Olena Apčel, studiosa e soldata ucraina: “L’imperialismo russo si combatte anche ribellandosi alla pigrizia intellettuale”

"Da una parte ci stiamo difendendo da un nemico dieci volte più forte, astuto e subdolo, dall'altra siamo costantemente costretti a giustificarci qui in Europa. Dobbiamo, come alla scuola elementare, raccontare la storia del Novecento con una mappa in mano, una storia non deformata dalla propaganda moscovita".

(Articolo di Olena Apčel, traduzione di Maryana Romanyuk)


19 novembre 2024 
ore 11:31


Olena Apčel è una regista e ricercatrice teatrale. È stata la direttrice artistica del Teatro Lesja Ukrajinka di Lviv e regista del Teatro Zoloti Vorota di Kyiv, coautrice dell’esposizione principale del Museo Memoriale dei Regimi Totalitari “Terytorija teroru”. Nel 2020 è stata invitata al Teatr Nowy di Varsavia per dirigere il settore dei programmi sociali e, nell’autunno del 2022, si è trasferita a Berlino, dove ha lavorato come codirettrice del Theatertreffen, il più grande festival del panorama teatrale germanofono.


Quest’anno Apčel è tornata in Ucraina e si è unita alle Forze di Difesa. Contemporaneamente continua a scrivere. Recentemente il periodico tedesco Theater Heute ha pubblicato un suo articolo sulla profonda eredità coloniale delle società europee, causa di una pigrizia intellettuale che favorisce i progetti neoimperiali. L’articolo è stato poi pubblicato in ucraino in una versione che qui traduciamo.


Olena Apčel (foto tratta dalla sua pagina Facebook)


Per molti anni, confrontandomi con i colleghi della “bolla” artistica in diversi paesi riguardo al processo di emancipazione degli ucraini dall’influenza imperiale della Russia, mi sono imbattuta non tanto in disaccordo o incomprensione, quanto piuttosto in una sorta di profonda malinconia, in un rammarico difficilmente esprimibile. Una sorta di pigrizia intellettuale.


Come sarebbe a dire che ora dobbiamo studiare tutto da capo, cambiare prospettiva? Diventare ignoranti per un po’, ammetterlo e dire con sincerità “non lo so”? Una cosa davvero spaventosa. Ricordo la mia paura di dieci anni fa, quando ho dovuto imparare rapidamente e da autodidatta, fare spazio dentro di me per tonnellate di nuove informazioni da elaborare. Quando, con una laurea magistrale e un dottorato in storia dell’arte, mi sono improvvisamente accorta di quel crampo tossico che è la russificazione e ho dovuto estirpare quasi tutte le conoscenze che avevo in precedenza, rimanendo praticamente nuda intellettualmente. Una situazione in cui sei a conoscenza dei meccanismi e della metodologia, ma ti mancano i fatti e la prospettiva.


È una sensazione molto sgradevole. Ieri eri una storica dell’arte, una critica letteraria, una curatrice, una direttrice d’orchestra, una scrittrice, una storica, una studiosa di cultura di altissimo livello, oppure una giornalista o una sociologa affermata, e oggi ti rendi conto improvvisamente che tutto ciò che sai è, se va bene, unilaterale, altrimenti addirittura falso. Una bugia imperiale, mitopoietica e sfacciata. La prospettiva post-imperialista e quella de-coloniale ti suggeriscono di ascoltare con attenzione, imparare cose nuove. Ma imparare cose nuove richiede tempo. E tu non sei più uno studente o un’alunna. E il tempo che ti serve non è una settimana o un anno. La reazione normale delle persone con un bagaglio scientifico-artistico è: “Non ci penso neanche!”. E a quel punto decidi di non preoccupartene troppo. Ma quel fastidioso sassolino è lì nella tua scarpa, a darti fastidio. Continui a camminare come facevi prima, ma il sassolino ti distrae, ti irrita, non smette di farsi sentire. Ma la pigrizia intellettuale vince sul disagio. E così ti abitui a sentire quotidianamente di morti, distruzioni, smetti di prestare attenzione alle richieste di aiuto e ritorni ai tuoi ritmi abituali e ai legami intellettuali di prima.


Recentemente ho avuto una conversazione con una conoscente che vive in Germania da molti anni. Conosce bene il tedesco, è un’intellettuale, traduttrice, storica dell’arte e scrittrice. Si può dire che sia una persona profondamente integrata (per quanto possibile, dato che la società tedesca non ama molto che si integrino davvero i rappresentanti di altre società, anche se non lo ammette neanche a sé stessa). Così abbiamo avuto una conversazione piuttosto franca, da cui è emersa una frase che per me non è stata una rivelazione, ma su cui spesso rifletto per potermi spiegare le cause della durata e della brutalità di questa guerra decennale. E proprio questo pensiero, forse, è l’unico motivo per cui continuo a scrivere testi come questo. Gli intellettuali tedeschi non si fidano degli intellettuali ucraini.


Questo sguardo si basa, ovviamente, sul passato imperialista, sullo sciovinismo nascosto (perso dai tedeschi ma non dai russi), sull’abitudinarietà, su una visione da tempo eurocentrica, sulla grande paura di un’altra guerra mondiale, sulla grande paura di nuove misure riparatorie, sulla paura della decostruzione e della perdita di un’apparente stabilità. E così si oppongono inconsciamente a concedere il diritto alla soggettività alle culture che sono state colonizzate in passato. Quasi tutti i progetti dichiarati come internazionali, con il coinvolgimento di esperti da tutto il mondo, lo sono spesso solo esteriormente. Il cambiamento di prospettiva o la proposta di nuove regole sono un privilegio che non si concede agli altri.


Questa mancanza di un dialogo paritario deriva dalla profonda convinzione che le società e gli individui che hanno vissuto esperienze traumatiche (e noi indubbiamente ne abbiamo vissute) non siano in grado di analizzare e descrivere in modo calmo e ponderato la realtà, ma solo attraverso una prospettiva soggettiva e che, quindi, questa realtà rifletterà sempre il dolore e il punto di vista della vittima. Vorrei definire queste conclusioni superficiali come sbagliate e immature, scusarmi per averli accusati di velato sciovinismo e tornare a nascondermi nell’angolo di una cultura periferica non di rilevanza mondiale, per non disturbare con i miei traumi le culture adulte, evolute e rispettabili. Abbiamo parlato anche di questi pensieri sarcastici con la mia conoscente. E in linea di principio ho notato che più sei vicina alla linea del fronte, più le conversazioni diventano franche. E dal dolore e dalla rabbia ti salvi o con le lacrime o con l’ironia. Ma invece ho voluto esprimere compassione. Provo molta compassione per la società tedesca e per altre società simili, per il fatto che la paura e i profondi traumi del secolo passato abbiano paralizzato la loro capacità di vedere ciò che di positivo si racchiude nei cambiamenti turbolenti. Il loro amore per la stabilità ha portato all’atrofia dell’empatia.


La convinzione che un’immagine del mondo consolidata da tempo, ormai chiara a sé stessi e agli altri, sia l’unica possibile, che sia incrollabile, dimostra in realtà la profondità del trauma di questa società.


Tutto ciò che non si muove arrugginisce, questo dogma non necessita di lunghe discussioni. Su una vasta gamma di questioni, la società tedesca è molto attiva, ascolta e crea essa stessa nuove narrazioni, è stratificata e in costante evoluzione. Ma la questione della cultura ucraina, della sua autosufficienza filosofica e artistica, ha creato per i tedeschi un blocco insuperabile. L’umanità ha appena cominciato a rendersi conto che è responsabilità dei vecchi imperi imparare le lingue e le culture dei paesi periferici. Non il contrario, dove i singoli e le singole rappresentanti di questi paesi periferici, privi di una lobby politica (che di solito è appannaggio degli imperi), tentano, autonomamente e con voci separate, di far sentire le loro narrazioni a coloro che, con condiscendenza, tendono l’orecchio solo per qualche minuto. Quando poi si verifica un genocidio, queste voci solitarie, spinte dalla disperazione e dal dolore, si manifestano con un carattere ribelle. E questo è considerato incivile, quindi queste voci finiscono rapidamente per essere relegate ai margini.


Questa prospettiva fa sì che siamo percepiti come un popolo adolescente in rivolta. Questo però è falso e lo dimostrano l’antichità, la profondità e la complessità del pensiero filosofico ucraino e dei meccanismi di costruzione dello stato ucraino.


L’Ucraina è stata costantemente zittita, sistematicamente distrutta tra carestie, campi di concentramento, fucilazioni, deportazioni, lavori forzati, stupri. I russi hanno utilizzato questi metodi contro tutti i popoli vicini che hanno oppresso, i cosiddetti “soggetti della federazione”. Il loro metodo consiste nel terrorizzare, sopprimere, facendo credere al mondo intero che lì ci sono solo persone piccole e insignificanti che producono una cultura insignificante e primitiva non meritevole di attenzione. Questo sciovinismo, che potremmo definire gerarchico, lo conosciamo da secoli: nelle nostre città e nei villaggi venivano eretti monumenti a Puškin mentre le autorità bruciavano gli spartiti dei compositori che rifiutavano di essere “funzionari sovietici”. Solo coloro che come Gogol’ accettavano l’identità russa e rinunciavano alla propria avevano la possibilità di non essere torturati e di diventare addirittura famosi.


Questa è una buona occasione per ricordare ancora una volta che la nostra lotta si basa su un’identità politica e ideologica, non etnica. Un concetto che, purtroppo, in Occidente si è piuttosto pigri nel comprendere e approfondire. L’Occidente teme, sfuma la parola “nazione”, basandosi sul trauma della propria esperienza. I russi, conducendo una guerra genocida, ci stanno distruggendo proprio per la nostra identità politica nazionale: la nostra letteratura, i nostri musei, le gallerie, la nostra lingua, i simboli dello stato. Nei territori occupati uccidono i nostri poeti e i nostri insegnanti, indipendentemente dalla loro origine etnica. Da una parte ci stiamo difendendo da un nemico dieci volte più forte, astuto e subdolo, dall’altra siamo costantemente costretti a giustificarci qui in Europa. Dobbiamo, come alla scuola elementare, raccontare la storia del Novecento con una mappa in mano, una storia non deformata dalla propaganda moscovita. Dobbiamo, per l’ennesima volta, spiegare che il nostro nazionalismo politico è allo stesso tempo in parte ucraino, in parte dei tatari di Crimea, dei rom, dei greci, degli ebrei, dei caraiti, dei georgiani, dei polacchi, dei Krymčaky, degli armeni, dei gagauzi, dei bulgari, dei moldavi, dei lituani, del popolo dell’Ičkeria, degli azeri, dei vietnamiti. Un nazionalismo politico che si basa sulla flessibile autodeterminazione di una società civile consapevole e di un coraggioso movimento di volontariato, non sulla discendenza etnica.


Mentre scrivo queste righe mi domando: perché scrivere un testo, sapendo già che la sua lettura sarà un atto di condiscendenza gerarchica? È come quando si parla con i bambini, ascoltando le loro richieste, l’espressione della personalità, ma sapendo benissimo che non si tratta di una conversazione alla pari. Lavorando in Germania ho sentito spesso questa condiscendenza annoiata da parte dei miei interlocutori. Occhi spalancati, espressione attenta, tutto il tempo di cui hai bisogno per parlare: un ascolto normato, asciutto, un ascolto intellettuale, privo di vera attenzione e coinvolgimento emotivo o sentimentale. Ti ascoltano perché è un gesto di cortesia, una dimostrazione di educazione e modernità, dietro la quale si cela una reazione assolutamente irrilevante a livello concreto.


Prendiamo per esempio gli istruttori stranieri. Quando nel nostro esercito uno o una specialista tiene un corso di formazione, tutto si basa sull’autorità, sulla capacità di presentare il materiale e di mantenere l’attenzione del pubblico. Ma appena arriva un istruttore straniero o un’istruttrice straniera, tutti sembrano un po’ raddrizzarsi, ascoltare più attentamente, andare meno frequentemente al bagno o a fumare. Questo complesso di inferiorità significa che non importa cosa dica quella persona, l’attenzione resta alta solo perché parla una lingua straniera e viene tradotta. Ovviamente quando ne parliamo tra di noi tutti lo negano, ma il trauma transgenerazionale lascia riflessi comportamentali atavistici nei popoli oppressi. Mentre nei popoli che hanno oppresso funziona all’inverso: se una persona non parla bene la loro lingua o conosce poco della loro cultura viene ascoltata distrattamente o ignorata. È un meccanismo apparentemente semplice, ma che continua a essere riconosciuto con riluttanza sia dai primi che dai secondi.


Sono stata frequentemente testimone di episodi simili. Quando dall’Europa venivano in Ucraina registi sconosciuti ad allestire spettacoli c’era una maggiore affluenza di pubblico e i media vi dedicavano più attenzione. Lo spettacolo poteva anche essere di scarsa qualità o poco interessante, ma poiché era messo in scena da uno straniero era considerato meritevole di più attenzione; i dubbi sulla sua qualità, invece, erano spiegati con la nostra “incapacità di comprendere l’arte contemporanea”. Questo riguardava ovviamente i registi provenienti da Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna ma meno, ovviamente, da Grecia o Slovenia e quasi per nulla da Kazakistan o Georgia. Purtroppo, non è un paradosso, ma una realtà comprensibile, non riconosciuta apertamente, che interessa tutte le società postcoloniali. Funziona anche al contrario, nonostante la società dichiari una politica interna di decolonizzazione.


Un esempio meraviglioso dalla scorsa estate: allo Athens Epidaurus Festival uno dei dibattiti era dedicato alla lettura contemporanea dei testi antichi, alla loro interpretazione, alla loro comprensione. E coloro che parlarono di più furono gli ospiti dalla Gran Bretagna e dalla Germania (tradizionalmente, ai festival artistici internazionali, parlano di più gli ospiti britannici e tedeschi, se presenti). Noi eravamo un piccolo gruppo di giovani curatori da Georgia, Ucraina, Finlandia, Albania e cercavamo di segnalare, con brevi commenti, che sarebbe stato decisamente interessante ascoltare l’opinione degli artisti greci sul teatro greco contemporaneo che continua a lavorare anche con i testi antichi, perché eravamo venuti proprio per questo. Cercammo di suggerire ai colleghi britannici e tedeschi che forse anche a loro sarebbe interessata la prospettiva dei paesi periferici (dei quali eravamo rappresentanti), o ascoltare il dialogo degli artisti greci e delle artiste greche con i paesi periferici, qualcosa a cui probabilmente non avevano avuto modo di assistere spesso. E, come potete immaginare, ancora una volta non si trattava di appartenenza etnica, ma di identità intellettuale. Ero incredibilmente curiosa di sapere cosa ne pensasse una specialista finlandese, un esperto di teatro georgiano; è stato interessante scoprire attraverso conversazioni informali che i greci non sanno che Mariupol’ un tempo era una città completamente greca, che nell’Ucraina orientale ci sono insediamenti greci, scuole greche, che la mia famiglia della Bessarabia ha anche radici greche, e che abbiamo molto in comune, ma che ciò non ha avuto molte possibilità di emergere nell’arte a causa della repressione della nostra autonomia da parte degli imperi.


Conosco e rispetto il percorso di decolonizzazione iniziato dai musei europei, ma la visita al Museo dell’Acropoli il giorno dopo la conversazione mi ha tolto qualsiasi desiderio di ascoltare ciò che ne pensano le specialiste britanniche o tedesche sull’arte. Naturalmente si tratta solo di emozioni temporanee, e tutti noi vogliamo vivere in un mondo equilibrato dove tutte le voci sono rappresentate. Ma non considero le emozioni come un qualcosa di negativo. Sono parte di una reazione adeguata, viva e naturale al dolore e all’ingiustizia.


Non sono riuscita, in un anno e mezzo a Berlino, a entrare tranquillamente in quasi nessun museo dell’Isola dei Musei, dove si trovano ancora opere originali rubate. Mi sentivo semplicemente a disagio. Ricordo una sensazione simile quando nel lontano 2010 entrai all’Ermitage e vidi centinaia di quadri e opere di artisti ucraini. Chiesi alla guida perché fossero lì e non in Ucraina, e la risposta fu: “Ma che domanda è?”.


E così ci trovavamo a camminare per il Museo di Atene con il nostro piccolo gruppo di giovani dalla periferia, in silenzio, sussurrando di tanto in tanto tra di noi: “This is the poorest museum I have ever seen in my life”, “It’s a museum of forced emptiness” (“È il museo più povero che abbia mai visto in vita mia”, “È un museo di vuoto forzato”). Questo museo era più povero anche rispetto a quelli ucraini, perché anche i musei ucraini, come quelli greci, erano stati saccheggiati perfino dal Vaticano e dai tedeschi, ma principalmente, ovviamente, dai russi. Eppure, siamo riusciti a recuperare qualcosa, a ripristinare un pezzo della nostra storia, almeno fino a quando non è iniziata l’occupazione dieci anni fa. Nelle aree occupate i russi hanno rubato tutto dai nostri musei. E quello che non sono riusciti a rubare lo hanno bruciato o distrutto. Lì, ad Atene, facevamo a turno domande alla nostra guida su dove si trovassero ora gli originali di questi o quegli artefatti. E ogni volta la guida abbassava gli occhi e, con un sorriso forzato, rispondeva: “Purtroppo non sappiamo ancora quando tornerà da noi, ma al momento si trova là, al British Museum o all’Antikensammlung Berlin o nell’Archivio Storico dei Musei Vaticani”. Quanto conosco bene la tensione di ogni muscolo di quel sorriso tirato sul volto della guida, dietro cui si nascondono rabbia trattenuta, risentimento, rancore, umiltà e ribellione, smarrimento, vuoto, speranza e disperazione, autocontrollo e autocensura. È un bouquet di emozioni che si apre come un lillà a primavera prima di un’amara deglutizione, per mettere da parte quel groviglio transgenerazionale di ingiustizie con una nuova risposta.


Questo bouquet di sentimenti emerge sempre subito prima di rispondere a domande sciocche come “Cosa c’è di sbagliato in Dostoevskij?” o “Di cosa è colpevole Čajkovskij?”, dato che ha vissuto prima di Putin e Stalin, e in generale la sua famiglia ha origini cosacche ucraine. Devi ingoiare quel nodo maledetto, spingerlo giù per la colonna vertebrale, prima di sfoderare un sorriso accondiscendente, e cercare ancora una volta le parole adatte a spiegare il meccanismo spietato della propaganda russa, che da sempre usa l’arte come un’arma. Segna i territori con etichette che le convengono, calpesta, tortura e distrugge tutto ciò che trova scomodo o svantaggioso. Non si tratta della personalità dell’artista, ma di come l’impero l’ha usato per i suoi scopi. E la Russia utilizza tutti gli artisti per i suoi scopi, anche quelli che pensano di essere contro il regime. Ma per comprendere questo serve molto lavoro, bisogna riconoscere la propria ignoranza e lavorarci con impegno. La pigrizia intellettuale è esattamente ciò su cui l’impero fa affidamento. Per questo ama conferire onorificenze e attestati, organizzare cene solenni, riempire grandi teatri d’opera e tenere lunghi e sontuosi incontri nei paesi europei dopo le prime dei russi, inclusi quelli “bravi” quei famosi “bravi” russi, e brindare con prosecco, rigorosamente con prosecco durante le pause, e ora anche con la Fritz-Kola.


Tutto ciò che ci circonda è permeato dalla narrazione russa. Il complesso d’inferiorità è tutt’ora evidente nelle società un tempo colonizzate che conservano un’eco atavica di deferenza verso i “padroni”, anche quando questi esprimono opinioni non proprio brillanti. Ma funziona anche al contrario. I vecchi “padroni” (quelli con esperienza imperiale, tra cui la Germania) si considerano i più saggi, convinti di sapere di più e di avere il diritto di imporre la loro opinione occupando più spazio degli altri. Occupare “di diritto” perché, in fondo, questa continuità intellettuale c’è davvero, no? Fino a quando i vecchi padroni-colonizzatori non riconosceranno la propria responsabilità nella guerra decennale della Russia contro l’Ucraina e non faranno un passo indietro, l’ineguaglianza in questo dibattito persisterà.


Sì, le cose più importanti sono le armi per difendere gli ucraini dai russi, ma è giunto anche il momento di lasciare spazio alle voci inascoltate. È vitale che i tedeschi e i liberali russi, che hanno invaso Berlino, capiscano che è necessario farsi da parte per dare spazio alle voci degli intellettuali kazaki, georgiani, tatari di Crimea, dell’Ičkeria, moldavi, ucraini e lituani. Queste voci parleranno dalla propria prospettiva, una prospettiva nuova e inattesa per l’Europa, quella dei popoli oppressi, di chi combatte contro un impero che si definisce federazione. Ma ora il focus è sulla più grande guerra d’Europa, che sta devastando la terra ucraina e uccidendo i suoi cittadini mentre il mondo osserva online.


È essenziale ascoltare queste voci con attenzione, senza l’atteggiamento di chi è ormai stanco dei “rifugiati traumatizzati e instabili”. È fondamentale imparare a vedere in loro persone degne, che hanno trovato il coraggio di dire “no” all’oppressore e al terrorista. Perché, se questa guerra è stata permessa, se così tanto male è stato compiuto davanti agli occhi degli europei nei primi otto anni di guerra (che non è stata chiamata guerra, ma codardamente “conflitto”), significa che la solita narrazione non funziona. Se non funziona, cosa bisogna fare? Rivederla. E per rivederla, bisogna distanziarsi. Per distanziarsi, bisogna capire in che direzione e da che cosa mi sto distanziando. Mi distanzio dalle mie convinzioni. Se mi distanzio dalle mie convinzioni, libero spazio e sono pronta ad ascoltare, pronta a riconoscere che alcune delle mie narrazioni possono essere irrilevanti, inadeguate, e solo allora ciò che l’altra parte dirà avrà la possibilità di essere riconosciuto nella sua soggettività e autonomia.


Ma finché questo non accadrà, scrivere testi come questo continuerà, forse, ad avere poco senso. Perché di solito questi testi vengono letti da chi è disposto a comportarsi come un genitore verso un bambino che piange per un ginocchio sbucciato, anziché come un interlocutore paritario in una discussione sulle narrazioni, concedendo da subito al partner il diritto di parlare, il diritto di sapere di più, di essere superiore e più saggio, riconoscendo che le proprie narrazioni potrebbero essere irrilevanti, che non si può sapere tutto.


Qui ci sarebbe dovuto essere un paragrafo rassicurante su come non sia poi così tutto negativo e su come, in realtà, esistano molti spazi in cui si possa condurre un confronto equo. Ma in questo momento è stata di nuovo interrotta l’energia elettrica, perché i russi hanno distrutto quasi tutta l’infrastruttura energetica civile nel paese più grande d’Europa. E al buio si trova meglio un’intesa con chi parla in modo diretto, non ha paura di ammettere i propri errori ed è pronto a resistere a una tirannia genocida. E difficilmente ti verrà voglia di scrivere un buon testo al buio, con il telefono quasi scarico. E non è una questione di trauma emotivo, ma la realtà delle cose.


Viviamo immersi in una quotidiana crudeltà senza precedenti, dove l’orizzonte è così basso che intravedere una prospettiva a una settimana di distanza è già un privilegio. Vorrei semplicemente augurarci di diventare più sensibili e onesti perché questo infastidisce gli imperi. Un consiglio efficace, però, solo se si è pronti ad affrontare una bestia feroce, anche in sé stessi.

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