La dissidente e l'oligarca

La dissidente e l’oligarca “Com’era bella Mosca…” Michail Borisovic Chodorkovskij, 49 anni, è stato arrestato nel 2003, quando la sua Yukos era tra prime compagnie petrolifere del suo Paese. Ljudmila Ulickaja, 69 anni: di formazione genetista, è oggi la più autorevole scrittrice russa. I due hanno una nostalgia comune per Mosca, una città perduta, oggi troppo Ljudmila Ulickaja e Michail Chodorkovskij si sono confrontati a distanza e hanno scoperto insospettabili affinità. Pubblicato il loro carteggio ANNA ZAFESOVA Un’intellettuale e un oligarca. Un’anticomunista e un reduce del Komsomol. Una dissidente e un uomo che fin da piccolo sognava il potere. Due persone divise da tutto, dall’età alla distanza, e soprattutto dal filo spinato, che senza essersi mai incontrate si scoprono, si confrontano, quasi si seducono. Il carteggio tra Ljudmila Ulickaja e Michail Chodorkovskij, la scrittrice più autorevole e il detenuto più famoso della Russia – pubblicato, insieme con numerosi articoli, interviste e altri documenti dell’oligarca nel volume La mia lotta per la libertà , appena uscito da Marsilio – a tratti sembra essere preso di peso da un romanzo russo dell’800, ma è cronaca e attualità di un Paese abituato alla tragedia, e a produrne quasi automaticamente letteratura. È lei a cercarlo, nel 2008, incuriosita da questo oligarca a quel punto in carcere da cinque anni per aver sfidato Putin. «Odio i ricchi», gli confessa subito, nella prima lettera, e lui le risponde canzonando i suoi pregiudizi «tipici di una parte considerevole della nostra intellighenzia». Dissidente all’epoca sovietica, Ulickaja è però parte fiera di un’élite che disprezza l’accumulazione primitiva, ma questo magnate che ha finanziato scuole, asili, orfanotrofi, programmi di istruzione la stupisce, e la stupisce ancora di più la sua scelta di sfidare il potere, e pagarla. E il Gulag, un’esperienza che è nel Dna di quasi tutti i russi (nel caso della scrittrice, i nonni detenuti all’epoca staliniana e gli amici dissidenti arrestati negli Anni 60), rende questo «ricco» un essere umano, anzi, gli attribuisce una statura morale superiore. «Per la letteratura russa il tema del carcere è fondamentale», gli scrive, e lui le risponde citando l’eterno dibattito tra Varlam Shalamov e Aleksandr Solzenicyn, e prendendo le parti del primo nell’affermare che nella prigione non c’è nessuna esperienza positiva, «è il luogo dell’anticiviltà, dove il bene è male, la falsità verità». Un primo scambio dal quale, tra discussioni su Voltaire, Dostoevskij e Platone, parte un dialogo appassionato, dove lei interroga e lui risponde, in un tentativo di scoprire i «valori» che possono accomunare due persone così diverse. Ed è un susseguirsi di sorprese, dove Ulickaja scopre nel magnate, visto come il simbolo del «capitalismo selvaggio» postcomunista, un uomo molto più «sovietico» di lei, che fin da piccolo sognava di fare il direttore di fabbrica, perché «era la persona più importante». Lei cerca di giustificare la sua sfida a Putin con l’educazione dei genitori, piccola intellighenzia moscovita, ma lui tronca le sue aspettative: «Non amavano affatto il potere sovietico», ma cercavano di non comunicare questo sentimento al figlio altrimenti «mi avrebbero rovinato la vita». A scuola, all’università e nel Komsomol vive una vita dove le «mosche bianche», come Ulickaja e i suoi amici, non ci sono. La scrittrice resta quasi scandalizzata da questo capitalista che si racconta come «un bravo e “ortodosso” membro del Komsomol» che non nutriva «alcun dubbio su chi fossero gli amici e i nemici». Al punto da scegliere consapevolmente una facoltà legata all’industria bellica perché la cosa più importante era «difendersi dai nemici esterni». Di Chodorkovsky alla scrittrice non dovrebbe piacere nulla: il suo passato da «sovietico», la sua ambizione – «più che l’ideologia contava il desiderio di essere un leader», confessa lui -, il suo conformismo. Cerca di farsi dire che si «mimetizzava» per sopravvivere e, ricevuta la smentita, conferma: «Lei apparteneva di sicuro a quella cerchia di persone con cui io, a voler essere indulgenti, non avevo rapporti d’amicizia», gli scrive nelle lettere che manda nella prigione siberiana. Eppure si accorge che «più passava il tempo» e più le piaceva questo strano oligarca che sublima le illusioni perdute verso il comunismo nell’idea dello Stato sociale e nella determinazione a «spendere la propria vita per almeno avvicinare il sogno» delle pari opportunità per tutti. Si ritrovano nella nostalgia comune per una Mosca perduta, oggi troppo violenta, sporca, «commercializzata» e deturpata, ma lui la sconvolge di nuovo dichiarandosi patriota russo («la farà ridere») e «statalista», addirittura promotore di un ritorno alla pianificazione. Lei lo contesta, lui cerca di convincerla che quelli dall’altra parte – comunisti o oligarchi che fossero possono avere le loro ragioni: «Comprendere e perdonare», è la lezione che raccoglie nel carcere. E lei gli risponde con la speranza che un giorno tornerà a battersi per le sue idee, e ne discuteranno insieme, «davanti a una tazza di tè. http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/444749/

M. Flores, La mappa dei negazionismi di Stato

La mappa dei negazionismi di Stato Dallo sterminio degli armeni alla Shoah, dal colonialismo alla questione irlandese Chi vuole falsificare il passato oggi può contare su nuove, potenti strategie comunicative di Marcello Flores Corriere della Sera 26.2.12 Negazione, revisione, rimozione: attorno a questi termini si svolgono da anni, in tutto il mondo, history wars, guerre di interpretazione su eventi drammatici e luttuosi, che non riguardano solo gli storici ma, spesso, governi e Stati, popoli e minoranze, vittime e carnefici. All’interno della memoria pubblica la questione del negazionismo ha acquistato, con gli anni, sempre più spazio. La conoscenza storica è stata spesso manipolata, travisata, riabilitando o condannando per interessi politici, ideologici, statali. Di negazionismo in senso stretto, ossia di storici che negano realtà assodate e riconosciute da tutti, vi è forse solo il caso della Shoah, venuto alla ribalta negli anni Settanta e poi amplificato negli anni Novanta a opera di un ristretto manipolo di storici (o autoproclamatisi tali). I campi di sterminio e l’uccisione di cinque-sei milioni di ebrei avrebbero costituito, per costoro, una «menzogna», il risultato di un complotto giudaico. Pochi e squalificati (i più noti sono Robert Faurisson e David Irving), i negazionisti hanno costruito nuove strategie comunicative e approfittato del sorgere di movimenti neonazisti per ottenere attenzione dai media, rimanendo sempre del tutto marginali e ininfluenti, ma contribuendo alla rinascita di rigurgiti di antisemitismo. Con l’appoggio al negazionismo del presidente iraniano Ahmadinejad si è ulteriormente diffusa, soprattutto nel mondo arabo, una visione riduttiva e minimizzatrice della Shoah, vista come mito fondatore dello Stato di Israele più che come evento cruciale del Novecento. Di negazionismo di Stato si è parlato molto anche a proposito del genocidio degli armeni. Il famigerato articolo 301 del codice penale turco — che ha permesso di portare in tribunale per «offese alla turchità» centinaia di persone, tra cui il Premio Nobel Pamuk, ree di ricordare il massacro degli armeni — rappresentava la minaccia più pesante che lo Stato turco poneva su chi volesse parlare di genocidio. Il negazionismo turco si è basato per anni sull’attività di istituzioni accademiche e di storici occidentali compiacenti che hanno ridimensionato o attribuito alla violenza di guerra, o a quella preventiva contro il possibile tradimento degli armeni, i massacri iniziati nel 1915 (tra essi Stanford Shaw e Justin McCarthy con una posizione più giustificazionista, ma anche Bernard Lewis con l’intento di minimizzare). Oggi la strategia è quella di chiedere che vengano poste «sullo stesso piano» interpretazioni diverse, senza insistere sulla negazione in sé, con l’obiettivo di far diventare legittime, pur se discutibili, le interpretazioni che riducono a poche centinaia di migliaia le morti armene (di fronte alle stime ormai consolidate tra 1 e 1,5 milioni di morti), poste a confronto con quelle superiori sofferte dai turchi nel corso della Prima guerra mondiale. Di qui la dura protesta del governo di Ankara contro la legge francese che punisce chi nega le stragi degli armeni. Gran parte del dibattito rimane ancorato alla possibilità di usare il termine genocidio — dizione fortemente avversata dallo Stato turco — in una querelle terminologica che ha riguardato anche altri casi. Tra questi quello della carestia in Ucraina nel 1932-33, che causò la morte di almeno 5 milioni di persone (altre stime parlano di 7 e il governo ucraino di 10) in seguito a direttive politiche del regime staliniano per piegare l’opposizione contadina alla collettivizzazione e la ripresa di movimenti nazionalistici. La rivendicazione dell’Holodomor («uccisione per fame») come genocidio o crimine contro l’umanità è ormai largamente accettata, ma vi sono ancora forti resistenze a riconoscerlo — e ad ammetterne la matrice politica — soprattutto in Russia. Il dibattito sulle vittime del comunismo può ormai poggiarsi su solide basi documentarie. Negato negli anni 50 e 60 da molti simpatizzanti, compresi storici e intellettuali, accettato ma minimizzato negli anni 70 quando Solženicyn ne portò alla ribalta la tragica esperienza, dibattuto sulla base della documentazione disponibile negli anni di Gorbaciov, il sistema del Gulag è oggi unanimemente riconosciuto nella sua estensione, profondità e tragicità. Tra il 1930 e il 1952 vennero condannate alla fucilazione 1 milione di persone, 19 milioni a pene detentive in campi e prigioni, 30 ai lavori forzati e ad altre misure repressive. È sul versante statale che si sono avute forme preoccupanti di rimozione che hanno alimentato disinteresse e disinformazione da parte dell’opinione pubblica russa sul suo passato. Putin ha sottolineato la grandezza di Stalin, espresso rammarico per la scomparsa dell’Urss, celebrato i «monumentali risultati» del periodo sovietico, festeggiato i servizi segreti e reintrodotto l’inno nazionale dell’Urss; Medvedev ha istituito nel 2009 una commissione per contrastare «la falsificazione della storia a danno della Russia», ma non, evidentemente, quella a suo vantaggio. I numerosi libri dello storico Jurij Zhukov, (l’ultimo del 2011 dal titolo inequivocabile Essere orgogliosi e non pentiti. La verità sull’epoca staliniana) stanno conoscendo diffusione e successo. Come molti libri divulgativi che relativizzano i crimini del comunismo e rivalutano l’epoca staliniana soprattutto per il periodo di guerra, grazie all’influenza della chiesa ortodossa. Shoah, genocidio armeno, Gulag, non sono gli unici eventi su cui si sono cimentati il revisionismo storiografico o la rimozione pubblica. In Francia la discussione ha ruotato attorno al regime di Vichy e al colonialismo in Algeria, e ormai solo qualche sparuto storico militare è ancora disposto a negare i risultati della ricerca su entrambe le questioni. Cosa che fanno alcuni politici e giornalisti per influenzare l’opinione pubblica in una rivalutazione esplicita della grandeur francese e nella riproposizione di tabù sul collaborazionismo o l’uso della tortura nelle colonie. Una legge del 2005 sottolineava il «ruolo positivo del colonialismo» e la creazione da parte di Sarkozy di un ministero insieme dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale ha rilanciato la discussione sulla «frattura coloniale», spingendo a posizioni (come quella di Daniel Lefeuvre in Farla finita col pentimento coloniale) che tendono a negare o ridimensionare non più i fatti ma le interpretazioni e le attribuzioni di responsabilità. Il dibattito in Cile, Argentina e Uruguay si è svolto anch’esso più attorno alle interpretazioni e definizioni, ai… Continua a leggere M. Flores, La mappa dei negazionismi di Stato

Il caso degli storici di Archangel’sk

Il caso degli storici di Archangel’sk e i suoi riflessi sulla ricerca in Russia Da quando, il 18 ottobre 1991, il parlamento dell’allora Federazione Russa Sovietica emanò la Legge sulla Riabilitazione, i parenti delle vittime delle repressioni degli anni del comunismo hanno il diritto di consultare gli archivi riservati del ministero degli Interni per la documentazione che riguarda direttamente le loro famiglie. Si tratta degli atti contenenti le misure repressive, le autobiografie delle persone arrestate, fotografie e materiale filmato. Con la dissoluzione dell’Unione, in Russia e in altre ex Repubbliche Sovietiche sia lo Stato, sia organizzazioni non governative, hanno pubblicato una grande quantità di Knigi pamjati, i Libri della memoria. Si tratta di testi riguardanti una specifica regione e, a volte,  differenti categorie di persone represse (vittime del Grande terrore, popolazioni deportate per motivi etnici, kulaki). Soltanto per la regione di Archangel’sk, a Nord-Ovest di San Pietroburgo, ne sono già stati pubblicati molti, di cui sette sui cittadini sovietici di etnia polacca. Il centro di documentazione più importante per lo studio delle repressioni nella regione di Archangel’sk è il locale archivio della Direzione del ministero degli Interni (UVD), diretto fino al 2007 dal colonnello Aleksandr Vasil’evič Dudarev. Quell’anno Michail Nikolaevič Suprun, direttore del Dipartimento di Storia della Russia presso l’Università Statale “Pomorskij”, si rivolse all’Archivio con la proposta di redigere un Libro della memoria dei cittadini sovietici d’origine tedesca (i cosiddetti etničeskie nemcy), deportati tra il 1945 e il 1956. La ricerca venne finanziata dalla Croce Rossa tedesca, che aveva firmato un accordo di collaborazione con l’Università. Dudarev offrì piena collaborazione e una dottoranda, Nadežda Šalygina, cominciò a vagliare il materiale; circa 40.000 documenti vennero trasmessi alla controparte tedesca. Verso la fine dell’estate 2009 la prima parte del libro era terminata; la Procura della regione di Archangel’sk, però, iscrisse Dudarev e Suprun nel registro degli indagati: il primo fu accusato di abuso d’ufficio (articolo 286 del Codice penale russo). Il secondo, di aver violato l’articolo 137, ossia diffuso “segreti di famiglia”, senza il consenso delle persone interessate. La Procura agì in base alla denuncia di cinque famiglie di cittadini sovietici di origine tedesca, a suo tempo repressi e poi riabilitati, sostenuti dai servizi russi (FSB), che sequestrarono l’archivio di Dudarev. Il fatto ebbe grande eco in Russia, per le sue chiare implicazioni: fu interpretato, infatti, come un preciso attacco alla libertà di ricerca e un segnale per quanti, sia nelle Università, sia nelle Organizzazioni non Governative, studiavano le repressioni staliniane. La maggiore Ong russa che svolge ricerca sul periodo più cruento del regime comunista sovietico, “Memorial”, si occupò immediatamente della questione. Fu, in particolare, la sede di San Pietroburgo a sostenere che se il prof. Dudarev aveva commesso un reato penale, “Memorial”, impegnato da due decenni in un’attività simile, reiterava lo stesso sistematicamente. Inoltre, in un documento diffuso in difesa dei due indagati, si faceva notare come l’articolo 18 della Legge sulla Riabilitazione sostenesse proprio che le liste delle persone riabilitate, con i dati biografici e l’accusa per la quale erano state arrestate, dovevano essere pubblicate periodicamente dagli organi d’informazione. Mentre il maggiore giornale d’opposizione, la “Novaja Gazeta”, foglio per il quale scriveva Anna Politkovskaja, intervenne a sostegno di questa tesi, giornali locali filo-governativi elogiarono l’azione della Procura, ponendo al centro della propria riflessione il danno eventuale che sarebbe potuto venire alla Russia dalla diffusione, all’estero, di dati sulle repressioni. La mobilitazione interna e internazionale mise pressione agli inquirenti di Archangel’sk e l’intero caso fu trasferito per competenza al Tribunale della Circoscrizione del Nord-Ovest, con sede a San Pietroburgo. La speranza che il caso fosse rapidamente chiuso venne presto delusa; le indagini proseguirono e la loro conclusione subì diversi rinvii, fino a quando il Tribunale di Pietroburgo non respinse l’istanza dei due indagati, con la quale si chiedeva di riconoscere illegali le indagini nei loro confronti. Dudarev e Suprun vennero rinviati a giudizio e nel luglio 2011 il caso tornò ad Archangel’sk. In autunno si è svolto il processo, a porte chiuse, che si è concluso l’11 dicembre con la prescrizione del reato contestato a Suprun e la condanna di Dudarev a un anno di carcere con la condizionale. Entrambi gli imputati ricorreranno in appello. Marco Clementi

Havel e la Rivoluzione di velluto

Václav Havel, scomparso il 18 dicembre scorso, è ricordato come il primo presidente della Cecoslovacchia non comunista, artefice della caduta del Muro, l’uomo di Charta 77 e della rivoluzione di velluto. Fu qualcosa di più, e di diverso. Nato a Praga il 5 ottobre 1936 in ambiente intellettuale, cominciò a scrivere e comporre giovanissimo. La sua prima opera è del 1959 (Tutta la vita davanti), seguita da Metamorfosi, nel 1961. In breve si affermò come drammaturgo e poeta ed entrò a far parte dell’Unione degli Scrittori. Scioccato dall’esito della Primavera di Praga, definì la restaurazione portata dai carri armati come “il regime dell’oblio”. E quando Jan Palach, Jan Zajic e Ezven Plocek si diedero fuoco per protestare contro la passività del proprio popolo, Havel affermò che la società aveva compreso. Ognuno capiva la necessità di fare qualcosa di estremo: Palach e gli altri lo avevano fatto per tutti. Ci si rese conto allora, che quel socialismo illiberale e post-totalitario era davvero il socialismo, e che tutte le altre possibili alternative, pur in quello stesso ambito ideale, fossero definitivamente decadute. Nell’aprile del 1975, dopo aver fondato le edizioni «Expedice», Havel scrisse una famosa lettera aperta all’allora capo del partito comunista, Gustáv Husák, nella quale parlava della crisi morale e spirituale che stava vivendo la società; denunciava l’auto alienazione, la dissimulazione e la fuga nel privato. Secondo Havel, gli uomini della reazione avevano capito la minaccia che pendeva sopra l’esistenza del regime il quale, per conservarsi, doveva privarsi di ogni spinta rinnovatrice. Da quel momento, e per venti anni, fino alla rivoluzione di velluto del 1989, tutti i meccanismi della manipolazione, diretta e indiretta, della vita si svilupparono creando un sistema che Havel chiamò “totalitarismo maturo e avanzato”. La rivoluzione e il terrore lasciarono il posto all’immobilità, all’omologazione, all’anonima burocrazia stereotipata. Dalla caduta di Dubček fino alla rivoluzione di velluto si sarebbe formato all’interno della società cecoslovacca un dualismo che comprendeva la verità ufficiale e quella ufficiosa e condivisa, che escludeva la prima. Il grado di tolleranza del sistema si misurò nella forza dell’opinione informale di imporsi come generale. Il nascente dissenso e la nascita di Charta ‘77, cercarono di costringere il regime al rispetto delle sue stesse leggi. Dopo gli accordi di Helsinki, infatti, il partito comunista fu costretto a misurare l’uso della repressione contro gli oppositori.       L’epoca grigia di rassegnata apatia, però, continuò: mentre piccoli centri focali di resistenza venivano scoperti e repressi, la comunità faceva finta di non. Il regime ottenne come risultato più visibile del suo operato la fuga della gente comune dalla realtà quotidiana, dai problemi sociali e dalla politica. Alcuni argomenti diventarono proibiti e la storia fu sostituita da una pseudostoria celebrativa. Havel ricorda i primi anni Settanta come l’epoca della sospensione della storia. Era come se il divenire avesse perso la sua cadenza naturale, la direzione e il mistero, per trasformarsi in automanifestazione e autocelebrazione unilaterale di un unico soggetto, centro di verità e di potere. Dato che il tempo umano può essere esperito solo attraverso gli avvenimenti, iniziò a scomparire l’esperienza stessa del tempo, che cominciò a girare in tondo. Gli accadimenti si alternavano attraverso un prima e un dopo assolutamente simili, tanto che diventava difficile distinguere un anno dall’altro, mentre una serie di celebrazioni scandivano  l’anno, dal Primo maggio alla Liberazione, dall’8 Marzo all’Insurrezione nazionale slovacca, dalla Festa dell’esercito al Febbraio vittorioso. Assumendo la riflessione di Edmund Husserl sulla realtà del mondo immanente come il solo luogo in grado di misurare la morale, Havel tornò sul concetto della Lebenswelt come del mondo nel quale tutti viviamo, luogo che nutre la condizione di vivere nella verità. La parte secondaria di tutti i fenomeni e le entità distinte nel mondo che noi possiamo osservare, annunciare o esperire esistenzialmente in vari modi, è qualche cosa che possiamo definire come un «ordine generale dell’Essere». Tale Essere è compartecipe di tutte e in tutte le culture le quali, pur essendosi diversificate migliaia di anni fa, assumono ancora nel presente i medesimi archetipi di base, che non sono mai stati abiurati. La storia intera del cosmo, e specialmente della vita, è registrata quindi nel lavorio interno di tutti gli esseri umani e dopo migliaia di anni persone di epoche diverse e di culture lontane sono unite come parti dello stesso Essere; tutte le culture presumono l’esistenza di qualche cosa che Havel chiama «Memoria di Essere», nella quale viene continuamente registrato ogni aspetto della vita; le garanzie della libertà umana e della responsabilità personale si ritrovano non già nei programmi politici o nei sistemi di pensiero, bensì nella relazione tra l’uomo e il trascendente, di cui egli è parte integrante. Partendo da queste riflessioni, Havel individuò nella Primavera di Praga l’ultimo atto, la proiezione esteriore di un dramma condotto nell’ambito dello spirito e della coscienza della società. La primavera di Praga come l’esito ultimo della società socialista, non come un suo risveglio, che sarebbe avvenuto solo venti anni dopo, con la fine del comunismo e la sua, involontaria ma necessaria, salita al Castello.  Marco Clementi

Memoria e crimini di guerra

Nel corso della Seconda guerra mondiale, sulla base delle decisioni assunte a Mosca nell’ottobre 1943, gli Alleati avevano creato una Commissione Investigativa delle Nazioni Unite per i Crimini di guerra (United Nation Commission for the Investigation of War Crimes) alla quale dovevano rivolgersi i governi per chiedere l’estradizione di militari sotto accusa. La Commissione, facendo uso di proprie liste, decideva se accettare o meno la richiesta. Non c’era, dunque, possibilità di un contatto diretto tra paesi. In alcuni casi la Commissione rifiutò l’estradizione per la generalità delle accuse presentate o la mancanza di testimonianze attendibili. In altri, perché i nomi erano scritti in modo errato. Alcuni italiani furono processati in Jugoslavia, in Unione Sovietica e in Grecia, ma la questione scomparve dalle priorità intorno al 1950. Perché? Non certo per un’imposizione alleata. La Grecia, che fino al 1949 fu teatro di una guerra civile, aveva aperte importanti questioni territoriali con i suoi vicini: Bulgaria, Jugoslavia e Albania. Continuare a insistere con l’Italia per ottenere l’estradizione di presunti criminali, significava rischiare di rimanere isolata nei Balcani, con una Turchia storicamente non amica. Aveva bisogno di Roma. La quale, da parte sua, il 6 maggio 1946 istituì una Commissione allo scopo di indagare sul comportamento degli organi militari e civili nei territori occupati. Alla fine delle sue indagini, questa respinse molte delle accuse, in particolare quelle jugoslave, soprattutto per il loro carattere generico. Tornando alle “Fosse Ardeatine”, si può senza dubbio stigmatizzare il comportamento di uno Stato che agisce in modo opportunista, ma va sottolineato che la ricerca storica non deve attendere un avallo politico o giudiziario per sentirsi legittimata. Già durante la guerra gli alleati erano bene informati dei crimini tedeschi commessi in Italia dopo l’8 settembre 1943. Un documento inglese del 1944 conservato presso l’archivio del ministero degli Esteri di Atene riporta 149 eccidi perpetrati dai tedeschi nella penisola: i luoghi sono in ordine alfabetico: accanto ad ognuno è indicata la data, la descrizione dell’azione e il numero dei morti. Era, dunque, possibile studiare i fascicoli riguardanti i crimini tedeschi commessi in Italia e conservati nel cosiddetto “armadio della vergogna”, ben prima che nel 1994 il procuratore militare Antonio Intelisano lo ritrovasse nello scantinato del tribunale in cui era stato “dimenticato”. Non era difficile reperire in archivio notizie su quegli eccidi. Bastava cercare, come dimostra Felix Bohr. Marco Clementi