Tra sconforto e speranza, 89 famiglie della regione di Kyiv aspettano i loro cari fatti prigionieri. L’associazione “I nostri parenti più cari” cerca di tenere alta l’attenzione sul problema dei civili catturati e tenuti prigionieri dai russi, che hanno uno status diverso da quello dei soldati. I parenti di questi civili si fanno coraggio e organizzano attività per far sì che non siano dimenticati.
Andrij Didenko ha intervistato due rappresentanti dell’associazione “I nostri parenti più cari”, Hanna Muštukova e Ol’ha Manuchina. L’intervista è stata realizzata per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”). È possibile guardare il video in lingua originale coi sottotitoli in italiano nel canale YouTube di Memorial Italia.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti e altri collaboratori di Memorial Italia.
24.08.2024
Andrij Didenko, Emilija Prytkina
Perché il diritto umanitario internazionale risulta impotente quanto alla liberazione di civili tenuti in ostaggio? Le loro famiglie vengono aiutate in qualche modo dalle organizzazioni nazionali e internazionali? Come non perdere la speranza? Sono alcuni dei temi affrontati nell’intervista alle rappresentanti del Gruppo di iniziativa “I nostri parenti più cari”.
Hanna Muštukova e Ol’ha Manuchina sono le coordinatrici del Gruppo di iniziativa “I nostri parenti più cari”, che riunisce 89 famiglie della regione di Kyiv. Già da due anni e mezzo mogli, figli e genitori aspettano il ritorno dei loro cari fatti prigionieri. Nel caso di Hanna si tratta del marito; per Ol’ha, del marito e del figlio, che durante la prigionia ha compiuto 22 anni.
I russi hanno catturato molti civili all’inizio dell’invasione su larga scala, quando avanzavano rapidamente nella regione di Kyiv. Nella sola comunità territoriale di Dymer sono state rapite 42 persone. Ancora più civili sono stati portati via durante la ritirata. A luglio del 2022 il sito di notizie Slidstvo ha scritto che a fine marzo, durante la ritirata verso Russia e Belarus’, l’esercito russo aveva rapito civili ucraini usandoli come scudi umani a beneficio di uomini e materiali.
“Sono tutti civili! Mica lavorano per le forze armate. Sono muratori, cuochi, autisti, manager… Mio marito non ha nemmeno fatto il servizio militare” – dice Hanna Muštukova. “Mio marito e mio figlio neanche hanno il foglio matricolare” – aggiunge Ol’ha Manuchina.
Ma quella di rapire i civili, come hanno fatto i russi nei territori temporaneamente occupati, non è una pratica nuova.
“La brutalità plateale verso alcuni civili per intimorire il resto della popolazione è una politica tipica degli occupanti, in uso già da un decennio” ha ricordato Oleksandr Pavličenko, direttore esecutivo dell’Unione ucraina per i diritti umani di Helsinki, durante una tavola rotonda tenutasi presso l’Ukraine Crisis Media Center [Centro media per la crisi in Ucraina].
Da oltre due anni, per le due signore ogni mattina che inizia è drammaticamente simile a quelle già trascorse. Si scambiano un breve saluto, comunicano con altre associazioni, progettano eventi e, instancabili, chiedono aiuto a enti governativi e internazionali.
“In realtà non è neanche la mattina: andiamo avanti ventiquattr’ore su ventiquattro. Senza dormire. Senza respiro o quasi. Tra lo stress, gli scatti di nervi, le crisi di pianto, l’attesa… Appena sentiamo parlare di uno scambio di prigionieri… A stare in ansia non siamo solo noi, ma tutti quelli che hanno parenti catturati”.
Hanna Muštukova trattiene a stento le lacrime.
“Scriviamo allo Stato maggiore, al Ministero per la reintegrazione, ai nostri deputati… Ci siamo rivolti a Kyrylo Budanov [capo dell’intelligence del Ministero della difesa ucraino – N.d.T.]. Le proviamo davvero tutte… Abbiamo anche organizzato un evento nel parco Ševčenko. Abbiamo anche avuto modo di parlare a tu per tu con Lubinec’ [responsabile per i diritti umani presso la Rada – N.d.T.]. Ogni donna vuole che il suo compagno torni presto, ogni madre non vede l’ora che il figlio ricompaia. I nostri figli vogliono rivedere i padri. Una donna della nostra associazione si è addirittura inginocchiata, davanti a certe autorità. È tutta gente che ha contatti a livello internazionale. Vogliamo che si rendano conto di quanto soffriamo e della perdita che abbiamo subito” – spiega Ol’ha Manuchina.
Purtroppo finora non hanno ottenuto i risultati che speravano. Dall’inizio dell’invasione su larga scala sono riuscite a far liberare soltanto due abitanti della loro comunità territoriale. E uno di loro è morto dopo il ritorno a casa.
Le donne sanno dove sono rinchiusi tutti i prigionieri, ma non hanno voluto rivelare le fonti di queste informazioni. E saperlo non facilita comunque la comunicazione: non c’è alcuna possibilità di scriversi né di mandare pacchi. Un’unica volta – alla fine di agosto del 2022 – sono arrivati brevi messaggi.
Il diritto internazionale proibisce di catturare civili. Come ha osservato Artur Dobroserdov, responsabile del Ministero dell’interno per le persone scomparse in circostanze eccezionali: “Gli ostaggi civili o chi viene privato della libertà non possono essere oggetto di scambi. Questo perché, secondo il diritto umanitario internazionale, non possono esserci ostaggi civili. E se ce ne sono, vanno liberati”.
Di liberarli, chiaramente, non si parla affatto. Alcuni prigionieri non vengono registrati con il proprio nome, vengono trasferiti appositamente da un posto all’altro per complicare le ricerche, oppure vengono incasellati nello status illecito di “persone che si sono opposte all’operazione militare speciale”; ancora, vengono trattenuti senza la minima accusa formale o sottoposti a processi farsa per crimini di guerra.
Hanna Muštukova dice di aver visto sui canali Telegram russi le foto di quasi tutti i prigionieri che abitavano nella loro comunità territoriale. Sotto alcune foto la didascalia li qualificava come prigionieri di guerra. Quando Muštukova ha chiesto ufficialmente spiegazioni, le è stato detto che la Russia non ha intentato alcun processo penale a carico di civili della regione di Kyiv.
“I nostri parenti sono del tutto indifesi. I militari certi diritti li hanno, e lo stato in qualche modo li protegge. Ma anche i nostri cari sono esseri umani e cittadini ucraini. E di fatto i civili subiscono le stesse torture inflitte ai militari” – dice Ol’ha Manuchina.
Ricordiamo che il Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv ha creato una linea verde dedicata a persone scomparse o fatte prigioniere, civili o militari che siano. Negli anni in cui la linea verde è stata attiva, il 30% delle persone segnalate è stato rintracciato.
Intervista: Andrij Didenko.
Montaggio: Artem Nečajev.
Articolo: Emilija Prytkina.