(Immagine: Baku – Sefer azeri, CC BY-SA 4.0,
via Wikimedia Commons)
(di Carol Christie, pseudonimo)
19 marzo 2025
alle 09:47
Tra i fragori delle guerre passa sotto silenzio la tragica quotidianità di chi vive in un regime d’oppressione, nella paura di essere arrestato o in carcere, se ha osato levare la sua voce in difesa dei diritti umani e della democrazia. Questo è il caso dell’Azerbaigian, il cui regime ha stretti rapporti con l’Italia. Lo schema è, d’altro canto, già noto: gli idrocarburi anestetizzano efficacemente i governi e le società dei paesi acquirenti, ma il dolore che prova chi è in carcere o subisce torture per aver resistito all’oppressione è reale e non ne viene placato. L’autoritarismo fa affidamento sulla nostra distrazione.
Presentiamo qui un articolo di Carol Christie, che scrive sotto pseudonimo per salvaguardare la propria incolumità.

(President.az, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons)
Con il potere sempre più saldamente nelle mani del presidente Ilham Aliyev, la situazione dei diritti umani in Azerbaigian è peggiorata in modo drammatico. Le repressioni politiche, la censura sui media e le restrizioni imposte alla società civile si sono intensificate, facendo scendere il Paese agli ultimi posti in Europa quanto a libertà di stampa e a numero di prigionieri politici. Inoltre, secondo il rapporto annuale “Freedom of the Press in Europe del 5 marzo 2024, l’Azerbaigian è tra i primi Paesi del Consiglio d’Europa per numero di giornalisti e operatori dei media incarcerati. Il rapporto ha rilevato che, al 31 dicembre 2024, l’Azerbaigian aveva 30 giornalisti dietro le sbarre, superato solo dalla Bielorussia (44). Il documento critica anche la Legge sui media dell’Azerbaigian e ne chiede la revisione, ritenendola troppo restrittiva e lesiva della libertà di stampa.
Analogamente, nel suo rapporto per il 2024, il Committee to Protect Journalists di New York (CPJ) ha classificato l’Azerbaigian tra i primi dieci Paesi al mondo per numero di rappresentanti dei media imprigionati. Il Comitato ha anche condannato esplicitamente i recenti arresti di Nurlan Gahramanli e Fatima Mövlamli – entrambi reporter freelance per l’emittente azerbaigiana Meydan TV, con base in Germania.
Come afferma anche Reporter Senza Frontiere,
il Presidente Ilham Aliyev ha distrutto ogni parvenza di pluralismo e sta conducendo una guerra spietata contro ogni forma di critica rimasta”;
nella loro classifica, il Press Freedom index, l’Azerbaigian si è classificato al 164° posto su 180.
In un post sui social media in occasione della Giornata Internazionale della Donna, l’8 marzo scorso il Norwegian Helsinki Committee ha scritto che “l’ingiusta carcerazione delle giornaliste in Azerbaigian è sbagliata, vergognosa e vile”. Tutti i media per cui scrivevano le giornaliste arrestate – “AbzasMedia”, “ToplumTV” e “MeydanTV” – spiegano dal comitato, sono oggetto di repressioni governative dal 2023. Alcune delle giornaliste incarcerate hanno gravi problemi di salute e urgente bisogno di assistenza medica. Il Norwegian Helsinki Committee vorrebbe che l’8 marzo diventasse per l’Azerbaigian un’opportunità per far corrispondere le parole ai fatti. Attualmente in detenzione preventiva, le giornaliste rischiano la vita sia per le pericolose condizioni in cui versano, sia per la difficoltà di avere accesso a cure mediche adeguate, si legge nella dichiarazione. In un Paese che afferma con orgoglio di valorizzare la popolazione femminile, otto donne incarcerate perché hanno espresso critiche nei confronti dell’attuale governo sono la prova di un’effettiva contraddizione tra le parole e i fatti. “Una tale, plateale ipocrisia mina la sincerità della narrazione ufficiale e svela il divario tra gesti puramente simbolici e il reale impegno del governo nei confronti dei diritti delle donne e dei valori della famiglia” – come si legge nella dichiarazione del Comitato.
Oltre a perseguitare i giornalisti, di recente il governo dell’Azerbaigian si sta muovendo per espellere dal paese le organizzazioni internazionali. I rapporti indicano che Baku ha proposto la chiusura di quattro uffici di agenzie ONU: il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l’UNICEF. Anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha subito pressioni per lasciare l’Azerbaigian. La chiusura dell’ufficio della Croce Rossa desta particolare allarme, in quanto è l’unica organizzazione internazionale cui è concesso di incontrare i prigionieri politici, compresi i detenuti armeni rinchiusi nelle carceri azere dalla fine della guerra del 2020.
L’Azerbaigian ha anche sospeso tutti i progetti Erasmus+, sospendendo ogni iniziativa accademica appoggiata dall’UE. La mossa fa seguito ad analoghe misure restrittive nei confronti dei media stranieri: il governo ha infatti revocato l’accreditamento al corrispondente di Bloomberg in Azerbaigian, e ha già espulso in passato diversi giornalisti non solo di emittenti occidentali come Voice of America e BBC News Azerbaigian, ma anche di Sputnik Azerbaigian, finanziato dalla Russia.
Dal novembre del 2023, giornalisti e attivisti hanno subito arresti di massa e varie forme di persecuzione. I procedimenti penali che hanno fatto seguito hanno portato all’arresto con accuse per contrabbando di più di 30 giornalisti, tra cui l’intero staff della sede locale di media indipendenti come “Abzas Media”, “Toplum TV” e “Meydan TV”, di cui sono state chiuse le redazioni. Tutti hanno rigettato le accuse, definendole politiche e motivandole piuttosto con la propria attività professionale. Negli elenchi stilati dalle organizzazioni locali per i diritti umani, al momento nelle carceri azere risultano più di 350 prigionieri politici. L’“Alleanza per il rilascio dei prigionieri politici in Azerbaigian” ha pubblicato una nuova lista di prigionieri politici: 30 dei nomi che comprende sono di giornalisti attualmente detenuti. Mentre il governo azero sostiene che i giornalisti sono detenuti per reati comuni, le organizzazioni per i diritti umani ritengono che alla base degli attacchi a media indipendenti noti per la loro posizione critica nei confronti del governo ci siano ragioni politiche e che le accuse ai giornalisti siano infondate.
Che i diritti umani in Azerbaigian versino in condizioni drammatiche non è, purtroppo, una novità, avendo il Paese una lunga storia di torture e condizioni di detenzione disumane nelle proprie carceri. Tra maggio e giugno del 2017 ci fu il famigerato Caso Terter, quando un gruppo di militari azeri venne accusato di spionaggio per i servizi segreti armeni, con conseguenti arresti, detenzione e gravi violazioni dei diritti umani. Le testimonianze delle vittime e dei loro parenti contengono la descrizione dei metodi tremendi utilizzati durante gli interrogatori. Secondo gli attivisti per i diritti umani, 11 soldati sono morti a seguito delle torture, e almeno altre 300 persone sono state identificate come vittime. Per diversi anni le autorità azere hanno negato qualsiasi illecito; le indagini sul caso sono iniziate solo nel 2021.
I maltrattamenti e le torture non si fermano alle carceri: numerose sono le segnalazioni di morti sospette tra le reclute. Simili “incidenti” hanno scatenato proteste pubbliche, che la polizia ha brutalmente represso. Nel 2013, centinaia di manifestanti si sono riuniti in Piazza delle Fontane, nel cuore della capitale Baku, per protestare contro la morte dei giovani coscritti e per chiederne ragione al governo. La polizia ha disperso con la violenza quella che era una manifestazione pacifica, con una scia di numerosi arresti fra gli attivisti. Nei mesi successivi, la repressione dei dissidenti si è intensificata, culminando in una più ampia ondata di repressione contro la società civile nell’estate del 2014, quando giornalisti, attivisti per i diritti umani e personalità dell’opposizione sono stati sistematicamente presi di mira e imprigionati. Negli anni seguenti la situazione è ulteriormente peggiorata, con un aumento della repressione politica, della censura sui media e dei limiti imposti alla società civile.
La lunga storia di torture e violazione dei diritti umani di Ilham Aliyev risale di fatto al suo primo giorno di presidenza. In attesa delle elezioni del 2003, l’atmosfera venne manipolata ad hoc per impedire all’opposizione di svolgere una campagna elettorale efficace. Arresti arbitrari e violenze da parte della polizia sono stati l’arma per intimidire gli oppositori. Il giorno delle elezioni, poi, i brogli per garantire la vittoria ad Aliyev hanno riguardato l’intero territorio nazionale, mentre alle manifestazioni di protesta successive il governo ha risposto con grande brutalità e dando carta bianca alle forze di sicurezza, che hanno picchiato centinaia di manifestanti fino a far perdere loro i sensi, uccidendone almeno uno.
Nel corso degli anni, il governo Aliyev ha preso di mira soprattutto i giornalisti d’inchiesta che denunciavano la corruzione tra gli alti papaveri. Diversi giornalisti e accademici, tra cui Khadija Ismayilova e Gubad Ibadoghlu, noti per le loro indagini sugli affari della famiglia Aliyev, sono stati imprigionati per motivi politici e continuano a subire molestie anche dopo il rilascio. Petrolio e gas hanno avuto un ruolo chiave nel consolidamento del regime autoritario vigente, consentendo di fatto ai vertici del potere di reprimere il dissenso e ignorare del tutto l’appello delle organizzazioni internazionali per il rilascio dei prigionieri politici. Queste stesse risorse sono state la leva per ospitare eventi internazionali e dare ulteriori poteri alle forze di polizia che reprimono l’opposizione.
Tuttavia, le voci indipendenti che vengono messe a tacere non sono solo quelle dei giornalisti. Anche difensori dei diritti umani, attivisti, politici dell’opposizione e accademici vengono sistematicamente presi di mira. Il rapporto di Human Rights Watch 2024 descrive nel dettaglio arresti arbitrari, molestie fisiche e divieti a lasciare il paese. Quale ritorsione al loro lavoro di ricerca e al loro attivismo di pacifisti, gli accademici Igbal Abilov e Bahruz Samadov sono stati arrestati con accuse infondate che comprendono l’“alto tradimento”. Non sfuggirà l’ironia dell’accusa: nonostante dopo la guerra del 2020 la pace nella regione sia uno slogan del governo, l’Azerbaigian continua attivamente la sua propaganda militarista e arresta giovani attivisti e studiosi che promuovono la riconciliazione tra azeri e armeni. In una dittatura, anche la pace è monopolio di Stato: solo chi opera all’interno di strutture approvate dal governo o col governo allineate può parlamentare con gli armeni, laddove gli attivisti o gli studiosi indipendenti che cercano di contrastare la propaganda dell’odio rischiano di essere bollati come traditori. Se gli attivisti sono accusati di alto tradimento, partiti politici dell’opposizione come il Partito del Fronte Popolare e il Partito Musavat hanno visto i loro membri arrestati con accuse infondate che rimandano spesso a “problemi di sicurezza nazionale”. Di fatto Ali Karimli, leader del Partito del Fronte Popolare, è stato per anni agli arresti domiciliari, con le autorità che gli negavano l’accesso a internet e la partecipazione a eventi pubblici.
L’economia dell’Azerbaigian dipende in massimo grado dagli idrocarburi, e le esportazioni di petrolio e gas sono di fatto la spina dorsale delle entrate statali. Tuttavia, nella mente della famiglia che detiene il potere in Azerbaigian, il bilancio statale è sinonimo di bilancio familiare. Gas e petrolio hanno, infatti, permesso loro di
- accumulare ricchezze astronomiche;
- finanziare un apparato capillare di sicurezza e sorveglianza, rafforzandone la capacità di reprimere l’opposizione;
- mantenere rapporti di potere strettamente gerarchici assicurandosi la fedeltà dell’élite attraverso accordi commerciali;
- smantellare efficacemente gli organi giudiziari e legislativi, riducendoli a meri organi di controllo delle decisioni prese dall’ esecutivo;
- perseguitare i media indipendenti, utilizzando misure legali e strategiche di intimidazione per mettere a tacere le voci critiche;
- attaccare la società civile, con le ONG e gli attivisti che devono fronteggiare arresti arbitrari e limitazioni burocratiche;
- garantirsi i favori della classe media offrendo posti di lavoro stabili, pur se scarsamente retribuiti, all’interno delle agenzie statali e utilizzare la diplomazia del petrolio e del gas e gli eventi internazionali per proteggersi dalle critiche internazionali.
COP29 e “greenwashing”
Il fatto che, nell’autunno del 2024, l’Azerbaigian abbia ospitato la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29) ha suscitato forti controversie. I critici sostengono che l’evento sia servito a distrarre l’attenzione da un’economia, quella azera, trainata dai combustibili fossili, nonché dai suoi scarsi risultati in materia di diritti umani, una tattica nota come ‘greenwashing’. A ennesima riprova delle politiche autoritarie dell’Azerbaigian, le organizzazioni per i diritti umani hanno evidenziato una nuova serie di violazioni, tra cui arresti arbitrari, torture di detenuti e il trasferimento forzato di oltre 100.000 armeni dal Nagorno-Karabakh nel 2023. Un articolo in merito di TIME magazine – “L’Azerbaigian non avrebbe mai dovuto ospitare la COP” – sottolinea come il regime sfrutti il suo ruolo sulla scena mondiale per nascondere le repressioni interne.
Nonostante la recrudescenza delle repressioni, il fatto che l’Azerbaigian venga ritenuto un partner strategico per l’approvvigionamento energetico e la sicurezza nella regione scoraggia molti governi occidentali a intervenire. In seguito alla guerra in Ucraina, l’Unione Europea ha aumentato la propria dipendenza dal gas azero, proteggendo ulteriormente Baku da eventuali pressioni sui diritti umani.
Il regime di Aliyev utilizza l’export di energia per silenziare le critiche internazionali, in particolare quelle delle nazioni europee che dipendono dall’energia azera.
I governi occidentali esprimono spesso preoccupazione, ma ben poche sono state le azioni concrete atte a responsabilizzare il regime in tal senso. Al contrario, alcuni Paesi dell’UE, come l’Italia, hanno scelto di rafforzare i propri legami con la dittatura azera, nonostante almeno un funzionario italiano sia stato scoperto ad accettare tangenti da politici azeri per mettere a tacere le critiche europee sulla situazione dei diritti umani a Baku. Nel 2012, diversi politici dell’UE hanno cercato di stemperare una relazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE) che condannava l’Azerbaigian per i prigionieri politici incarcerati e altre violazioni dei diritti umani, una controversia nota come lo scandalo Caviar Diplomacy. Il termine si riferisce a una strategia di lobbying in cui a politici stranieri venivano offerti regali costosi e viaggi di lusso in Azerbaigian a spese di Baku, in cambio di ritocchi filoazeri ai rapporti dell’APCE. Il tutto in un periodo in cui decine di prigionieri politici erano detenuti nelle carceri azere. Negli ultimi anni, con l’aumentare delle repressioni sono aumentati anche i legami con l’UE, e in particolare con l’Italia. Ci si chiede come questo sia possibile, essendoci ormai contezza dei crimini commessi dal regime. Una risposta politica tipica è che gli interessi economici prevalgono su argomenti cosiddetti “non indispensabili” come i diritti umani. In effetti, è ciò che sembra essere accaduto: L’Azerbaigian esporta addirittura il 57% del suo petrolio in Italia, per la quale l’Azerbaigian è uno dei principali fornitori di petrolio, con circa il 15% del totale delle importazioni. L’Azerbaigian ha, inoltre, un ruolo chiave nella strategia italiana di riduzione della dipendenza dal gas russo, dato che attualmente esporta circa il 20% della produzione nel Belpaese, risultandone il secondo fornitore assoluto.
L’Italia ha attualmente in piedi partenariati in campo accademico, nonostante le collaborazioni culturali e accademiche internazionali dell’Azerbaigian siano state finora largamente fallimentari. In passato il regime azero ha infatti usato investimenti milionari in istituzioni accademiche occidentali a fini propagandistici, ma questi sforzi si sono conclusi con l’ennesimo scandalo per corruzione. Un esito inevitabile in quanto, per sua natura, un regime dittatoriale non può garantire quella libertà che è prerogativa essenziale per un’autentica attività accademica.
Cosa è andato storto? Dall’indipendenza alla perdita delle libertà
Quando l’Azerbaigian ottenne l’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, il Paese ebbe inizialmente un periodo di instabilità politica unito a una sanguinosa guerra con la vicina Armenia per il Nagorno-Karabakh, guerra che causò milioni di rifugiati e quasi il 20% del territorio occupato. Il primo (e unico) Presidente democraticamente eletto dell’Azeribaigian, Abulfaz Elchibey, fu rovesciato nel 1993 e a prendere il potere fu Heydar Aliyev, ex leader comunista e generale del KGB, che restò in carica fino alla morte (nel 2003) e instaurò un regime spietato e familistico grazie ai grandi introiti petroliferi che inondavano le casse dello Stato. Gli diede il cambio suo figlio, l’attuale presidente Ilham Aliyev, consolidando così una vera e propria dinastia. Aliyev ha governato e governa il Paese con un controllo totale sulle risorse, l’economia e i media, negando qualunque libertà politica ed economica. Se da principio l’Azerbaigian aveva mostrato qualche barlume democratico, la scoperta e l’esportazione dei giacimenti di petrolio hanno alterato in modo significativo il panorama politico. Invece di investire nelle infrastrutture, nell’istruzione e nel sistema sanitario, i proventi degli idrocarburi hanno permesso alla famiglia Aliyev di mantenere il controllo totale eliminando l’opposizione, controllando i media e assicurandosi la fedeltà attraverso una rete di favoritismi e legami di stampo mafioso. L’attuale regime non ha alcun interesse a diversificare l’economia, e i monopoli profondamente radicati nel Paese così come la corruzione diffusa lasciano poche speranze per un cambiamento degno di questo nome.
L’aspetto patinato della capitale Baku – trasformato radicalmente con marchi di lusso e architetture futuristiche (spesso concentrata nelle strade che portano il nome dei membri del casato al potere) – è in netto contrasto con la povertà diffusa nel resto del Paese. In più, i figli del Presidente sono a capo di un impero commerciale e immobiliare in rapida ascesa, che comprende immobili a Londra, hotel a Dubai e via dicendo, oltre a imprese nel settore minerario, delle telecomunicazioni e del turismo. Mentre i funzionari corrotti fanno qualche sparuta comparsa in cronaca per la loro inaudita capacità di far sparire qualche milione di euro, gli standard di vita nel Paese peggiorano: lo stipendio medio è di circa 500-600 manat (250-300 euro). Nel frattempo, ai funzionari corrotti si sono aggiunti anche i loro familiari, che forniscono sempre nuovo materiale ai giornalisti che indagano sugli scandali di corruzione. Per decenni il governo dell’Azerbaigian ha sfruttato il conflitto congelato con l’Armenia, il dramma dei rifugiati e il suo passato sovietico per giustificare il proprio scarso rispetto per i diritti umani, la mancanza di elezioni regolari e un’economia in difficoltà, presentandosi come una “nazione in transizione” e con la falsa promessa di giorni migliori. Siamo nel 2025, qualche decennio è passato e la transizione sembra finita: l’Azerbaigian si è trasformato in una dittatura a tutti gli effetti, con elezioni che sono un mero teatrino politico, politici corrotti di cui ha notizia l’intera comunità internazionale, dove il dissenso è represso senza alcuna pietà e le difficoltà economiche sono la realtà quotidiana per gran parte della popolazione.
L’Azerbaigian è un esempio lampante di regime autoritario alimentato dalla ricchezza delle proprie risorse. Il governo Aliyev ha sfruttato le entrate derivanti dal petrolio e dal gas per consolidare il proprio potere, zittire l’opposizione e manipolare le relazioni internazionali per non dovere rispondere dei propri crimini. Senza una forte pressione internazionale e un sostegno reale alla società civile, la crisi dei diritti umani in Azerbaigian continuerà ad aggravarsi. Le voci dei giornalisti, degli attivisti e dei membri della società civile imprigionati ci ricordano quanto è alto il prezzo da pagare in un regime autoritario, mentre la dipendenza economica dell’Occidente dagli idrocarburi solleva domande a lungo termine sul futuro della democrazia.