell’ultima notte con mio padre. Quando tutti sono usciti, siamo rimasti seduti e impietriti fino alla mattina seguente. La mattina sono andata a scuola con mio fratello e la mamma ha corso per le varie prigioni in cerca del papà. Dopo alcuni giorni ha trovato il suo nome nelle liste della prigione Butyrka. Per due mesi hanno accettato di recapitargli la posta e dei soldi, ma poi hanno detto che era stato mandato in un altro luogo e che non era più nelle liste. Con questo abbiamo ogni traccia del papà. I nostri conoscenti avevano paura di frequentarci Rivčun: Semplicemente ci hanno isolati. Hanno smesso di telefonarci e nessuno veniva a trovarci. I nostri conoscenti avevano paura.Temevano per la loro vita. Tutto questo l’ho capito solo dopo. Allora, capivo solo che eravamo soli. All’inizio non hanno permesso a mia madre di lavorare. Figuratevi che temevo che il direttore mi chiamasse e mi dicesse che non potevo più andare a scuola, perché “il tuo papà è un nemico del popolo e tu non puoi andare a scuola”. Sovkrinskaja Roza Jusupovna – Il padre, membro del comitato regionale del partito del Dagestan, è morto in prigione. La sorella, Oktjabrina, è stata condannata a 10 anni di lager. Šovkrinskaja: Dopo il nostro arrivo nell’aul, quando il primo giorno siamo usciti, non so chi l’avesse insegnato ai bambini – i bambini non sapevano il russo – i bambini ci hanno bloccato la strada: “Trockisti! Trockisti!”. Da chi avranno mai imparato quella parola? Siamo scoppiati a piangere. Siamo tornati a casa e abbiamo detto: “Mamma non usciamo più. Non andremo più in quella scuola”. Muravnik: Quando andavo dalla zia Olja, sentivo che di notte diceva a suo marito e al nonno Kostja: “Noi non lo possiamo tenere. Se lo vengono a sapere i čekisti arrestano i nostri bambini”. E la mattina mi diceva: “Lenja, fai colazione e vai dalla nonna”. Io facevo colazione in silenzio e andavo dalla nonna. Arrivavo da Berta Mojseevna “Che ci fai qui?”. “La zia Olja mi ha detto di venire da voi”. Ma anche la nonna non era contenta della mia presenza. “Nonna, ma dov’è il problema? Perché?”. “Perché tu sei marchiato”. “Ma come marchiato?” “Quando il nonno verrà a sapere che sei venuto si arrabbierà molto”. Arresto della madre Muravnik: Ci siamo incontrati per l’ultima volta su una panchina del boulevard Petrovskij. Lei, in lacrime, mi ha detto: “Lenik, figlio mio, non so se tornerò. Non voglio ingannarti. Ma voglio che tu cresca come un uomo onesto e che tu impari da solo a superare le difficoltà. Nessuno in questa vita ti aiuterà, per cui impara da solo ad affrontare le situazioni. Credi nei tuoi genitori perché ti aiuterà nella vita”. Siamo andati dalla nonna e mi sono sdraiato affranto fino a quando non mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato la mamma non c’era più. Rivčun: La mamma era a letto. Aveva la febbre a 38 ed era raffreddata. Sono arrivati e lei ha detto: “Sono malata”. “Ma noi la tratterremo per poco tempo. Suo marito non si ricorda molto e lei ci aiuterà”. Lei ha risposto: “Ho la febbre”. “Ma noi vi riporteremo a casa”. Lei si è alzata, si è coperta ed è uscita con le pantofole calde. Se n’è andata. È tutto. Non l’abbiamo più vista. In seguito si è saputo che era stata fucilata. Casa per l’infanzia Tichanova: Quando sono arrivata, dietro ad un tavolo sedeva un certo nonno Miša in uniforme militare. Non ricordo cosa gli ho chiesto ma ricordo che lui mi ha detto: “Lei resterà qui”. Ma ricordo perfettamente di essermi molto spaventata. Lui ha detto: “La manderemo in una casa per l’infanzia”. Muravnik: Ad un certo punto di notte sono venuti a prenderci. Eravamo circa una quindicina. Ci hanno messo su una… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista
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Elena Markova ricorda: forzata Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati vittime di repressioni, il padre fucilato nel 1937. Nel 1941-43 si trovava nel territorio occupato della regione di Doneck. Dopo la liberazione della regione da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata dagli organi dell’Nkvd e condannata a 15 anni di lavori forzati. Per 10 anni è stata detenuta al Vorkutlag. Riabilitata. È dottore in scienze tecniche. ——— Be’, se parliamo della rovina di quella generazione, dunque mio papà, insegnante, è stato sottoposto a repressioni e fucilato nel ’37, durante il grande terrore. La mamma è stata arrestata nel ’38. Ed ecco mi hanno proposto di scrivere una dichiarazione per il giornale murale, che rinnegavo i miei genitori e così via, che ero una patriota. Ma non l’ho fatto. Inizio della II guerra mondiale. La vita sotto l’occupazione E così, l’inizio della guerra. Naturalmente era svanito il mio sogno di andare all’università. Nonostante fossi figlia di una vittima delle repressioni, allora non capivo che forse all’università non mi avrebbero preso. Dunque, avevano ceduto il Donbass senza combattimenti. Perciò sulla linea del fronte, ecco, quando i tedeschi avanzavano e noi ci ritiravamo, non capivamo neanche cosa stesse succedendo. Non tutti gli ebrei sono riusciti a sfollare, perché semplicemente non c’erano mezzi. Be’, a piedi, andavamo a piedi. Ed ecco un altro dettaglio di una famiglia ebrea che conoscevamo bene. Li ricordo dall’infanzia, erano molto amici del papà e della mamma. C’erano due sorelle, medici. Hanno caricato un po’ di masserizie, sono partiti. C’era un cavallino, o due. Dopo aver fatto un po’ di strada, si è scoperto che davanti c’erano già i tedeschi. Sono tornati. Ed ecco, quando sono tornati, e qui erano già arrivati i tedeschi, mi hanno chiesto di abitare per un po’ da loro, così, se fossero arrivati i tedeschi, avrei aperto io la porta, e non loro. Be’, pensavano che comunque il pericolo c’era, ma se ci fosse stata una bambina russa, i tedeschi se ne sarebbero andati subito. Nessuno capiva la situazione reale. Ed ecco, per qualche tempo ho abitato da loro. Poi naturalmente li hanno poratati via comunque, e sono morti. Febbraio, doveva essere l’undici febbraio. C’è stato lo sfondamento del fronte già nel punto dove vivevamo noi. Era il Donbass, la città di Krasnoarmejsk. E io sono corsa fuori in via Lenin, e là i feriti erano distesi semplicemente per strada. Non c’era nessun battaglione sanitario, nessuna infermiera. La gente perdeva sangue, gridava, e nessuno la salvava. Ho cominciato a trasportare i feriti nell’edificio del nostro poliambulatorio cittadino, che si trovava alcune vie più in là, in via Sverdlov. Mi è venuta subito l’idea che comunque quello era un istituto medico, bisognava salvare le persone e trasportarle là. Là ho dato loro da bere, li ho medicati, li ho consolati in qualche modo. C’era questo gruppo di feriti in quell’edificio vuoto del poliambulatorio, dove ho cercato di soccorrerli. E poi, già dopo qualche ora, è arrivato ufficialmente il battaglione sanitario. E così c’è stato lo sfondamento del fronte, e la battaglia per la città è continuata ancora. Una parte della città era delle truppe da sbarco, e una parte della città era dei tedeschi. E noi non abbiamo fatto in tempo a guardarci intorno, che qualcuno ha gridato alla finestra: «Arrivano i carri armati tedeschi!» Li chiamavano “tigri”. Che fare? Alcuni erano feriti leggermente, potevano camminare, ma una parte erano feriti gravemente. Così è maturata un’idea. Di notte, attraverso l’uscita posteriore, perché davanti a quella principale c’era una guardia, cercare di dare la possibilità di fuggire ai feriti meno gravi, perché si nascondessero dalla popolazione locale. Allora non c’erano passaporti, c’erano gli Ausweis. Erano dei certificati che rilasciava l’ufficio di collocamento. Be’, come un attestato che eri residente in quel luogo. Alla fine di marzo sono andato a lavorare all’ufficio di collocamento. E in agosto c’è stata la definitiva liberazione di quella località dai tedeschi. Cioè, ho lavorato là per un periodo piuttosto breve. Ma per quel periodo davvero mi sono procurato quegli Ausweis, anche se c’era pericolo di morte, per quei documenti falsi. E tutte le persone nascoste da noi sono state salvate. Fine dell’occupazione. Primo arresto. Dunque, è finita l’occupazione, sono arrivate le nostre truppe. Be’, qui, se fossi stata un po’ più intelligente, un po’ più calcolatrice, non avrei fatto il passo che, sconsideratamente, ho fatto. Che cosa ho fatto? La popolazione del territorio occupato non aveva diritto di spostamento, quando i nostri hanno occupato quelle truppe. Perché hanno iniziato le verifiche, là c’erano nemici del popolo, traditori della patria, traditori. Non lasciavano muovere un passo a nessuno, cioè trasferirsi in un’altra città. E a un tratto mi vado io stessa a cacciare in quelle fauci, e dico: datemi il permesso di andare a studiare all’università. Naturalmente non mi danno nessun certificato. Ed ecco mi sono ritrovata in quello scantinato, al mulino, alla fabbrica di farina, nel reparto femminile. E vicino c’era un enorme locale sotterraneo, dove si trovavano gli uomini. Tutti stipati come sardine in un barile. Non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è niente. E la gente non capisce, come all’inferno: che cosa succederà? Non si respira. È uno scantinato. Dunque, condizioni assolutamente antigieniche. E mi è venuta l’erisipela, un’infiammazione alla gamba. Perché stavamo in un tale sudiciume, che è cominciata anche la dissenteria, e Dio sa cosa. E a me è venuta l’erisipela. Secondo arresto e inchiesta E mi trovo a casa sotto cauzione, ma mi sembra che debba esserci stato un errore, io non ho nessuna colpa, ho salvato delle persone, devo andare all’università. Mi sembra perfino inverosimile. Era mai possibile che non capissi niente a questo modo, e solo perché volevo studiare, che agissi per la seconda volta allo stesso modo, quando la prima volta mi avevano già arrestato? E andai una seconda volta. Ma è andata ancora peggio. Dunque, mi gettarono in una fossa. In una parola, per quell’episodio, che avevo lavorato come interprete all’ufficio… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Interviste