Il milionario contro lo Zar. Kodorkovskij: la mia scelta di restare in Russia
di Adriano Sofri, La Repubblica, 15/02/2012
Esce una raccolta di interventi, interviste e corrispondenze dell’oligarca messo in prigione da Putin.
“Mi pento ogni giorno di non essere andato all’estero. Ma in realtà non è così: perché non avrei potuto vivere” .
L’hanno trasferito dal confine con la Cina a quello con la Finlandia, l’hanno condannato a 13 anni.
Era a Boston col figlio, quando fu chiaro che cosa lo aspettava, decise di rientrare. Ora non chiede la grazia.
C’è un gran romanzo russo. Una fortuna colossale e improvvisa, e una rovina ancora più improvvisa. Il cinismo e la futilità del Cremlino. La conversione del protagonista. E la galera, la galera moscovita e siberiana e careliana. È un romanzo d’appendice, come i classici russi, quando l’autore scriveva mese per mese per sbarcare il lunario, e non sapeva ancora come sarebbe andata a finire. In questa circostanza, ciascuno di noi può condividere, in una piccolissima quota, la responsabilità dell’autore. Bisogna riassumere le puntate precedenti. I protagonisti sono due – benché dietro ci sia l’eterna Russia. Uno è Vladimir Putin, ed è quello che vince. A marzo sarà rieletto Presidente, per la terza volta formalmente, dopo il farsesco balletto col piccolo Medvedev. Forse non sarà rieletto al primo turno, e le strade si riempiono di gente che gli grida di andarsene. Lìaltro è quello che prende gli schiaffi, Michail Kodorkovskij. L’hanno trasferito da una prigione al confine con la Cina a una al confine con la Finlandia, l’hanno condannato a 13 anni – ne ha scontati già nove – prima per aver truffato il fisco, poi per aver rubato 213 milioni di tonnellate di petrolio (rileggete, prego) e per riciclaggio. Quando Putin lo fece arrestare (arbitrariamente, ha sentenziato Strasburgo) aveva quarant’anni ed era l’uomo più ricco della Russia. Ora ne ha 48. Ci si può appassionare alla sua storia per due ragioni. La prima è che è un uomo perseguitato, che reagisce con coraggio e ha tramutato l’orrore della prigionia in un’occasione per cambiare se stesso. E intanto per capire che “fare soldi a palate” non è il senso della vita: deduzione trita, se non venisse da uno che li aveva fatti a palate. La seconda ragione è che dal carcere prende parte alla lotta sul futuro della Russia nel mondo con lucidità e autorevolezza.
C’è un prezioso documentario su di lui, del tedesco Cyril Tuschi, presentato l’anno scorso a Berlino. Da noi esce un libro che raccoglie suoi articoli, interviste e corrispondenze con scrittrici e scrittori russi. Si intitola La mia lotta per la libertà (Marsilio). «Le parole da dietro le sbarre hanno un’importanza particolare», scrive il curatore. È vero, ma bisogna stare attenti a non farne un torto a chi le pronuncia. A leggerle anche “come se” non venissero da dietro alle sbarre.
Lui riassume così, nel 2005: «A me personalmente la Russia ha dato molto. Negli anni ì’70-’80 mi ha dato un’istruzione di cui andar fieri. Negli anni ’90 ha fatto di me l’uomo postsovietico più ricco. In questo decennio mi ha portato via la proprietà e mi ha messo in carcere, offrendomi la possibilità di specializzarmi ulteriormente, questa volta in argomenti umanistici e universali».
Kodorkovskij era il “padrone” della Yukos, la seconda compagnia petrolifera dopo Gazprom, comprata a prezzo di saldo grazie alla fedeltà a Eltsin, e portata a un formidabile successo. Era uno dei “sette oligarchi”. A differenza degli altri, finanziò pubblicamente partiti di opposizione, e disse in faccia a Putin che bisognava piantarla con la corruzione. La sua disgrazia, e dei suoi collaboratori, cominciò da lì. Si disse che volesse vendere la Yukos alla Exxon. Si sostenne (lo si fa ancora, anche da noi) che, per complicità di ebreo – è di padre ebreo – l’avesse già venduta ai Rothschild. Si insinuò che avesse commissionato omicidi per interesse – occasione, chissà, di un terzo processo futuro. Kodorkovskij era a Boston con suo figlio quando fu chiaro che cosa lo aspettava, e scelse di rientrare in Russia, per non abbandonare il suo vice, Platon Lebedev, accomunato a lui nelle accuse, e per non perdere il rispetto di sé. Ha sempre escluso di chiedere la grazia. «Il potere, chissà perché, considera il “pentimento” una condizione obbligatoria di grazia. Non pecco di eccessivo orgoglio, ma confessare delitti mai commessi per me è inammissibile».
Il parassitismo della classe dirigente, avverte, condanna la Russia a retrocedere nell’economia delle materie prime. La crisi demografica farà sì che la Siberia e l’Estremo Oriente siano popolate da immigrati cinesi, che prenderanno il sopravvento nei commerci e nello sfruttamento delle risorse. Compila – con la precisione contabile di un manager internazionale, e anche con la megalomania di un giacobino incarcerato («secondo i miei calcoli, la cui qualità è limitata dalle condizioni di una cella comune nella colonia penale di Krasnokamensk») – programmi scrupolosi di governo, fondati sul passaggio a una repubblica parlamentare-presidenziale, da un’economia del tubo del petrolio al sapere, e soprattutto a uno Stato di diritto.
Nei suoi pensieri si troveranno indizi utili sul tema losco e complicato del “nazionalismo” russo, tornato così attuale nella nuova opposizione. «La storia russa ci insegna che la perdita di una deferenza totale e rigorosa verso il nostro Stato conduce inesorabilmente il paese al caos, alla ribellione, alla rivoluzione». E poiché lo Stato è confiscato da una «burocrazia famelica, sarà una folla inferocita che si riverserà in strada gridando: “Avete promesso panem et circenses. Ebbene, dove sono?!”. Allora la democrazia diventerà ingovernabile…» (2004). Nel 2005 pubblica il primo di tre articoli più strettamente politici, “Svolta a sinistra”: «Le esplosioni sociali non avvengono dove si verifica un collasso economico, ma dove è giunto il momento di distribuire i frutti della crescita economica, non là dove più o meno tutti sono uguali nella miseria, ma dove l’uno per cento dei ricchi e il nove per cento dei relativamente benestanti si sono nettamente staccati dal novanta per cento dei poveri e, ancora più importante, dei sottomessi». La sinistra secondo lui è l’istruzione gratuita, la pensione adeguata, l’elezione diretta dei governatori, il limite di un mandato per i deputati. E anche “espressione che striderà alle nostre orecchie – «paternalismo statale e democrazia». Scorge la “svolta a sinistra” nelle rivoluzioni delle rose in Georgia, dei tulipani gialli in Kirghizistan, arancione in Ucraina. Nel 2008, la crisi finanziaria e la vittoria di Obama (che sta agli Usa, osserva spiritosamente, un po’ come Gorbaciov stette all’Urss) gli sembrano inverare la previsione della “svolta a sinistra” per “il mondo intero”. «Nell’economia globale anche i meccanismi di regolazione devono essere globali, e non lo sono (…). Nell’economia neoliberale le decisioni sono state prese da strutture sempre più supernazionali (le compagnie, ma anche il FMI e la Banca mondiale), mentre la responsabilità delle conseguenze sociali è toccata ai governi nazionali e ai contribuenti». L’economia reale dovrà riprendere i suoi diritti nella gara col virtuale. Fra poco, è la conclusione, «Keynes sarà più richiesto di Friedman e Hayek». Vincerà un “neosocialismo” liberale, sul modello scandinavo. (Oggi però, prima la Svezia e adesso la Finlandia, hanno perso i loro governi socialdemocratici).
La questione della democrazia in Russia riguarda prima di tutto una magistratura indipendente. «La riforma giudiziaria – scrive nel 2009 – nella Russia di oggi deve precedere quella politica». E si spinge a dire – curioso da orecchiare dalla nostra provincia – che una casta di professionisti della giustizia non plagiabili, «un corporativismo, non importa se la parola non piace, è la condizione per l’istituzione di un tribunale autonomo, per la prima volta nella storia russa». I “dialoghi” con gli scrittori fanno emergere un’umanità fiera e antieroica. Scrive a B. Akunin: «Mi mettono in cella d’isolamento. Me ne infischio. Ho smesso di avere paura… È cominciata l’epoca della responsabilità personale di un uomo dinanzi alle sue azioni. Ciascuno può scegliere se partecipare o meno alle vigliaccate». Si pente di non essere andato all’estero? «Sì, mi pento ogni giorno. No, perché andandomene non avrei potuto vivere».