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Contro i tatari di Crimea una brutalità senza fine

Sejran Saliev, giornalista civico, condannato a 15 anni per aver denunciato la repressione russa.


14 febbraio 2025 
ore 11:46


Sejran Aliev
Sejran Aliev (foto: Crimean Solidarity)


Il Gruppo di Charkiv per la difesa dei diritti umani richiama l’attenzione sulle persecuzioni contro i tatari di Crimea attuate dal regime russo. Con la guerra, questa popolazione ha conosciuto nuovamente repressioni che sembravano confinate nel passato. Le condizioni storiche sono cambiate, il contesto è diverso, ma la somiglianza delle accuse rivolte al giornalista Sejran Saliev con quelle usate come pretesto per giustiziarne il bisnonno sotto Stalin proietta un’ombra sinistra e inquietante su eventi già di per sé tragici. Per gentile concessione del Gruppo di Charkiv per la difesa dei diritti umani pubblichiamo qui la traduzione italiana di un articolo che illustra questo caso, emblematico della condizione di un popolo.


A ottant’anni dall’esecuzione del bisnonno di Sejran Saliev, giustiziato sotto Stalin per essersi opposto al regime, la Russia muove accuse paurosamente simili contro di lui e contro altri giornalisti e attivisti di Crimean Solidarity, movimento civile per la difesa dei tatari di Crimea vittime di repressione politica.


La vendetta della Russia contro giornalisti civici e attivisti tatari di Crimea che denunciano le crescenti repressioni nella Crimea occupata non si limita a processi farsa e sentenze aberranti. Sejran Saliev è recluso in condizioni terribili nella cella di isolamento punitivo di un carcere russo dal 20 novembre 2024. L’amministrazione del carcere non ha nemmeno cercato di giustificare con motivi plausibili la scelta, e la moglie di Saliev, Mumine Salieva, non ha dubbi che l’isolamento sia dettato da motivi politici.


Il 26 gennaio Mumine Salieva, lei stessa nota avvocata per i diritti umani, ha denunciato che la famiglia aveva appreso della nuova reclusione in cella di isolamento a solo un mese e mezzo dalla prima, durata 15 giorni. In precedenza, l’amministrazione della colonia penale n. 4 della regione di Tula non aveva mai risposto alle telefonate della madre di Sejran, Zodie Salieva.


Mumine Salieva
Mumine Salieva (foto dal suo archivio personale)


Dal carcere non hanno neanche fretta di fornire risposte alle lettere ufficiali che Mumine ha inviato in più occasioni, risposte necessarie per procedere per vie legali. Il 10 gennaio ha finalmente ricevuto conferma che il 21 giugno 2024 una commissione interna alla colonia aveva deliberato di applicare a Saliev un regime con condizioni di reclusione ancora più dure per “crimini reiterati”, ma senza fornire dettagli sulla natura dei reati in questione.


Il 21 gennaio è poi arrivata la risposta a un’altra lettera di Mumine: la commissione aveva messo in isolamento Saliev il 9 gennaio 2025 per sedicenti “violazioni delle regole carcerarie” commesse il giorno prima. Nella risposta, però, non si faceva menzione del fatto che Saliev era già in isolamento dal 20 novembre 2024, e che dunque le condanne a periodi di 10 o 15 giorni di isolamento si erano ripetute più volte.


È risaputo che si usino i pretesti più vari per mettere in cella di isolamento i prigionieri politici tatari di Crimea e ucraini, e tutto fa credere che anche in questo caso i motivi siano stati inventati. Nel dicembre del 2024 in isolamento erano finiti Muslim Aliev, prigioniero di coscienza riconosciuto negli elenchi di Amnesty International, e Timur Abdullaev (prigioniero politico). La scusa è stata che i due, musulmani osservanti, non avrebbero salutato il direttore del carcere, arrivato mentre recitavano le preghiere del mattino. Abbiamo valide ragioni per credere che la visita suddetta fosse un preciso stratagemma per far sì che ai due prigionieri politici toccassero condizioni di reclusione durissime. Qualcosa di analogo è quasi sicuramente accaduto a un altro giornalista tataro di Crimea, Remzi Bekirov, pure lui in carcere. Finito anche di recente in cella di isolamento per aver recitato le preghiere del mattino, ha subito condizioni di detenzione particolarmente restrittive o varie reclusioni in isolamento già sette volte nei primi sei mesi dal suo trasferimento nella colonia penale n. 33 della Chakassia.


Così facendo la Russia viola non solo la legge internazionale e le disposizioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma anche le sue stesse linee guida quanto al trattamento dei prigionieri, dato che trattiene prigionieri politici ucraini a migliaia di chilometri dalle loro case e dalle loro famiglie.  


Seiran è figlio di Zodie Salieva, veterana del movimento nazionale dei tatari di Crimea e lei stessa vittima di persecuzioni durante l’occupazione russa. Il nonno di Zodie Salieva venne giustiziato sotto il regime di Stalin per essersi rifiutato di lavorare in un kolchoz. Il suo rifiuto venne bollato quale “tentativo di rovesciare il regime sovietico”, un’accusa infondata e assurda che 80 anni dopo tocca anche al nipote Sejran, il quale, insieme alla moglie, non ha fatto finta di nulla mentre la Russia intensificava le persecuzioni politiche e religiose nella Crimea occupata, e ha partecipato attivamente al movimento per i diritti umani “Crimean Solidarity”.


Saliev, infatti, è uno degli otto giornalisti civici e attivisti tatari di Crimea bersaglio del primo attacco dichiarato della Russia a “Crimean Solidarity”. Come molti altri, era già stato vittima di sanzioni amministrative, ma vedendole inefficaci a zittirli, l’FSB è passato alle accuse – assurde – di terrorismo.


L’11 ottobre 2017 erano infatti stati arrestati quattro giornalisti civici tatari di Crimea: Sejran Saliev (nato nel 1985), Ernes Ametov (nato nel 1985), Marlen (Suleiman) Asanov (nato nel 1977) e Timur Ibrahimov (nato nel 1985), e due attivisti civili Memet Beljalov (nato nel 1989) e Server Zekir’jaev (nato nel 1973). Pur essendo già chiaro che la Russia stava cercando di mettere a tacere il movimento per i diritti umani nella Crimea occupata, è stato l’arresto del coordinatore di Crimean Solidarity e giornalista civico Mustafaev (nato nel 1986) e di Edem Smailov (nato nel 1968) del 21 maggio 2018 a provocare le maggiori reazioni di condanna a livello internazionale. 


Server Mustafaev
Server Mustafaev (foto: Crimean Solidarity)


Le accuse non riguardavano reati riconoscibili, ma afferivano a presunti legami con Hizb ut-Tahrir, un’organizzazione musulmana transnazionale e pacifica che non risulta abbia mai compiuto atti di terrorismo in nessuna parte del mondo. Invece, sulla base della sentenza (con motivazioni secretate) con cui nel febbraio 2003 la Corte suprema russa ha bollato Hizb ut-Tahrir come “organizzazione terroristica”, i tribunali russi condannano persone del tutto innocenti a pene detentive fino a 24 anni. 


Se inizialmente solo a Marlen Asanov era toccata l’accusa di essere fra gli “organizzatori” dell’associazione suddetta – un’aggravante ai sensi dell’articolo 205.5 § 1 del Codice penale russo -, nel febbraio 2019 la stessa accusa è toccata anche a Memet Beljalov e Timur Ibrahimov. Sejran Saliev, Ernes Ametov, Server Mustafaev, Edem Smailov e Server Zekir’jaev sono stati invece accusati di “partecipazione a organizzazione terroristica” (articolo 205.5 § 2). A tutti e otto, infine, è stata mossa l’accusa, surreale, di avere “pianificato di prendere il potere con la forza” (articolo 278).


Non c’era alcuna prova effettiva di legami con Hizb ut-Tahrir e tanto meno di sforzi compiuti per “organizzare un gruppo terroristico”. Le accuse si basavano su conversazioni registrate illegalmente all’interno di una moschea, durante le quali Hizb ut-Tahrir non veniva nemmeno nominata. Come al solito, però, l’FSB ha inviato le trascrizioni a dei “periti” di sua fiducia, sempre pronti a fornire le “prove” richieste. Nessuno dei tre – Julija Fomina, Elena Chazimulina e Timur Zachirovič Urazumetov – possedeva le competenze necessarie per eseguire la perizia in questione. L’inadeguatezza delle due “linguiste” Fomina e Chazimulina è ben illustrata in un rapporto della linguista forense Elena Novožilova, che ha anche testimoniato in aula.


A sostegno di queste “prove” sono state portate le dichiarazioni ancora meno credibili di due “testimoni segreti o anonimi”. Di fatto, è su questo genere di testimonianze che la giustizia russa fonda i processi politici contro i tatari di Crimea e gli altri cittadini ucraini. Tale circostanza è stata criticata aspramente nel rapporto del Segretario generale dell’Onu sui diritti umani “nella Repubblica autonoma di Crimea e nella città di Sebastopoli” del 2021 e, ancora nel 2020, giudicata una violazione del diritto a un processo equo dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo.


Nonostante il pubblico ministero possa contare sul sostegno della corte per mantenere l’anonimato dei “testimoni” ed evitare qualsiasi domanda che metta in discussione le loro “testimonianze”, l’identità di entrambi è di fatto nota. Si tratta di Narzullaev Salachuddin, cittadino uzbeko che risiede nella Crimea occupata senza regolare permesso di soggiorno, e di Konstantin Tumarevič, lituano in fuga dalla giustizia del proprio Paese. Si ritiene che proprio per regolare la propria posizione o evitare il rimpatrio, i due uomini abbiano accettato di “testimoniare” anonimamente contro diversi prigionieri politici provenienti dalla città tatara di Bachčisaraj.


Tutti i vizi di forma summenzionati, così come il fatto che la Russia stia violando il diritto internazionale applicando la propria legislazione interna anche nei territori occupati, sono stati sistematicamente ignorati dal pubblico ministero Еvgenij Kolpikov, dal presidente della Corte del Distretto militare meridionale di Rostov Rizvan Zubairov e dagli altri due giudici, Roman Saprunov e Maxim Nikitin. Il 16 settembre 2020, Zubairov, Saprunov e Nikitin hanno pronunciato sentenze durissime contro i sette imputati. Marlen Asanov è stato condannato a 19 anni di colonia penale a regime duro, Memet Beljalov a 18, Timur Ibrahimov a 17, Sejran Saliev a 16, Server Mustafaev a 14, Edem Smailov e Server Zekir’jaev a 13 anni.


In appello la pena di Saliev è stata ridotta a 15 anni. La stessa corte ha tuttavia accolto l’appello del procuratore contro quella che a oggi è stata l’unica assoluzione di un prigioniero politico ucraino. E infatti Ernes Ametov è stato poi condannato a una pena detentiva di 11 anni, quasi sicuramente come ritorsione per essersi rifiutato di testimoniare il falso.


Successivamente, le conversazioni registrate nella moschea e le dichiarazioni dei “periti” e dei “testimoni segreti” sono state utilizzate per condannare a 13 anni anche Oleh Fedorov ed Ernest Ibrahimov. 


Tutti loro sono stati riconosciuti come prigionieri politici e la loro liberazione è stata chiesta, tra gli altri, dall’Unione Europea, dal Dipartimento di Stato americano nonché da Human Rights Watch (HRW) e Frontline Defenders. In un comunicato rilasciato in seguito alle condanne pronunciate nel settembre 2020, HRW constata che esse “mostrano ancora una volta che


le autorità russe sono determinate a punire i tatari di Crimea impegnati politicamente colpendo anche le loro famiglie, e che sono disposte a violare la legge e a snaturare il diritto per raggiungere il proprio scopo”.

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