Matvij Vajsberh è un pittore ucraino che ha creato le illustrazioni per il libro Voci dalla guerra. Mariupol’, pubblicato nel 2023 a cura del Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv. L’invasione su vasta scala lo ha spinto a lavorare con un’intensità e un’alacrità che raramente aveva sperimentato prima, dipingendo quadri e murales, organizzando aste e iniziative di beneficenza. Tutta la sua produzione artistica di questo periodo ritrae in un modo o nell’altro la guerra, per quanto lontano da essa possa apparire il soggetto rappresentato.
Nell’intervista realizzata da Denys Volocha, Matvij Vajsberh ha ribadito l’importanza di far conoscere l’arte ucraina all’estero, affinché l’Ucraina possa essere riconosciuta come soggetto e apprezzata. La conversazione fa parte del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).
Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti e altri collaboratori di Memorial Italia.
Denys Volocha
05.09.2023
I quadri di Matvij Vajsberh sono stati scelti per illustrare il nostro nuovo libro su Mariupol’ [si tratta del libro curato da Denys Volocha e altri dal titolo Holosy vijny. Mariupol’ (Voci dalla guerra. Mariupol’, 2023), che raccoglie ventiquattro interviste ad abitanti di Mariupol’ realizzate all’interno del progetto “Voci dalla guerra”]. Vajsberh ci racconta che la guerra è stato il suo periodo più produttivo, critica lo spazio urbano e ritiene che bisognerebbe fare di più per promuovere l’arte contemporanea ucraina nel mondo.
Che cosa significa per lei il libro Voci dalla guerra. Mariupol’?
È un libro importante per me come persona e come ucraino, perché la storia di Mariupol’ è la nostra storia. Ed è una storia che fa male. Le nostre reazioni non possono essere quelle di chi ci abitava, lo capisco. Ma ricordo come ho reagito io: ai fatti di Mariupol’ ho dedicato un’intera serie di opere intitolata La sottile linea rossa. Dal 24 febbraio non passa giorno in cui non succeda qualcosa. E questo, credo, è il mio piccolo contributo alla causa comune. La gente di cui sono state raccolte le voci nel libro (che ho letto) io l’ho vista. È tremendo, davvero.
Che effetto ha avuto la guerra sulla sua produzione artistica?
La guerra ha influenzato in tutto la mia opera. Mi sono messo a dipingere subito, dall’inizio di marzo dell’anno scorso [il 2022]. Non tutti ci sono riusciti, perché ciascuno ha i nervi che si ritrova. Io i miei li conosco bene dal 2014, li avevo già testati quando avevo dipinto Muro, cioè il muro del Majdan. Mi sono messo a dipingere e basta. È così che mi sono salvato. Mi ha salvato il mio “Diario di strada”. Ma anche la gente, o almeno così mi è sembrato, aspettava queste mie opere. Per qualcuno sono state importanti, me l’hanno detto. È stato un lavoro logorante: ogni giorno dipingevo qualcosa, e anche se era un albero, la guerra ci entrava sempre.
Non mi sembra di aver mai sgobbato tanto come in questi ultimi 512-513 giorni, fra opere nuove e mostre. Ho organizzato anche aste, iniziative di beneficenza e via dicendo. Forse solo da giovane lavoravo così tanto. Ho fatto davvero cose incredibili: per esempio, la mostra del “Diario” al ministero della Giustizia dell’Aja. Ma ce ne sono state tante, neanche saprei elencarle tutte. Ho fatto enormi murales a Babyn Jar. Forse ne ha visto qualcuno? “L’angelo delle ZSU”, “Menorah” e tanti altri. Sono usciti alcuni libri. È uscito il “Diario di strada”, poi il vostro libro [Voci dalla guerra. Mariupol’]. Dovrebbe uscire ancora qualcos’altro. C’è chi li usa, dunque vuol dire che a qualcosa servo e sono utile. Va da sé che è tutto (o quasi) volontariato.
C’è stata alla Biennale di Venezia una mostra particolarissima di “pittori che dipingono dopo il 24 febbraio”. Chiaramente hanno partecipato solo gli eletti di una cerchia esclusiva di cui io non faccio parte. Ma erano comunque opere sulla guerra e su quanto ci è successo.
Gli artisti reagiscono agli eventi drammatici ciascuno a modo proprio. Alcuni cadono in una sorta di depressione…
Guardi, io non punto mai il dito su nessuno. Ognuno ha i nervi che ha. Alcuni hanno preso e sono andati a combattere. Artisti e non: gli artisti sono esseri umani come gli altri, sono uomini o donne come tutti. Alcuni si sono concentrati sul volontariato puro. Altri si sono messi a dipingere. Va bene così. È quello che hanno fatto i miei amici, che ho fatto anch’io, e altri come me.
All’inizio era un lavoro quotidiano. Adesso ogni tanto mi concedo un po’ [di riposo]. Ci si stanca anche fisicamente, dopo quei murales enormi: sono 120 m2 in 8 o 10 giorni. Non avrei mai creduto di fare cose simili. Insieme al mio amico lituano che ha portato qui i suoi “Viaggi di Mosè”, abbiamo organizzato una mostra a Babyn Jar. Se non sbaglio, dal 24 febbraio è stata la prima mostra internazionale, nel senso della prima in cui sono arrivate opere dall’estero.
Dimenticavo di parlare della serie “Carovana”. È dedicata alla carovana che trasporta i cereali e il pane. Sono andato a Odessa: non pensavo proprio che avrei dipinto il mare, quando mai, c’era la guerra. Invece a un certo punto ho visto delle navi all’orizzonte. E “Carovana” ha avuto uno sviluppo del tutto diverso. Forse la proseguirò persino, è proprio di grande attualità.
Quali opere realizzate da artisti ucraini durante la guerra l’hanno colpita particolarmente? Sempre che ce ne siano.
Certo che sì. Sono le opere dei miei colleghi e amici: Achra Adžinžal, Olena Pryduvalova, Oleksij Apollonov, Seva Šarko. Sono tante, è difficile fare un elenco, c’è tanta gente che lavora. Ho scoperto anche Katja Lisova che fa cose interessantissime.
Slavik Šereševskij dipinge molto sul tema della guerra, fa opere intensissime. Anche un po’ ironiche: una, per esempio, lo raffigura mentre guarda l’incrociatore “Moskva” che affonda. Ma in quel momento l’incrociatore stava ancora a galla! Io l’avevo dipinto ancora prima, mentre affondava, nel mio “Diario di strada”.
Un discorso a parte meritano le opere di Oleksandr Žyvotkov. Sono davvero notevoli. Ha una tecnica particolarissima: non so neanche se chiamarla scultura, pittura o che altro. La mostra alla Casa dell’Ucraina era notevole, direi quasi sconvolgente.
Quale sua opera è stata particolarmente sfiancante dal punto di vista emotivo?
Forse il “Diario di strada”, perché mi ero imposto di dipingere ogni giorno un piccolo quadro, tutti di formato A4. Dovevo reagire alle condizioni in cui mi trovavo. Ma come facevo, se mi ci trovavo in mezzo? È stato un lavoro enorme e, secondo me, importantissimo. Forse il più importante in assoluto per me.
Comunque è difficile nominare una cosa sola. Adesso faccio una fatica tremenda a dipingere. Perché ci vuole una grande, totale onestà. In un periodo come questo è impossibile fare qualcosa a mezzo servizio.
Al momento si parla molto del fatto che lo stato ha stanziato 28 milioni di grivne [circa 600 000 euro] per sostituire la falce e martello con il tridente ucraino nella statua della Madrepatria, secondo il voto espresso dagli ucraini sull’app governativa Dija. Lei cosa ne pensa?
Sono d’accordo: che ci stanno a fare, lì, falce e martello? La storia di quella tipa, come noi tutti chiamiamo la statua, è buffissima. Mi ricorda un po’ quella degli orrendi casamenti che il sindaco Omel’čenko ha tirato su sul Majdan: sono entrati nella storia dopo che la piazza è diventata la piazza – il Majdan – per antonomasia. Ieri o l’altro ieri si è accesa una nuova polemica sul museo di Odessa, dicono che invece di finanziarlo bisognerebbe comprare droni. I droni vanno comprati, ovvio. Ma bisogna anche dare fondi all’arte, se c’è modo. Altrimenti rischiamo di perdere di nuovo.
“La Russia si è appropriata della nostra cultura”
Non per niente chi ci ha aggredito spende decine se non centinaia di milioni di dollari in questo senso. Ho visto le loro mostre: sono orrende. Non sopporto di sentir parlare di “avanguardia russa”. È appropriazione culturale: questo è. Abbiamo cose bellissime,noi… Primo: come la giri la giri, Malevič era ucraino. Secondo: fenomeni come il bojčukismo e via dicendo hanno rilevanza mondiale, e vanno finanziati. Come tra l’altro anche la cultura contemporanea. Adesso varie istituzioni occidentali hanno iniziato a invitare i nostri musei. Per esempio, il Louvre ha invitato il museo Chanenkiv che ha mandato un’icona bizantina. E non ci sarebbe stato niente di male, se insieme all’icona bizantina avessero mandato opere di artisti ucraini contemporanei. Lo dico prima di tutto da persona dell’ambiente. E anche perché si fa così in tutto il mondo. Ho visto parecchie mostre del genere; servono a illustrare il legame fra le varie epoche, la tradizione da cui nasce la cultura contemporanea. Una cultura che merita davvero di essere mostrata in giro per il mondo. È evidente, anche in base alla mia esperienza limitata.
Basta pensare alla mia mostra all’Aia o a quelle altrove. Il mio “Muro” è stato esposto nel Sejm [camera bassa del parlamento] polacco; sono iniziative che funzionano. E lo stato dovrebbe farsene carico. Ma purtroppo da noi non c’è questa tradizione. Non voglio andare sul personale, non serve a niente. Ma so di cosa parlo. I responsabili non arrivano a capire a che servono iniziative così. Invece servono eccome! Si sale di livello . In tutto il mondo si gira per mostre, si guardano le opere. C’è un atteggiamento diverso nei confronti di chi ama l’arte o la fa. E l’Ucraina smetterà di essere un paese macchiettistico, da avanspettacolo; già sta succedendo. Finalmente anche l’Ucraina inizierà a esistere nel mondo come soggetto culturale; e lo stato deve sostenere ufficialmente questa trasformazione.
Lei percorre queste strade ogni giorno. In quanto artista, non trova irritante lo spazio urbano?
In questo atelier ho dipinto per vent’anni il cielo. Per vent’anni mi sono messo alla finestra e l’ho dipinto. Guardi lei che cosa si vede ora. Non so se la gente andrà mai ad abitare in quei caseggiati. Da qui si vedeva la cattedrale di s. Sofia. Adesso costruiscono come pazzi, vanno avanti dai tempi sovietici, anche se all’epoca il ritmo era rallentato. Ci si è messo d’impegno soprattutto il sindaco Omel’čenko, non L’onja Kosmos buonanima [Leonid Černovec’kyj]. L’onja Kosmos si è limitato a riempirsi le tasche. Ha fatto tutto Omel’čenko: quella piramide l’ha costruita lui, per esempio. Gli altri stanno giusto continuando.
Cosa vuole che le dica… ho partecipato a molte iniziative di protesta, se è questo che intende, ma chiaramente non siamo riusciti a salvare nulla. Né il mercato Sinnyj, né lo studio artistico sulla Discesa di s. Andrea, niente. Sono tutti avidi e basta. E come dicono a Odessa, l’avidità è la madre di tutti i vizi.
La rivista Esquire aveva una rubrica intitolata “Regole di vita”. Quali sono le regole di vita di Matvij Vajsberh?
Ho alcuni principi, in effetti.
Sono regole di vita?
Direi di sì. Io non mi propongo mai per primo. L’ho già detto. Il secondo principio, però, contraddice un po’ il precedente: se propongono qualcosa a me, non mi tiro mai indietro. Non mi propongo, ma non sfuggo alle proposte. Fai ciò che riesci e vivi come sai. In maniera retta, per quanto è possibile. Servono altre regole?
Guardi, le ripeto una storiella. Si incontrano due saggi ebrei, siamo intorno al settimo secolo. Uno dice all’altro: “Spiegami l’essenza dell’ebraismo nel tempo che rimango in equilibrio su un piede solo”. Parentesi: non sono credente. E l’altro risponde: “Facile! Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. È tutto qui. È la regola fondamentale.
Il libro Voci dalla guerra. Mariupol’ con i quadri di Matvij Vajsberh e le fotografie di Jevhen Sosnovs’kyj è disponibile presso la libreria JE; inoltre, è distribuito direttamente dal Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv.