Voci dalla guerra: Zoja Javors’ka, abitante di Borodjanka: “Dovranno rispondere di fronte a Dio di tutto il male che hanno fatto!”.
Oleksij Sydorenko per il progetto “Voci dalla guerra” ha raccolto la testimonianza di Zoja Javors’ka, una signora di 71 anni che è rimasta a Borodjanka col marito durante l’occupazione russa. Le figlie hanno lasciato la cittadina, ma Zoja ha deciso di restare con suo marito: “Io e te siamo una cosa sola. Possiamo soltanto rimanere insieme!”. Il video dell’intervista coi sottotitoli italiani si può guardare nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.
Il progetto di traduzione in più lingue delle interviste alle vittime dell’invasione russa è portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
Oleksij Sydorenko
11.01.2023
— Mi chiamo Zoja Ivanivna Javors’ka, ho 71 anni. A Borodjanka abitavano i miei genitori, mentre io e mio marito ci eravamo trasferiti a Kyiv per lavoro. Poi siamo tornati qui. A casa, dove siamo nati. Da vent’anni, ormai.
— Si aspettava una guerra su vasta scala?
— Non mi aspettavo proprio la guerra! Neanche me l’immaginavo. Mio marito, invece, l’aveva prevista. Diceva che era già in corso, anzi. Ha lavorato tutta la vita al Ministero degli interni. Affrontava situazioni di vario tipo; sapeva molte cose e non le raccontava tutte. Da tempo ci eravamo accorti del degrado ai vertici della Russia. E ci rendevamo conto che in qualunque momento poteva succedere il peggio. Ma non immaginavamo che sarebbero arrivati a Borodjanka… Pensavamo che sarebbe durata un paio di giorni, magari quattro, o una settimana. Ma che ci avrebbero invaso in questa maniera, no. Erano pensieri che scacciavamo. La sensazione era che sarebbero arrivati da est o da sud, ma non da nord. Nemmeno nei peggiori incubi immaginavamo di dover vivere cose simili. Il 24 [febbraio] alle 6 di mattina mi ha chiamato la mia nipote più grande; loro stavano a Hostomel’, avevano appena comprato un appartamento e ci si erano trasferiti.
Mi chiama e fa: “Nonna, da noi c’è la guerra!”. “Quale guerra? Qua non si sente nulla”. “La guerra guerra! Fate le valigie, sbrigatevi”.
Sbrigarsi per andare dove? Non aveva senso. Ho chiamato la mia seconda figlia, che stava a Kyiv. Sono scappati subito, il 24 febbraio, e sono venuti a Borodjanka, lei e la famiglia. Pensavano di trovare una situazione più tranquilla. Purtroppo si è portata i figli, i miei nipoti. La nipote grande col marito è andata subito a Vinnycja dai suoceri. Noialtri siamo rimasti qui. Mia figlia, invece, la maggiore, è andata a casa sua, ha una dacia poco lontano. E noi qui. Quando sono iniziati i “botti” all’aeroporto di Hostomel’, li sentivamo benissimo. Buča, Hostomel’… Abbiamo sentito tutto. E vedevamo i bagliori. Esplosioni, un sacco di esplosioni… Bombardavano quasi di continuo. Esplosioni e bagliori insieme facevano davvero spavento. Correvamo in cantina insieme ai bambini. Avevamo con noi due nipoti di 10 e 13 anni.
Mio marito è entrato e ha esclamato: “Nascondiamoci, subito!” Siamo scappati fuori. La casa ha due ingressi: io e mio marito siamo usciti da uno, i bambini dall’altro. La piccola è arrivata per prima in cantina; mia figlia ha fatto appena in tempo a raggiungere i gradini d’ingresso. È stato come se qualcuno la prendesse, la sollevasse e la rimettesse giù. L’onda d’urto ha fatto scoppiare verso l’esterno tutte le finestre della veranda. Dentro casa non c’era neanche un pezzo di vetro.
Penso che fosse una bomba termobarica. Perché da quella parte il tetto si è sollevato e poi è ricaduto giù: le lastre del tetto, dico, hanno fatto su e giù.
Sembrava che ci fossero passati sopra degli istrici: era pieno di aghi. A quel punto abbiamo deciso che i ragazzi non potevano restare qui. Dopo il bombardamento mi ha chiamato mia figlia maggiore: “Abbiamo una possibilità di andare via”. Da noi i russi erano già ovunque, in centro giravano parecchi carri armati. Era il primo marzo.
— Dove sono andate le sue figlie?
— All’inizio a Vinnycja. Per arrivarci hanno attraversato il fiume Teteryv sull’autostrada Lublino-Kyiv, hanno raggiunto Radomyšl’ e infine Vinnycja. La più grande con la figlia maggiore sono rimaste lì con i rispettivi mariti. La minore con i bambini e i suoceri che erano riusciti a scappare da Kyiv sono andati in Spagna e in Portogallo.
— Lei ha pensato di andarsene?
— No! Ce l’avevano proposto, ma non ce ne siamo andati. Abbiamo ceduto la benzina alle figlie perché avessero il serbatoio pieno, e anche tutti i contanti. Il 24, quando è arrivata mia figlia minore con la famiglia, siamo andati alla banca Oščadbank per ritirarli, perché i bancomat erano già tutti vuoti. Abbiamo preparato una borsa con un po’ di cibo. Non potremmo mai abbandonare tutto… Con mio marito avevamo già deciso che saremmo rimasti.
Non ce ne andiamo da nessuna parte. Abbiamo passato i settanta. Certo che vogliamo vivere, però non vogliamo abbandonare la nostra casa, i due gatti, il cane, le galline e tutto quanto… Il nostro cuore è qui. Come possiamo tagliare i ponti e andarcene?
Il due marzo, alle sette di mattina, le mie figlie sono andate via con le loro famiglie; ne siamo stati felicissimi. Un’ora dopo sono ricominciati i bombardamenti. Dalla cantina dove stavamo io e mio marito, eravamo contenti che le nostre figlie e le loro famiglie fossero partite. Già… L’idea di andare via non ci ha neanche sfiorato. Mio marito mi aveva proposto di partire con le figlie: “Come sarebbe?” gli ho detto. “E tu rimani qui? Io e te siamo una cosa sola. Possiamo soltanto rimanere insieme!”.
— E poi che è successo?
— La luce era già andata via. Non c’era più corrente, gas, acqua. Ma le mie figlie ci avevano preparato una scorta di 50 litri d’acqua. Pregavamo che arrivassero da qualche parte e ci dessero notizie. Però senza corrente i telefoni si scaricavano. Li accendevamo solo ogni tanto, per far sapere che eravamo vivi. Poi è sparito il segnale. Ma io le avevo avvertite: “Se va via il segnale, non preoccupatevi. Andrà tutto bene. La nostra vita l’abbiamo fatta, e abbiamo avuto tanto. La cosa più bella, meravigliosa, siete voi e i nipoti. L’unica cosa importante è sostenersi a vicenda”.
— Qual era la situazione a Borodjanka?
— Non uscivamo, ma abbiamo sentito delle cose. Ne abbiamo sentite parecchie. A una mia compagna di classe hanno ucciso il nipote, il figlio della sorella. Hanno sparato alla macchina in cui viaggiava insieme ad altri. Così sua sorella l’ha dovuto seppellire: era giovane, giovanissimo… Un vicino è stato portato alle camere di tortura. E poi rubavano, facevano man bassa di tutto. Pure questo, sì… Non ci si poteva allontanare da casa. Quando con mio marito uscivamo per controllare la dacia di mia figlia, passavano elicotteri. Volavano bassissimi, veniva da credere che si impigliassero nei fili della luce. E c’erano gli automezzi coi soldati russi. E sparavano, e arrivavano anche i missili, i “Grad”.
— Quanto è durata l’occupazione a Borodjanka?
— Un mese. E non dal primo marzo: Borodjanka è stata occupata prima. Nel nostro quartiere sono arrivati dopo perché siamo un po’ fuori mano, e loro avevano paura di allontanarsi dalla Central’na. Di notte non si spostavano, solo con la luce. Noi avevamo una radio a pile ed eravamo contenti di ricevere almeno qualche notizia. Una volta ci siamo spaventati parecchio: avevano fatto saltare il cancelletto, che è facile da aprire, e sono entrati. Si è fermato un blindato, o quel che era. Dentro erano in parecchi. Sono entrati nel cortile e si sono messi a interrogarci. Si è presentato un ufficiale; non ricordo il grado né il cognome, solo che di nome faceva Aleksandr. “Non abbiate paura” ha detto. Era russo; erano tre russi e cinque buriati. Ha ordinato subito di abbassare i mitra, e tutti gli hanno obbedito.
È andato dietro il garage, poi da una parte, dall’altra, poi si è seduto. Ha iniziato a fare domande, a dire tipo “non dovete spaventarvi, non vi faremo niente”. Io ho abbassato lo sguardo e ho pensato: “Sì, come no. Se solo potessi, vi caccerei. Ma purtroppo non posso”. Hanno iniziato a informarsi sui vicini, se qualcuno faceva parte della Difesa Territoriale, se c’erano dei militari. E io pensavo: “Mio marito è praticamente un militare, ma tu credi che te lo dico? Figurarsi”. Gli rispondevo, ma a occhi bassi… Avevo in gola un groppo d’odio, sa? Di odio inumano. Avrei tanto voluto cacciarli, ma come facevo? E avevo anche paura per mio marito.
— E le sue proprietà?
— Be’ guardi lì, c’è una crepa nel garage. E anche la veranda è un po’ crepata. Le finestre di sopra erano tutte spaccate. Il tetto aveva subìto dei danni. Ma è venuto il nipote di mio marito e ha riparato tutto. A lui sono cadute due granate proprio in cortile; abita due strade dopo la nostra. Era in cortile con un vicino che gli ha detto: “Ognuno a casa sua!”.
Lui ha fatto appena in tempo a entrare, e sono cadute le granate; proprio dove erano un attimo prima, dice. Hanno fatto un buco enorme. Nell’orto ne sono cadute due che non sono esplose. Sono rimaste conficcate per terra. Anche lui è militare: meccanico e pilota all’aeroporto di Hostomel’.
— È cambiata la sua opinione dei russi?
— Tutti gli esseri umani hanno diritto alla vita e alla propria opinione. Il punto tremendo è che i russi hanno perso la capacità di ragionare. È questo che mi fa paura. Non sanno analizzare la situazione e ragionare almeno un po’. Perché alcuni russi e ucraini sono amici o parenti… Una mia cugina acquisita vive a Mosca, mio genero ha una prozia a Tver’. Non ci credono, a quello che succede qui da noi. O meglio, non vogliono crederci. Eppure siamo parenti, c’è un legame di sangue! Alcuni hanno in Russia amici, padrini e madrine dei loro figli. Io ho paura per loro. Proprio paura, capisce?
Perché dovranno rispondere di fronte a Dio di tutto il male che hanno fatto. E quelli che se ne rendono conto non avranno una vita normale.
Preghiamo per i nostri ragazzi e ragazze, laggiù al fronte. Siamo vivi grazie a loro e auguriamo loro di restare in salute. Stiamo davvero in pena per loro. Se fosse possibile, li farei a pezzi io stessa, i nemici… Vorrei vederli in tribunale. Alcuni dicono: che crepi (Putin). Certo! Ma sarebbe bello se sentisse tutto il nostro odio. E non solo lui. Perché non è da solo. Ce ne sono tanti della stessa risma… Non capisco che cos’è, forse invidia? E pure grossa. Penseranno: “Perché questo e quest’altro voi ce l’avete e noi no? Perché? Facciamo che me lo prendo!” Un’invidia così ti si mangia l’anima. La pena, il dolore per i nostri ragazzi che sono morti è enorme. Per quelli che combattono e per quelli che sono rimasti qui. Per i bambini, soprattutto.