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(di Marina-Majja Govzman)
26 ottobre 2024
ore 11:38
Attualmente, in Russia, più di 1.300 persone sono private della libertà per motivi politici. Intorno a loro si formano comunità di parenti e amici, sostenitori e attivisti, che cercano di sfondare il vuoto carcerario. Raccolgono fondi per avvocati e pacchi di beni essenziali, ma riescono anche a procurare una rara edizione della Bibbia, a salvare un gattino dal centro di detenzione preventiva, a sparare dei fuochi d’artificio sotto le finestre della cella d’isolamento e a informare la società civile sulle torture. Di tutto questo, ma anche del burnout e della stanchezza dovuti a questo tipo di lavoro gratuito, è trattato nel testo di OVD-Info.
“Una persona non deve perdere l’agentività“
Liza ha ventitré anni. Vive a San Pietroburgo, ha i capelli corti e chiari, i dilatatori ai lobi e occhi scuri ed espressivi. In questo momento, è accovacciata a terra e sta impacchettando alimenti per Paša Sinel’nikov, detenuto da più di un anno per il caso “Vesna”. Paša si trova in uno dei più noti centri di detenzione preventiva della Russia, il SIZO n. 1 “Kresty”.
Nei sacchetti finiscono verdura e frutta, confezioni colorate di noodles istantanei, cracker, formaggio, barrette di cioccolato, cereali, dentifricio e sapone. Bisogna fare in tempo a compilare moduli e inventari. All’alba Liza si recherà a Kolpino, dove si trova “Kresty”. Lo fa più volte al mese.
Liza e Paša si sono conosciuti dopo il suo arresto e ora attendono l’autorizzazione del giudice per sposarsi. Si tratta di uno dei pochi modi per sostenere una persona in prigione: le visite in carcere sono permesse solo all’avvocato e ai parenti stretti; per gli amici e i partner è impossibile ottenere il permesso di vedere il detenuto. Del resto, i condannati per motivi politici spesso vengono privati anche delle visite a cui hanno diritto per legge.
Molto tempo prima di tutto questo, Liza aveva fatto amicizia con [un altro imputato del caso “Vesna”] Ženja Zateev e sua moglie Lina. Liza brontola ancora ricordando la leggerezza con cui Ženja reagiva agli avvertimenti degli amici su un suo possibile arresto e come non sia fuggito dal paese. Ora Ženja, come Paša, è detenuto nel centro di detenzione “Kresty” di San Pietroburgo.
“Capisci, per un anno intero gli abbiamo detto: ‘Ženja, te ne devi andare. Finirai in prigione!’”, si dispera Liza.
Un anno prima dell’arresto, a Zateev erano già stati imposti alcuni divieti: non poteva uscire di casa di notte, né usare Internet, né partecipare a riunioni e parlare con i suoi compagni. Per tutto questo tempo, gli amici lo hanno implorato di andarsene. Lui ha sempre rifiutato, categorico.
“Tutti ci preparavamo lentamente, tutti tranne lui. Era convinto che sarebbe andato tutto bene!”, si infuria Liza. “Forse sperava in una sospensione della pena, ma sapevamo perfettamente che non sarebbe successo. Chiedeva continuamente a Lina: ‘Perché leggi libri sulle prigioni? Perché studi tutte quelle cose?’ – E che cavolo, Ženja, come te lo devo spiegare più chiaramente?! Alla fine quelle conoscenze ci sono servite, perché è stato arrestato.”
Ženja non voleva lasciare sua nonna, alla quale era molto legato. Natalija Veniaminovna è morta a gennaio di quest’anno, quando il nipote era già in carcere. La madre di Ženja è morta il 22 maggio per insufficienza cardiaca. Aveva 53 anni.
Zateev e Sinel’nikov, insieme ad altri imputati del caso “Vesna”, sono stati arrestati il 6 giugno dello scorso anno.
“Tutti gli imputati avevano amici che sono diventati i loro gruppi di supporto, ma Anja Archipova e Paša non avevano nessuno, perché lei è di Novosibirsk e lui di Barnaul,” spiega Liza. “Una nostra amica di Mosca ha preso Anja sotto la sua ala, e io mi sono occupata di Paša. Postare, fare posizionamento sui social, presentarli su Internet: tutte le azioni per la campagna di supporto le coordiniamo con loro. Una persona non deve perdere la sua agentività, in prigione.”
“Lavorare per sentirsi vicini”
“In realtà, potresti tirarti indietro, dire che semplicemente non vuoi occupartene”, dice Liza. “Ma io non avevo questa opzione: per un intero anno ci siamo preparati al fatto che Ženja potesse finire in prigione, e alla fine è successo. Non potevo abbandonarlo, sapevo che lo avrei aiutato. Poi è arrivato anche Paša, che aveva bisogno di supporto, e mi sono fatta carico anche di questo”.
Tutti i protagonisti di questa storia, sia coloro che avevano già aiutato i prigionieri politici, sia quelli per i quali l’arresto di una persona cara è stato il primo contatto con il sistema penitenziario, concordano su una cosa: non hanno mai considerato l’opzione di “tirarsi indietro”. Il sostegno a un amico o a un parente è diventato una parte della loro vita, difficile, ma imprescindibile, e per alcuni, come Saša (Aleksandra) Popova, è ora “la parte più importante “. Saša è la moglie di Artëm Kamardin, che è detenuto da due anni.
“Pensiamo continuamente a come si sente, a cosa gli sta succedendo, alla sua alimentazione e alla sua salute, ai problemi che non può risolvere”, racconta.
“Faccio in modo che abbia tutto il necessario. Ovviamente, la cosa di cui ha più bisogno è la libertà, ma quella non posso procurargliela né spedirgliela con il Servizio Penitenziario Federale (“FSIN”). Però posso esprimergli tutto il mio amore continuando a lottare per lui”.
Anche Sonja (nome cambiato su sua richiesta), ex compagna di classe e vecchia amica di Dima Ivanov, programmatore e creatore del canale Telegram “Protestnyj MGU”, dice la stessa cosa :
“Se ci si arrende e ci si dimentica [di qualcuno che è in prigione], non ci sarà più alcun rapporto stretto negli anni a venire. Come in qualsiasi relazione, bisogna lavorarci su per sentirsi vicini nonostante la distanza e l’impossibilità di stare insieme.”
Nel marzo 2023, il tribunale Timirjazevskij a Mosca ha condannato Dmitrij a otto anni e mezzo di carcere per “diffusione di fake news” sull’esercito russo (art. 207.3 del Codice penale).
“A causa delle particolarità del caso, ancora prima della condanna ho avuto modo di viaggiare parecchio: nel 2022 sono stato in sei carceri di Mosca e ho cambiato una quindicina di celle, ognuna delle quali con una vita a sé”, ha scritto Dmitrij riguardo alla sua detenzione.
Per far felice l’amico che aspettava la sentenza nel centro di detenzione preventiva, il suo gruppo di supporto ha deciso di sparare dei fuochi d’artificio in suo onore: per il compleanno e per l’anniversario dell’apertura del caso penale – date che in prigione vengono tradizionalmente celebrate. La difficoltà principale era fare in modo che Dima potesse vederli, i fuochi d’artificio.
“Di solito ordinavamo una torta o un po’ di carne, così che tutti in cella potessero festeggiare”, racconta Sonja. “Dopo il banchetto, iniziavano i fuochi d’artificio!”
Il Centro di detenzione preventiva n. 5 “Vodnik” è un edificio tetro e anonimo, con quattro piani di finestre rettangolari tutte uguali. Il gruppo di supporto doveva sapere con certezza dove si affacciavano le finestre della cella di Dima, ma non potevano chiederlo nelle lettere, poiché la richiesta sarebbe stata censurata dal Servizio Penitenziario. Così gli amici idearono dei complicati messaggi in codice. Per esempio, Dima scriveva banalmente (o così’ sembrava): “Ogni mattina nella mia cella sorge il sole” – e loro capivano che le finestre si affacciavano a est.
Tuttavia, non bastava sapere da che lato era la finestra: bisognava anche trovare un posto sicuro da cui lanciare i fuochi d’artificio senza rischiare di colpire le finestre delle case vicine. Cosa non semplice, perché attorno a “Vodnik” non ci sono terreni vuoti, ma zone industriali dove non si può lanciare nulla.
“I fuochi d’artificio sono un grande supporto dall’esterno”, dice Sonja. “È poco probabile che una lettera arrivi esattamente il giorno del compleanno o in una data precisa. Quella, invece, è una comunicazione che esula dal sistema carcerario. È qualcosa che vedi dalla finestra, che accade qui e ora, solo per te. Quando sei in prigione, tutto è rallentato e monotono, e le emozioni intense ed estemporanee sono molto rare.”
“Li definivano radicali e terroristi”
Alcuni membri dei gruppi di supporto imparano da zero a condurre campagne informative in difensa dei loro cari e a rispondere alle pubblicazioni nei canali Telegram filogovernativi o legati alle forze di sicurezza.
“Quando hanno arrestato i nostri ragazzi, eravamo terrorizzati”, racconta Inna (nome cambiato su sua richiesta), del gruppo di supporto agli imputati del ‘Caso di Tjumen’. “È stato un vero shock per i parenti, gli amici e gli stessi accusati. Avevano piani per il futuro, nessuno era pronto, non immaginava nemmeno che una cosa del genere potesse accadere.”
Nei primi giorni dopo l’arresto, secondo Inna, erano “confusi e non sapevano cosa fare”. Mentre raccoglievano le idee, iniziarono ad apparire articoli in cui una fonte anonima affermava che [l’imputato del caso] Jurij Neznamov, uno degli accusati, “stava organizzando gruppi di nazisti”.
“Li definivano radicali e terroristi e dicevano che dovevano essere incarcerati”, ricorda Inna. “Abbiamo capito subito che dovevamo smentire quell’informazione, che altrimenti avrebbe invaso lo spazio mediatico. Dovevamo urgentemente denunciare le torture e raccontare che i nostri amici erano innocenti, affinché la gente non credesse alle informazioni fornite dalle forze di sicurezza e dai loro canali.”
All’inizio, questa storia di provincia non ebbe lo stesso impatto mediatico dei casi “Set'” o “Novoe Veliie”. Inizialmente gli amici non sapevano a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Il gruppo di supporto era grande, ma nella chat molti erano in preda al panico. Fu utile il consiglio di alcuni conoscenti, difensori dei diritti umani, che furono ammessi nella chat e proposero un piano pratico d’azione: come raccogliere fondi, come diffondere informazioni, dove scrivere e con chi entrare in contatto.
“Ženja, sei deficiente?”
“Adesso rimarrai a bocca aperta!” ride Lisa, un’amica di Zateev. “Ženja ha chiesto di procurargli una lettera di intercessione del Papa! Quando era ancora sotto restrizioni, si è avvicinato al cattolicesimo, cosa che gli dà conforto ancora oggi. All’epoca avevamo un gruppo di supporto con [un altro imputato del caso ‘Vesna’] Valentin Chorošenin, che è anche lui cattolico, così come la sua fidanzata, e che avrebbe dovuto occuparsene, ma alla fine non è successo nulla.”
All’inizio dell’invasione in Ucraina, in una chiesa luterana di San Pietroburgo si celebravano messe contro la guerra. Ženja ci andava con Lina e cominciò a interessarsi alla religione, e quando finì dietro le sbarre, chiese agli amici di portargli una Bibbia cattolica.
“Noi gli dicevamo: ‘Ženja, sei deficiente o cosa? La perderai al primo trasferimento! — ricorda Lisa. — Qualcuno la userà come carta igienica!’ E poi quella Bibbia era enorme e costava quattro mila rubli. Lui rispondeva: ‘No, mi serve’. Beh, se gli serviva… Quando abbiamo provato a mandargliela nel primo pacco, ovviamente non l’hanno accettata. Di recente abbiamo riprovato e finalmente è arrivata a destinazione.”
Le ultime regole del Ministero della Giustizia consentono l’uso nelle prigioni di ebook e libri cartacei per autodidattica. Tuttavia, nella pratica, i detenuti possono essere puniti per questo. Per esempio, nel 2022 un sospettato in un centro di detenzione preventiva ordinò per posta un libro di filosofia e ricevette un pacco con l’ “Ermeneutica Cognitiva”. L’amministrazione ritenne che fosse una violazione delle regole e lo mandarono in cella di isolamento per 15 giorni.
Per far arrivare i libri ai prigionieri politici in detenzione preventiva bisogna inventarsi vari metodi.
“È stata un’epopea!” — racconta Lidija, un’amica di Vsevolod (Seva) Korolev. “Seva è un filosofo di formazione, un intellettuale per natura, e non può vivere senza libri. Nel suo appartamento la quantità di scaffali è sconvolgente, con testi su ogni ambito del sapere umanistico. Ovviamente non è abituato al fatto che l’accesso a questa conoscenza sia limitato.”
Gli amici di Seva scoprirono rapidamente che i libri non erano ammessi nei pacchi. Mandarli per posta poteva teoricamente funzionare, ma non c’erano garanzie. Così decisero di inviare per lettera pezzi di libri stampati dal computer:
“Trovavamo il libro che lui richiedeva in formato elettronico, lo stampavamo — il che spesso rendeva il libro molto più costoso — e lo dividevamo in varie buste. Massimo venti pagine per busta, o non l’avrebbero accettata. Nella chat ci accordavamo su chi stampava cosa. Spesso erano gli abbonati del canale Telegram [di sostegno a Vsevolod] a coprire tutte le spese, altre ero io che inviavo loro del denaro.”
Una volta, racconta Lidija, ci fu un episodio curioso. Seva chiese due libri di Aleksej Karpov della collana “Vite di Grandi Persone” su personaggi dell’antica Rus’: Vladimir il Santo e Jaroslav il Saggio. Una ragazza del canale si offrì di aiutare. Il testo fu stampato e inviato, ma i libri non arrivarono mai a Seva — forse perché erano dedicati alla Rus’ di Kiev.
“In pratica abbiamo speso diverse migliaia di rubli — una cifra molto superiore al costo del libro fisico — e alla fine quei fogli saranno in qualche stanza del centro di detenzione a coprirsi di polvere e marcire”, sospira Lidija.
“Un lavoraccio di merda. Burnout e stanchezza”
“Quando il primo momento di grande entusiasmo è passato, gli animi si sono raffreddati e la partecipazione attiva alla vita di Dima è diminuita. A quel punto ho capito che se non avessi fatto qualcosa io stessa, nessun altro lo avrebbe fatto”, racconta Sonja, amica di Dima Ivanov.
Quasi tutti i membri dei gruppi di supporto ai prigionieri politici concordano su una cosa: all’inizio sono molte le persone che prendono l’iniziativa e sono pronte ad aiutare, ma dopo alcuni mesi la maggior parte si tira indietro. Fra burn out e abbandono, rimangono solo i più fedeli — genitori, coniugi, fratelli, sorelle e amici più stretti.
“La cosa più frustrante è quando le persone (del gruppo di supporto) iniziano a sparire e a mollare: è una cosa che ti fa arrabbiare e ti toglie le forze,” spiega Lisa.
“Ad un certo punto, smetti di contare sugli altri e inizi a fare tutto da sola. È un lavoraccio di merda, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per tutti i 12 mesi dell’anno, e gratis. È letteralmente un lavoro a tempo pieno da cui non puoi staccarti, senza weekend o vacanze: sei costantemente in contatto con l’avvocato e il prigioniero, ti assicuri che gli arrivino le lettere, i pacchi con cibo, vestiti e sigarette, ricarichi regolarmente il conto del negozio penitenziario e prepari i pacchi da inviare.”
“La prima crisi depressiva è stata quando hanno condannato [a 14 anni di reclusione] Vladlen Men’šikov,” racconta Ljudmila Alekseevna (nome cambiato su sua richiesta), attivista di una grande città russa. “Non riesco a immaginare come sua madre e l’avvocato Valentina Vladimirovna siano riuscite a superare tutto questo: non riuscivo nemmeno a parlare con loro.”
Ljudmila Alekseevna ha 68 anni. È attivista da molti anni, e ha partecipato a “Strategia-6”, manifestazioni mensili a sostegno dei prigionieri politici. Attualmente è una delle poche persone nella sua città che presenzia regolarmente alle udienze in tribunale anche per i casi politici che non hanno avuto grande risonanza.
Ljudmila Alekseevna raccoglie e consegna regolarmente pacchi per diversi prigionieri del centro di detenzione preventiva della sua città. Dice di aver scelto un carcere in periferia, più facile da raggiungere. Per coloro che sono detenuti lontano, invia pacchi per posta, scrive lettere e rimane in contatto con i parenti di alcuni dei prigionieri che sostiene.
“Non possiamo abbandonare i detenuti,” spiega. “Recentemente la madre di Deniz [Ajdyn, imputato nel caso “Tjumen”] mi ha chiesto di andare a prendere sua nonna alla stazione e accompagnarla all’hotel. Sembrerà strano, ma per me è stato il secondo duro colpo. Il treno è arrivato intorno alle sei del mattino, e io ero in piedi dalle tre: mi sono preparata, sono andata lì, ho cercato il treno, ho controllato dove sarebbe arrivato. Tutto a posto. I passeggeri sono scesi tutti, ma lei no! Sono andata dal controllore e mi ha detto che non c’era! Com’era possibile?! Si è scoperto che la nonna si era addormentata nel posto sbagliato e stava ancora dormendo.
Inoltre, il suo telefono non funzionava, quindi non riuscivo a chiamarla, e lei non poteva contattare sua figlia. Alla fine, siamo uscite sulla piazza della stazione, ho chiamato un taxi e siamo arrivate all’hotel, ma apriva solo alle undici! Nessun cartello, nessuna indicazione, solo porte di ferro chiuse. Ho chiamato la madre di Deniz, e ho scoperto che avrei dovuto lasciare la nonna da sola in una città straniera fino alle due del pomeriggio, quando sarebbe iniziato il processo del nipote. Ero sotto shock!”
I parenti di Ljudmila Alekseevna non la sostengono nel suo attivismo civico. La storia della nonna di Deniz Ajdyn l’ha profondamente colpita. È rimasta chiusa in casa per due giorni, dormendo quasi tutto il tempo.
“Mi sono arresa ,” ricorda. “Non volevo fare nulla, né uscire di casa, né andare agli eventi per scrivere lettere ai prigionieri politici, né alle udienze in tribunale. Ma non potevo permettermelo troppo a lungo: mio padre ha 94 anni, devo andare da lui mattina e sera per cucinare, pulire. Anche se io non ho voglia di mangiare, gli altri sì. Insomma, pian piano bisogna riprendere a fare le cose. Per me, sostenere i prigionieri politici significa sostenere persone care. Spesso li spediscono lontano da casa, e i loro familiari non possono aiutarli. Non c’è tempo per curare i propri nervi: guariranno da soli.”
“La detenzione costa cara”
afferma Inna, amica degli imputati del “caso Tjumen’”.
“Parlare del caso e fare i nomi degli agenti coinvolti nelle torture è un buon modo per contrastare l’impunità nei centri di detenzione preventiva e nelle colonie, soprattutto durante il processo, quando tutti cercano di ottenere confessioni degli imputati. Rendere tutto pubblico: funziona.”
Secondo Sonja, amica di Dima Ivanov, l’attenzione pubblica sul caso influisce anche sul sostegno economico, poiché mantenere un prigioniero politico comporta spese elevate.
“La detenzione è costosa,” conferma Saša Popova. “Per mantenere una persona in condizioni decenti in un centro di detenzione preventiva servono circa 40.000 rubli al mese: cibo, sigarette, beni di prima necessità. La cifra include anche il ‘fondo comune’, poiché spesso bisogna comprare cibo non solo per il proprio detenuto, ma anche per gli altri compagni di cella. Artëm, per esempio, è stato per diversi mesi in un blocco speciale insieme a persone che non ricevevano cibo da fuori. Qualsiasi cibo che arrivava in cella veniva diviso in quattro parti uguali, e affinché Artëm potesse mangiare e non solo annusare il cibo, ne mandavamo per tutti.”
Esistono dei negozi nelle carceri dove i detenuti, se hanno soldi sul proprio conto, possono ordinare un numero limitato di prodotti. Tuttavia, spesso gli articoli disponibili sono solo tè, caffè e sigarette. A volte bisogna aspettare settimane per ordinare qualcosa.
Per esempio, gli attacchi hacker dopo l’assassinio di Aleksej Naval’nyj hanno mandato offline il sito del negozio del sistema penitenziario per diverse settimane.
Per chi è detenuto a Mosca le possibilità aumentano: lì si può ordinare del cibo pronto per date specifiche.
Un’altra voce di spesa è l’assistenza legale. Cui vanno aggiunti i costi per i viaggi degli avvocati in altre città per partecipare ai processi e incontrare gli imputati.
“Sono somme astronomiche,” dice Inna. “Abbiamo quattro imputati, inizialmente erano sei, e ciascuno ha bisogno di un buon avvocato a cui dobbiamo pagare i viaggi a Tjumen’. Inoltre, bisogna fornire ai ragazzi tutto ciò di cui hanno bisogno nel centro di detenzione preventiva. Solo nel primo mese abbiamo speso circa un milione di rubli per i sei imputati.”
Ora sono iniziati i processi e la questione del denaro è tornata a essere urgente: bisogna pagare la partecipazione degli avvocati alle udienze, oltre alle spese di viaggio. Grossi onorari a parte, servono in media 300.000 rubli al mese, ma con le spese processuali si arriva a circa 700.000 rubli al mese per tutti gli imputati.”
Di gatti e “mogli sotto copertura”
Col tempo, i detenuti e i loro cari si adattano a vivere secondo le nuove regole. Per mantenere i contatti con i compagni e i familiari, i membri dei gruppi di supporto devono essere ingegnosi. Inna racconta che le mogli di due imputati del “caso Tjumen’” siano riuscite a ottenere l’accredito di una testata giornalistica, e per un anno intero hanno partecipato ai processi come rappresentanti dei media: intervistavano i ragazzi, li filmavano e facevano domande.
“Il pubblico ministero impazziva appena le vedeva in aula,” dice Inna. “Voleva che i ragazzi venissero condannati in silenzio e in fretta. Durante i processi, le fissava sempre, ma non poteva fare nulla: avevano i permessi necessari, e il giudice sapeva della loro presenza e l’aveva persino approvata. Nessuno sapeva che fossero le loro mogli. Il tribunale le convocava persino, le “mogli”, che però, guarda un po’, non si presentavano…
Solo dopo un anno il pubblico ministero ha scoperto che quelle donne erano proprio le mogli che aveva chiamato per l’interrogatorio. Durante un’udienza, il giudice esaminò attentamente passaporti e accrediti, probabilmente confrontandoli con i documenti del caso che riportavano i cognomi dei familiari. E chiese loro quale fosse la loro relazione con gli imputati.
Le mogli ammisero onestamente la verità, ma chiarirono che erano presenti in aula non come parenti, ma per svolgere la loro attività professionale, in piena conformità con la legge. A detta di Inna, il pubblico ministero si girò verso di loro stupito ed esclamò: “Cioè eravate voi tutto il tempo?!”
In prigione, le persone consolidano dei rituali che li aiutano a mantenere la percezione di una vita normale. A volte nelle carceri vivono dei gatti, e alcuni detenuti li portano con sé in cella. I detenuti si affezionano, e scherzano: anche il gatto, dicono è un prigioniero, solo che ha l’ergastolo. Tuttavia, quando un detenuto viene trasferito dopo la condanna e non può portare animali con sé, separarsi da un amico a quattro zampe può essere molto difficile.
Ad attendere fuori dalla prigione Paša Krisevič ci sono la moglie Lena e la gatta Musja, che viveva con lui in cella ed è ora libera grazie al suo gruppo di supporto. Paša scriveva che Musja era “nata in prigione e, da vera gatta, negava in modo felino la prigione intorno a lei”. Raccontava anche che le piacevano le palline del rosario e che le rincorreva sul pavimento, che “mordeva le gambe ai compagni di cella quand’erano stesi, e una volta aveva tentato di tirare fuori il tappo per le orecchie al vicino di branda.”
“Paša voleva da tempo un gattino,” racconta Lena, “diceva che se non lo avessero rilasciato al riesame del caso da parte del tribunale Tverskoj, avrebbe preso un micio. Ma la gattina arrivò prima. Paša aveva un amico in un’altra cella con una gattina – Musja, appunto – e spesso ne parlava quando si incrociavano. Un giorno accadde un miracolo: l’amico e Musja furono trasferiti nella cella di Paša. Dopo un po’, lui fu mandato a un’altra prigione, e Paša si prese cura della gattina. Diceva che Musja aveva quasi dimenticato a camminare, dato che tutti la portavano in braccio!”
Il 18 ottobre 2022, il tribunale Tverskoj di Mosca condannò Krisevič a cinque anni di colonia per una performance-suicidio sulla Piazza Rossa. Potevano trasferirlo in qualsiasi momento, Musja stava crescendo, e in prigione era pratica comune sloggiare i gatti adulti dalle celle al corridoio. Gli amici, e Paša con loro, erano preoccupati che non ci sarebbe stato nessuno a prendersi cura di Musja, e la sua sopravvivenza nel corridoio era incerta. Paša parlava spesso di Musja nelle sue lettere e si era molto affezionato a lei. Anche Lena si era affezionata alla gattina, e un giorno il gruppo di supporto decise di portare di nascosto Musja fuori dalla prigione.
“Purtroppo, non posso raccontare i dettagli di questa operazione,” dice Lena. “Posso solo dire che persone buone e umane esistono ovunque. Ho la prima foto di Musja in libertà, dove è tra le mie braccia e guarda il mondo con occhi sbalorditi. Con Paša scherzavamo, dicendo che anche lui avrebbe guardato il mondo con gli stessi occhi, quando sarebbe uscito.”
Dopo che Musja fu liberata, Paša scrisse che la cella sembrava vuota senza di lei e che si sentiva molto la sua mancanza. Qualche settimana dopo, scrisse a Lena di aver cucito una Musja di peluche e le regalò il giocattolo per Capodanno. La vera Musja ora vive con un’amica di Lena e, secondo Lena, tutti aspettano con ansia il momento in cui Paša sarà liberato e potrà incontrarla di nuovo.
I detenuti trovano conforto anche nei loro rituali, come cucinare. Saša Skočilenko raccontava ai suoi amici delle ricette che preparava in carcere: le chiamava “Il libro di cucina del pacifista.” Per i suoi compleanni, gli amici le portavano delle basi per torte: non era permesso consegnare una torta alla crema senza glutine, ma la base da completare sì. I detenuti preparavano la crema con i mezzi disponibili: caramello liquido, latte condensato, marmellate.
“Per esempio, preparano panini caldi,” racconta Leša, amico di Saša. “In cella c’è solo un bollitore e una resistenza. Quando vogliono fare un panino caldo con pane senza glutine, formaggio e pomodori, procedono così: prendono una bacinella di metallo, riscaldano l’acqua con la resistenza, avvolgono il panino in un sacchetto di plastica e lo immergono nell’acqua bollente, così si scalda senza inzupparsi. Nella haute cuisine francese, questa tecnica si chiama “sous-vide”. La si può trovare nei ristoranti stellati Michelin o nel centro di detenzione preventiva n. 5.”
***
Al momento, Lisa sta preparando merchandising per aiutare Paša Sinel’nikov; quello per Ženja Zateev è già in vendita. Dice che aiutare i prigionieri politici la fa sentire utile. Prima del 24 febbraio 2024 si interessava poco alla politica, nella sua famiglia non si discuteva dell’attualità, ma con l’inizio della guerra ha iniziato a partecipare alle manifestazioni; lei e Lina, la moglie di Zateev, sono state arrestate insieme a una delle prime proteste contro la guerra.
Lisa ora crede che sostenere i prigionieri politici sia un modo per esprimersi in Russia, dove ormai è quasi impossibile farlo.
Alla fine della nostra conversazione, ricorda che chi, come Ženja Zateev, ha ammesso la propria colpa, riceve molto meno sostegno. “Ma ammettere la propria colpa non significa affatto tradire i compagni gli altri o scendere a patti con le autorità. Anche queste persone vanno sostenute. È importante”.
È possibile aiutare ogni prigioniero politico menzionato in questo articolo: