Andrij Halavin, arciprete: “Finché non chiameremo il male col suo nome, non vedo come sarà possibile riconciliarsi”

L’arciprete Andrij Halavin prestava il suo servizio a Buča, quando l’esercito russo l’ha occupata. I suoi occhi hanno assistito alle operazioni di riesumazione dei cadaveri, dopo la cacciata dei russi. Oggi accanto alla chiesa dove ufficiava si trova un memoriale a ricordo proprio di quelle vittime.

L’arciprete Andrij Halavin prestava il suo servizio a Buča, quando l’esercito russo l’ha occupata. I suoi occhi hanno assistito alle operazioni di riesumazione dei cadaveri, dopo la cacciata dei russi. Oggi accanto alla chiesa dove ufficiava si trova un memoriale a ricordo proprio di quelle vittime. Dare a ciascuno un nome e cognome è un’impresa ardua e che sembra non avere fine, a causa delle condizioni dei corpi, rimasti insepolti per molto tempo o bruciati dagli invasori. È indispensabile raccogliere le prove di questi massacri, sia per dare una certezza ai parenti degli uccisi, sia per dovere di giustizia.
Andrij Halavin ha rilasciato un’intervista ad Andrij Didenko per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).

Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.

Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti e altri collaboratori di Memorial Italia.

Andrij Didenko

23.10.2023

La fossa comune presso la Chiesa di Sant’Andrea Protocleto a Buča è l’ultimo rifugio degli ucraini morti a causa dell’aggressione russa. Al momento vi si trova un’installazione con i nomi di circa 500 vittime innocenti. Come si può superare la discordia e l’odio, ed è possibile superarli? Ne parliamo con il parroco, l’arciprete Andrij Halavin.

Purtroppo non è ancora venuto il momento di tirare le somme. La guerra non è finita, non abbiamo ancora vinto. Al fronte si continua a morire. A Buča le vittime sono tante: chi ha perso la casa, chi i propri cari, chi è stato costretto a riparare all’estero. E tanti sono anche i modi in cui le persone si rimettono in sesto. Per qualcuno è più facile, per altri è decisamente più complicato. Molti nostri connazionali stanno combattendo al fronte. Qui restano le donne, i bambini, le madri. Gli uomini combattono al fronte e, purtroppo, ogni mese abbiamo nuovi morti e nuovi eroi.

Sono stato qui fino a metà marzo, più o meno. Ho celebrato io i primi funerali, quando ancora c’era la fossa comune.

Poi i russi hanno iniziato ad andare di porta in porta: pare che avessero una specie di lista. Da qualcuno sono arrivati prima, da altri dopo. Io non potevo celebrare, né potevo dire alla gente di venire in chiesa: era pericoloso, i russi sparavano e uccidevano. Li vede i buchi sui muri della chiesa: non c’era modo di celebrare le funzioni. Però nemmeno potevo starmene in cantina. Lì o altrove, poco cambiava. Per questo me ne sono andato da Buča. Mentre ero qui, invece, o restavo a casa o dormivo dentro la chiesa.

L’arciprete Andrij Galavin, parroco della chiesa di Sant’Andrea Protocleto a Buča.
Foto di Andrij Didenko per ChPG.

All’inizio i russi ancora si fingevano “gentili”, ma quando abbiamo saputo tutto quello che era successo in città, siamo rimasti scioccati. Il punto è che prima ci si nascondeva tutti negli scantinati e non c’era modo di spostarsi fra i quartieri. I corpi di chi è stato poi sepolto qua, vicino alla chiesa, di quelle 116 persone, erano tutti o all’obitorio o qua intorno.

I cadaveri di via Jabluns’ka non c’è stato modo di recuperarli, per esempio. I corpi potevano anche restare in strada per un mese. Nessuno riusciva a seppellirli.

Le persone che vivevano là non sapevano che noi, qui, avevamo una fossa comune. E noi non sapevamo cosa succedeva da loro. Solo quando ci hanno liberato abbiamo visto le atrocità commesse dai russi. Ed è stato uno shock.

In via Ivan Franko abitava un cantore del coro della nostra chiesa. A un certo punto non ne abbiamo saputo più nulla. Dopo che ci hanno liberato abbiamo iniziato le ricerche. Abbiamo scoperto che lui, la sua famiglia e altre due persone erano state torturate a tal punto, che alcuni ci avevano rimesso le gambe. Poi gli avevano dato fuoco. I corpi erano carbonizzati, ci sono voluti diversi mesi per i risultati dei test del DNA che confermassero legalmente il decesso. Li abbiamo identificati da alcuni segni particolari, ma ciò che contava, per noi, non erano i sentimenti, non era capire, ma che in futuro sia possibile mostrare le prove ai colpevoli in tribunale, in quel processo che prima o poi si terrà.

Prima o poi qui ci sarà un grande memoriale. Quello che abbiamo ora è provvisorio. Non possiamo dimenticarle, queste persone. Ora c’è giusto una croce commemorativa dove veniamo a pregare. Di recente abbiamo creato un’installazione con i nomi di chi è morto a Buča e nei dintorni, nella nostra comunità. Sono circa cinquecento. Tutta gente che conosciamo. Accanto ad alcuni manca la data esatta della morte. È qualcuno che è stato ucciso, ma senza testimoni. Possiamo solo ipotizzare quando è successo. È tutta gente del posto.

Quando Lavrov si appella alle Nazioni Unite e dice: “vogliamo i nomi!”, può venire qui da noi: eccoli, si accomodi pure.

Foto di Andrij Didenko per ChPG

Personalmente non ho documentato nulla. Ho le chiavi della chiesa che ha accanto il memoriale. Apro al mattino e chiudo alla sera. I miei occhi hanno visto molto, però. Le esumazioni che venivano a fare. I procuratori della Corte Penale Internazionale sono venuti qui con il loro laboratorio per le analisi del DNA e i loro test rapidi ci hanno aiutato molto. Da noi l’attesa sarebbe molto più lunga. L’ho visto, come funziona. Per questo siamo molto grati per l’aiuto che ci hanno dato. Chiunque cercava parenti e amici poteva consegnare il proprio DNA e dopo un po’ di tempo (da sei mesi a un anno), se si fosse trovato un corpo – di qualcuno ammazzato dai russi, sepolto in un garage, in una cantina o nel bosco – ci sarebbe stato modo di sapere chi era con il DNA.

Gli scomparsi sono diverse decine. Devono essere da qualche parte, lo sappiamo. Alcuni li hanno rintracciati in Russia. Si tratta di civili che non hanno nulla a che fare con l’esercito e la guerra. Ma sono in carcere in Russia. Di altri, invece, non sappiamo proprio nulla. Ed è verosimile che, purtroppo, il numero dei morti aumenti. Per questo abbiamo lasciato delle targhette vuote. Per aggiungere i dati di altri civili, se sarà necessario.

Ci sono casi di gente non riconosciuta e poi identificata in un secondo momento?

Sì. Ho già citato il nostro cantore. Nel suo caso il problema era che gli unici parenti a cui prelevare il DNA erano quelli per parte di madre. Madre, padre, figlio, zio. La zia del cantante fece il test e così identificammo sua madre. Poi furono fatti dei test comparativi per identificare anche il figlio. E dal figlio sono arrivati al padre. Ci sono voluti diversi mesi prima che tutti questi test ed esami fossero completati. Dunque, intanto, li abbiamo sepolti come “non identificat””. Sapevamo dove era sepolto ciascuno di loro, e quando è stato il momento, li abbiamo potuti seppellire di nuovo insieme come un’unica famiglia, coi loro nomi. I risultati dei test arrivano di continuo. I parenti delle persone coinvolte magari sono all’estero. Se tornano, è possibile prelevare anche a loro il DNA, così altri non identificati dopo un po’ troveranno un nome. È capitato diverse volte.

Le targhe vicino alla Chiesa di Sant’Andrea a Buča. Foto di Andrij Didenko per ChPG

La lunga storia comune di Ucraina e Russia, un tempo detti popoli-fratelli, sembrava indicare che fossero una cosa sola. Ora la discordia, l’odio, l’ostilità sono tali, che… Quello che dicevamo popolo-fratello ci ha attaccato, e le tracce della distruzione le vediamo anche sulla chiesa.

Come si può superare questo odio, questa discordia? Ed è possibile superarli? Quanto ci vorrà per riconciliare i due paesi?

La storia ci dice che è possibile, in teoria. La seconda guerra mondiale è un esempio lampante. All’epoca fu la Germania nazista ad attaccarci. Ora la Germania è uno dei paesi che ci sostiene. Anche io ho parlato con i giornalisti e le delegazioni ufficiali che sono venute qui. Non abbiamo barriere né rivendicazioni verso i tedeschi. I discendenti, i nipoti di chi era venuto a occuparci non hanno avuto nulla a che spartire con quella guerra, ma comunque soffrono ancora per quanto è successo e si sentono responsabili. Per loro è importante che non accada mai più.

L’arciprete Andrij Halavin. Foto di Andrii Didenko per ChPG

Quando i criminali vengono puniti, quando il male viene chiamato col suo nome, quando chi ha commesso dei crimini si pente e chiede perdono, la strada della riconciliazione è aperta.

Forse ci vorrà qualche decennio. Comunque, finora nelle relazioni con la Russia la situazione è molto diversa. Nessuno intende pentirsi. Nessuno intende ammettere i propri crimini. Al contrario, dicono che potrebbero reiterarli. E accusano noi di essere fascisti e di altre assurdità. Pertanto, finché non si arriverà in tribunale, finché i colpevoli non saranno puniti, finché il male non sarà chiamato col suo nome, non vedo come sarà possibile riconciliarsi.

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