Come Chagall e Tarkovskij. I nuovi transfughi parigini dell’arte russa

Quattro artisti, seguendo le orme degli esuli fuggiti dal comunismo nel Novecento, combattono la propria guerra a Parigi. Le storie di Katja Demina, Naum Bleek, Marija Čuprinskaja ed Elena Gordienko.

(di Svetlana Lazareva, traduzione di Luisa Doplicher;
immagine di Wikimedia Commons / Mu; CC BY-SA 3.0)


12 dicembre 2023 
ore 13:36


Riportiamo qui la traduzione di un articolo apparso su The New European.


Marc Chagall [nato a Lëzna, nell’attuale Belarus – NdR], Ivan BuninAndrej Tarkovskij e moltissimi altri lasciarono la Russia nel Novecento, in una delle varie ondate di emigrazione di chi cercava di sfuggire alle persecuzioni delle autorità sovietiche. Oggi una nuova generazione di artisti segue il loro esempio e si rifugia a Parigi, lontano dal regime russo.


Dopo essersi rifiutati di sostenere l’invasione russa dell’Ucraina hanno dovuto abbandonare la patria, e ora devono affrontare l’impresa di adattarsi al nuovo ambiente. Per loro la Russia non coincide con Vladimir Putin: è questa l’idea che sottolineano ed esprimono con le loro opere e iniziative.


Katja Demina


Come ogni mercoledì da un anno e mezzo a questa parte, una strada vicina al centro Pompidou è piena di bandiere ucraine. La manifestazione, organizzata dalla comunità ucraina, si tiene ogni settimana per ricordare vividamente che nella loro patria la guerra è sempre in corso. Katja Demina, artista moscovita, sola nel mare di tinte celesti e gialle, si è avvolta in una bandiera con due strisce bianche e una azzurra. È la bandiera della nuova Russia, senza la striscia rossa e quindi non più assetata di sangue; la Russia che sognano gli oppositori al regime.


In patria Katja si era specializzata nella creazione di bambole con l’ovatta. Di recente ha prodotto una serie particolarissima di decorazioni natalizie: figurine di ovatta che rappresentano scrittori famosi. La bambola che ha portato alla manifestazione è una copia minuscola di Vladimir Putin con un piccolo cappio attorno al collo. Le sfugge di mano mentre la estrae dalla borsa, e Katja esclama ridendo: «Guarda! Il regime di Putin è caduto!».


«Prima della guerra mi era già chiaro che il nostro governo era corrotto e autoritario e che la situazione peggiorava sempre più, ma poi abbiamo attaccato l’Ucraina… All’improvviso ho capito che vivevo in un regime fascista. Non sopportavo di trovarmi in un paese che aveva scatenato una guerra contro uno stato sovrano del tutto pacifico. La mia protesta personale è stata di andar via per non fare ritorno finché il regime non cambia, o finché la situazione non richieda il mio contributo. Se c’è da tirare mattoni, sono pronta!».


La cosa più importante per Katja era portare via suo figlio sedicenne, ormai vicino alla chiamata di leva. Nel fare i bagagli non immaginavano quanto a lungo sarebbero rimasti in esilio.


«Sulle prime credevo che qualcuno nella cerchia di Putin lo avrebbe fatto fuori. Una tabacchiera in testa, ecco che cosa sognavo!». Si riferisce all’assassinio dello zar Paolo I, ucciso da un colpo di tabacchiera alla tempia.


Vedendo che il regime rimaneva saldamente al potere, e che dalla Russia giungevano sempre più notizie di arresti con motivazioni politiche, Katja ha ceduto alla disperazione. Insieme agli ucraini grida: «Russia terrorista!», poi ammette che non riesce a immaginare di non fare più ritorno. «Mi aggrappo a quella speranza. Spesso sogno a occhi aperti che la guerra sia finita, che io possa tornare e riabbracciare e baciare i miei amici; insieme piangeremo, berremo e canteremo. È questo sogno che mi fa resistere».


«Apprezzo la Francia, a chi non piacerebbe questo paese? Ma non sono affatto capace di interrompere ogni legame con quel pezzo di Eurasia che amo, con le persone care. Cerco di non pensare ai russi che vengono chiamati “stronzi adoratori di Putin”. Non conosco quella gente. Conosco la mia Russia, che lascia bigliettini contro la guerra nei bagni pubblici, l’unico posto in cui non ci si fa beccare. Un uomo sessantenne di mia conoscenza, dopo aver scritto “Gloria all’Ucraina” su una fermata dell’autobus, è stato multato e gli hanno schiacciato la faccia a terra. Ha avuto fortuna: lo hanno incriminato per estremismo, ma poi è stato prosciolto. Tutto questo succedeva un anno fa; adesso non se la caverebbe così a buon mercato. Queste persone sono la mia Russia, la Russia che mi manca».


Katja si mette in coda al corteo e ammette che spesso non si sente benvenuta alle manifestazioni ucraine. «Mi dicono: “Che vieni a fare qui, con la tua bandiera?” Ma torno sempre, perché c’è anche chi mi ringrazia per la mia presenza».


«Se alcuni non credono che esistano russi contrari alla guerra, è il mio modo di far sapere: “Guardate, eccomi, esisto”. So che molte persone meravigliose realizzano iniziative molto più coraggiose, per cui a me non basterebbero le forze o le capacità intellettuali. Ma questo posso farlo, e lo faccio».


Naum Bleek


In un modesto studio nel centro di Parigi Naum Bleek, veterano quarantatreenne dell’hip-hop russo, conclude la sessione di prove. Lo spazio è messo a disposizione dall’Atelier des artistes en exil, un’associazione che lo ha aiutato a trasferirsi a Parigi nell’estate del 2022. Mentre pianifica la giornata, l’idea di comprare un po’ di grano saraceno per cena lo riporta per un breve attimo di conforto all’ambiente familiare che si è lasciato alle spalle.


«Non avrei mai voluto abbandonare la Russia, nonostante tutte le difficoltà» ricorda Naum. «Trovavo sempre modi di resistere: protestavo, andavo a votare, facevo attivismo. Ma dopo il 24 febbraio [2022] ero troppo disgustato all’idea di rimanere in quello stato fascista. Soprattutto non potevo svolgere il mio ruolo di poeta. Il mio compito è documentare l’attualità in poesia; per riuscirci sono dovuto partire».


Di conseguenza ha dovuto rinunciare al suo appartamento, ai suoi progetti, e soprattutto alla sua lingua, lo strumento più essenziale per un poeta. Ogni tanto si esibisce per la comunità russa a Parigi, ma non è la stessa cosa rispetto agli spettacoli affollatissimi che teneva in patria.


«Mi mancano la mia lingua e il mio pubblico, eppure sono andato via proprio per questo motivo: potermi rivolgere al pubblico che parla russo. Anche se a volte mi sembra tutto inutile. I russi vogliono solo che li si lasci in pace. Quando l’invasione è iniziata molti facevano spallucce e ripetevano: “Che cosa possiamo farci?”. Ma, come si dice in Russia, “una goccia alla volta, l’acqua consuma la pietra”. È essenziale continuare a consumare la pietra della guerra con ogni nostra parola di verità».


Ma di questi tempi per Naum non è facile scrivere. Tra la preoccupazione costante, l’ambiente linguistico nuovo e i problemi del trasferimento in un altro paese concentrarsi non è affatto semplice. Per sbarcare il lunario Naum lavora in un Burger King. Era abituato a guadagnarsi da vivere con la musica e lo sfruttamento commerciale del suo marchio. Cuocere hamburger non lo entusiasma più di tanto, ma la prende con filosofia.


«È una storia piuttosto buffa» ridacchia, seduto davanti a una batteria con altoparlanti. «In Russia avevo litigato con i dipendenti di Burger King e avevo giurato di non mettere più piede in uno dei loro locali. Ma a Parigi, dato che non parlavo francese abbastanza bene per un impiego qualificato, ho dovuto cercare lavoro nei fast food; solo uno dei trenta e passa dove ho lasciato il curriculum mi ha ricontattato, ed era l’unico Burger King dell’elenco».


A volte Naum si sente nostalgico, ma rifiuta di lasciarsi andare al sentimentalismo. «Secondo una leggenda metropolitana Vladimir Vojnovič, poeta russo dissidente espulso dall’URSS, ricevette dagli amici una scatola con la scritta “Antinostalgina”. Gli dissero di aprirla quando la patria gli mancava particolarmente. All’interno trovò alcuni dischi con discorsi di Leonid Brežnev. Per me l’Antinostalgina è Twitter, una specie di portale negli orrori che succedono in Russia».


Mentre esce dallo studio per andare a comprare il grano saraceno, Naum si ferma ad accarezzare un gatto randagio.


«La mia natura ottimista vuole credere che un giorno la guerra e il putinismo non esisteranno più. Intraprenderemo un cammino di riflessione su noi stessi, per capire appieno gli orrori compiuti dal nostro paese, chiedere perdono al mondo e indennizzare l’Ucraina. Il mio obiettivo principale è essere testimone di questa epoca e rappresentarla nei miei versi».


Marija Čuprinskaja


Il complesso storico della Résidence des Récollets, ex convento francescano seicentesco poi convertito in ospedale militare, ospita un centro di accoglienza per studiosi e artisti stranieri. Marija Čuprinskaja, attrice e produttrice cinematografica, vi risiede con la famiglia. Seduta sotto un albero di fico nel cortile silenzioso, Marija fuma una sigaretta dietro l’altra e ricorda come è arrivata fin qui.


«All’epoca ero come anestetizzata, non riuscivo a decidere niente. Ricordo che, quando mio marito mi ha detto che ci saremmo trasferiti in Francia, gli ho risposto: “Benissimo, Vlad, prendi i bambini e vai”. Quanto a me, volevo restare. Mi sentivo come un musicista nell’orchestra del Titanic, deciso ad affondare con la nave. Volevo almeno tirare una bottiglia molotov nelle vicinanze della torre Spasskaja. Alla fine mio marito mi ha fatto ragionare: avrei dovuto rimanere accanto ai bambini».


Marija ha iniziato a fare attivismo nel 2018 e presto ha attirato l’attenzione degli organi di polizia. All’epoca faceva campagne per la liberazione di Oleh Sencov, regista ucraino condannato a vent’anni di carcere dalle attività russe per crimini inventati di sana pianta. Quando Sencov ha iniziato uno sciopero della fame, Marija ha stampato volantini sul suo caso e ha iniziato a distribuirli per strada. «In occasione della Coppa del mondo di calcio abbiamo tradotto i volantini in spagnolo, inglese e francese, e li abbiamo distribuiti ai tifosi. Ci siamo messi a girare un filmato con una quarantina di tifosi brasiliani che scandivano: “Oleh Sencov deve vivere!”, ma la polizia ci ha caricati brutalmente. È stato il mio primo arresto».


In seguito, i servizi di sicurezza l’hanno tenuta d’occhio. «Una volta la polizia è venuta a casa nostra mentre non c’ero e ha parlato a mia figlia attraverso la porta chiusa. Le hanno spiegato che cosa mi avrebbero fatto se mi fossi comportata male, e lei si è spaventata a morte. Scoppiava a piangere ogni volta che mettevo piede fuori di casa. Le dicevo: “Vado solo a comprare il pane”, ma lei non mi credeva: “No, mamma, stai di nuovo andando a qualche manifestazione”».


Il 24 febbraio 2022 ha preparato un cartello con la scritta “No alla guerra, giù le mani dall’Ucraina” e si è diretta in centro. Dato che molti attivisti che lei conosceva erano stati arrestati mentre manifestavano stando fermi da soli, ha deciso che la cosa migliore sarebbe stata camminare mostrando il cartello.


«Controllavo la situazione con la coda dell’occhio. Se vedevo qualcosa di preoccupante ripiegavo subito il cartello e lo tiravo fuori di nuovo qualche passo più in là. Mi sembrava di stare in un film distopico: tutto il centro era pieno di uomini in nero. C’erano furgoni della polizia ovunque. Chiunque facesse un atto di protesta, allacciando un nastro verde, mostrando un’icona o facendo un gesto qualunque di quelli che venivano inventati all’epoca, era arrestato all’istante».


Abbandonare la Russia le ha dato un certo sollievo psicologico, anche se è una sensazione effimera.


«È un incubo senza fine. Ancora non riesco ad accettare la realtà. Quello che succede mi sta uccidendo. Ma ho figli e la responsabilità di occuparmi di loro. Loro sono il mio legame con il mondo reale».


Marija è scossa da un vero e proprio brivido quando confessa che oggi il pensiero di tornare in Russia la fa sentire male.


«Cerco di immaginarmi laggiù, nella Mosca del 2023, ma non ci riesco. Vorrei tornare quando non ci sarà più la dittatura, quando non ci saranno i fascisti né l’impero, che probabilmente tuttavia non spariranno nel corso della mia vita. E pure se dovesse succedere prima, chi avrebbe bisogno di una me settantenne per ricostruire il paese? Nessuno. Ho fatto ciò che potevo, starà poi ai giovani rimboccarsi le maniche».


Elena Gordienko


Dopo una lunga giornata di lezioni sul teatro russo all’università Sorbonne Nouvelle, la ricercatrice Elena Gordienko è felice di rilassarsi su una panchina tranquilla nel Jardin du Luxembourg. Il trasferimento a Parigi è stato per lei un ritorno a una città che conosce bene da quando era studentessa qui, anni fa. Dopo gli studi molti altri russi avevano preferito rimanere in Francia, ma Elena non vedeva l’ora di tornare a Mosca.


«Nel decennio scorso c’è stato un boom nel teatro contemporaneo russo» ricorda Elena con nostalgia. «Il teatro era un ambiente protetto in cui si poteva parlare liberamente. Con la guerra è finito tutto; sapevo che sarei dovuta andare via».


A Mosca si sentiva utile in società grazie alle discussioni con gli studenti, aperte e oneste, ma a Parigi era persa. «Mi sembrava di non avere più uno scopo e che fossi come vuota dentro. Che cosa avrei potuto fare in Francia? Ho trovato una soluzione semplice: occuparmi di ciò che è impossibile per chi era rimasto in Russia».


Di recente, la drammaturga Svetlana Petrijčuk e la regista teatrale Evgenija Berkovič sono state arrestate e accusate di estremismo per via della pièce Finist falco lucente. Insieme a colleghi dell’università Elena ha organizzato una proiezione dello spettacolo a Parigi. «Potrebbe sembrare un’iniziativa futile» spiega, «ma per le autrici era importantissimo sapere che il pubblico avrebbe visto la pièce e l’avrebbe apprezzata. Sarebbe stato un sostegno e un gesto di solidarietà per Petrijčuk e Berkovič. Cose come queste mi permettono di andare avanti».


Secondo Elena forme artistiche di protesta contro l’aggressione russa sono una parte necessaria di qualsiasi movimento contro la guerra. «Va benissimo manifestare e scandire slogan, ma inevitabilmente la cosa diventa monotona» spiega. «Per gli artisti è vitale trovare un’ottica che metta a fuoco i dettagli complicati degli orrori in corso in maniera più precisa e articolata». Per questo le è parso importante organizzare a Parigi il festival Écho de Lubimovka.


Questo festival teatrale di nuove pièce è nato in Russia, dove però ormai non si tiene più a causa della censura, che ha raggiunto livelli insostenibili. Gli organizzatori hanno comunque reso pubblico l’elenco di pièce scelte; è così nata Echo of Lubimovka, iniziativa diffusa e indipendente in cui tra l’altro sono state lette pièce in varie città europee e asiatiche. A Parigi nell’ambito di Écho de Lubimovka ci sono state otto rappresentazioni, tutte contro la guerra, ciascuna seguita da un dibattito molto intenso.


Per i francesi che hanno in famiglia una persona cara emigrata dalla Russia è stata l’occasione di capire un po’ meglio come questa persona soffra in silenzio. Una delle pièce scelte, Vanya is Alive, è stata poi presentata al Festival di Edimburgo dove si è fatta notare a livello internazionale.


«Ormai ho imparato che bisogna fare progetti al massimo per il mese successivo» dice Elena. «Fatico davvero a immaginare di tornare a casa. Certo, mi piacerebbe molto, non appena diventerà nuovamente possibile realizzare qualcosa di buono senza far correre rischi a nessuno. Ma a volte mi dico: “Magari non ci ritroverei più quello che mi mancava tanto”».

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