Dalla colonia penale di Smolensk. “Guerra in Ucraina e dittatura di Putin, contro l’interesse del popolo russo”

Il grande merito dell'opera, Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale (Adelphi), è quello di disegnare un’idea d'Europa in cui non ci sono paesi occidentali (Austria) e orientali (Cecoslovacchia), ma un’unica matrice culturale comune.

(di Il’ja Jašin, prigioniero politico russo)

20 marzo 2024 

Dopo due anni, tre esiti principali. Primo: un potente colpo al capitale umano. Secondo: la violenza arrecata all’economia. Terzo: la débâcle del Cremlino nell’arena internazionale. La verità è che questo conflitto avvelena il presente del nostro popolo e ci priva del futuro

Il’ja Jašin
Il'ja Jašin in tribunale
Foto di Aleksandra Astachova/Mediazona.

Il testo che segue è la traduzione dell’audio contenuto nell’ultimo video pubblicato il 24 febbraio scorso sui propri canali social da Il’ja Jašin, oppositore politico russo attualmente detenuto in una colonia penale della regione di Smolensk, dove continua a scontare la condanna a otto anni e mezzo di reclusione comminata il 9 dicembre 2022 per “diffusione di fake news sull’esercito” (sul suo canale YouTube aveva parlato degli eccidi commessi dall’esercito russo a Buča nei primi mesi della guerra in Ucraina). In questo video, realizzato con una tecnica di animazione per l’impossibilità fisica di presentarsi di fronte a una telecamera, Jašin offre agli spettatori un’analisi di quelli che, a suo avviso, sono i tre esiti principali ottenuti dalla Russia a due anni dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina.

Un saluto a tutti. Mi chiamo Il’ja Jašin e vi parlo da una colonia penale nei pressi di Smolensk. Come potete immaginare, i prigionieri politici sono tenuti al silenzio, ma io non tacevo prima e non intendo farlo adesso perché voglio discutere di un tema che, credo, preoccupa ciascuno di noi. Si tratta della guerra che Vladimir Putin ha scatenato sul territorio dell’Ucraina. Il giorno del mio arresto, nel giugno 2022, si stava compiendo il quarto mese di questa guerra, mentre ora abbiamo già superato il suo secondo anniversario. E, a giudicare dai fatti, è un incubo ancora di là da concludersi. Ad ogni modo, possiamo tirare le prime somme di questo conflitto e valutare la nuova realtà in cui ci ha catapultato. È proprio di questo che voglio discutere, condividendo con voi il mio punto di vista sul mondo in cui Putin ci ha portati nei due anni della sua impresa sanguinosa. In fin dei conti, benché mi abbiano chiuso in gabbia, le autorità non mi hanno privato della capacità di pensare e parlare, e ritengo di vitale importanza che in Russia continui a farsi sentire una voce indipendente contro la guerra e la dittatura. Persino se può farlo soltanto da una prigione. Ma, innanzitutto, vorrei chiedervi di sostenere questo video con un like, di condividerlo sui vostri canali social e di lasciare un commento, in modo che YouTube lo proponga ad altri utenti. Vi prego di guardarlo per intero e, naturalmente, non dimenticate di iscrivervi al mio canale, se non l’avete ancora fatto. E, dunque, cominciamo.

Due anni di guerra. Tre esiti principali

Putin ha iniziato la guerra con grande fiducia nei suoi mezzi: dopo aver ammassato truppe d’assalto lungo la frontiera con l’Ucraina, ha attaccato da tre direzioni, col chiaro scopo di sconfiggere l’esercito ucraino in brevissimo tempo, occupare in fretta la parte orientale, meridionale e centrale del paese, liquidare il presidente Zelens’kyj o costringerlo a fuggire all’estero, dopodiché insediare a Kyiv un regime fantoccio controllato dal Cremlino. La televisione russa rassicurava che Kyiv sarebbe caduta già il terzo giorno dell’operazione militare speciale, ma in realtà, a quanto pare, il piano era di concludere la fase principale delle azioni militari per i primi di marzo, in occasione dell’anniversario dell’annessione della Crimea. Il progetto di Putin si basava su due importanti premesse: in primo luogo, ci si attendeva un’opposizione minima da parte dell’esercito ucraino e la lealtà della popolazione locale. Non è un mistero che il Cremlino, con l’aiuto dei suoi servizi segreti, ha speso per anni risorse e sforzi nella creazione di reti sotterranee prorusse e ha foraggiato amministratori pubblici, politici e funzionari ucraini. Di sicuro i servizi avevano riferito a Putin che, in caso di invasione, i soldati russi sarebbero stati accolti non come occupanti ma come liberatori: con manifestazioni di festa, coi tradizionali pane e sale. Si supponeva che gli ucraini fossero stanchi ed esasperati dal loro governo, e che sarebbero stati felici di accettare la protezione offerta da Putin e tutto ciò che significava il concetto di “ordine russo”. In secondo luogo, è chiaro che il Cremlino non si aspettava una reazione rapida e coordinata all’invasione da parte dell’Occidente. Alla vigilia dell’aggressione russa contro l’Ucraina, le truppe americane avevano ingloriosamente lasciato l’Afghanistan, di fatto dandolo in pasto ai talebani. I paesi europei mantenevano una dipendenza critica dal gas e dalle altre fonti energetiche russe, cosa che li rendeva vulnerabili alla manipolazione del Cremlino. In generale, Putin non aveva una grande considerazione per i leader occidentali e li derideva regolarmente per la debolezza, la fiacchezza, l’incapacità di prendere decisioni efficaci. Non aveva dubbi sul fatto che la volontà di ferro e la risolutezza delle forze armate avrebbero spaventato e demoralizzato l’Occidente, mettendolo in un vicolo cieco. Quando gli occidentali si fossero ripresi dallo shock iniziale e avessero tentato una qualche reazione, i giochi sarebbero già stati conclusi e l’Ucraina sarebbe passata sotto il controllo militare e politico di Mosca. Va detto che, nel complesso, Putin è un politico piuttosto spregiudicato, e molti dei suoi azzardi sono andati a buon fine. Ma stavolta si è sbagliato di grosso: in Ucraina il suo esercito ha incontrato una feroce resistenza e ben presto, subite perdite consistenti, è stato costretto a ritirarsi sia da Kyiv, sia da Černihiv, sia dalle altre grandi città. L’Occidente, poi, si è mobilitato con una velocità sorprendente e, dai primi giorni del conflitto, ha inviato all’esercito ucraino massicce forniture di armi e munizioni. La campagna militare ha attraversato diverse fasi. Dopo il fallimento della guerra lampo, le forze armate di Putin si sono riorganizzate e hanno continuato ad avanzare verso il Donbas, tentando di raggiungerne i confini amministrativi. Tuttavia, già nell’autunno 2022 è iniziata la controffensiva ucraina, che ha ripreso il controllo di una parte significativa del territorio e ha liberato Cherson – l’unico capoluogo regionale ucraino conquistato da Putin nel corso della guerra. Il Cremlino, a spese di una mobilitazione massiccia di cittadini, ha tenuto e rinforzato le prime linee, dopodiché ha tentato di sferrare un nuovo attacco, benché il suo successo più rilevante sia stata la conquista delle rovine della città di Bachmut che, a detta del defunto capo del battaglione Wagner, sono costate la vita ad almeno ventimila soldati russi. D’altronde, neppure il successivo contrattacco su larga scala dell’esercito ucraino è stato coronato dal successo: in generale, le linee difensive dei russi hanno resistito e le truppe ucraine non si sono assicurate un vantaggio strategico. A oggi, il conflitto è diventato una guerra di posizione: la linea del fronte rimane pressoché immutata, spostandosi ogni giorno letteralmente di decine di metri in una direzione o nell’altra. Sia i russi, sia gli ucraini subiscono grandi perdite, tentano di esaurire le risorse del nemico, ma la situazione a cui si è giunti attualmente si può definire un vicolo cieco. Né Putin, né Zelens’kyj sono disposti a venire a compromessi. I tentativi di avviare trattative falliscono, e finora non è stato presentato nessun piano realistico per uscire dalla crisi militare. 

E dunque a che punto si trova la Russia dopo due anni di combattimenti attivi? Analizzerò i tre esiti fondamentali ottenuti. 

Primo: Putin ha assestato un potente colpo al capitale umano della Russia. Le perdite del nostro paese sui campi di battaglia sono difficili da valutare, ma è chiaro che si contano a decine di migliaia. Alcuni giornalisti di Mediazona e della BBC, insieme a una squadra di volontari, redigono e aggiornano regolarmente un elenco nominativo di militari russi, scovando i loro cognomi e altri dati nei necrologi ufficiali e nei social, e verificando le sepolture recenti nei cimiteri di varie regioni. I dati sono così tanti che i volontari riescono appena a elaborarli, ed è evidente che si tratta solo della punta dell’iceberg, perché è ben difficile che tutti i morti finiscano nei bollettini ufficiali, e passare in rassegna ogni cimitero russo è fisicamente impossibile. Nonostante ciò, il numero dei corpi identificati si avvicina già a 50.000. I servizi segreti occidentali già in dicembre avevano pubblicamente dichiarato perdite russe pari a 315.000 uomini: è come la popolazione di una media città di provincia. Solo per un confronto, in 10 anni di guerra in Afghanistan le perdite sovietiche ammontarono a 15.000 soldati, mentre ora decine di migliaia in soli due anni. Putin sta letteralmente trasformando i russi in carne da cannone, comprando con cinismo le loro vite a spese dello stato o con la promessa di farli uscire di prigione. Ma c’è un altro problema: inviando masse di soldati al fronte, Putin sta piazzando nella società una bomba a scoppio ritardato, perché prima o poi alla vita civile torneranno – e molti sono già tornati – centinaia di migliaia di uomini traumatizzati dalla guerra, che hanno subito forti stress, che hanno ucciso persone e hanno visto la morte e che, sicuramente, avranno difficoltà a reinserirsi. Ciò porterà inevitabilmente alla crescita della violenza sia domestica che pubblica, dobbiamo aspettarci un balzo della criminalità. Basta ripensare all’Afghanistan: i soldati sovietici tornati da lì spesso non riuscirono a reintegrarsi degnamente nella società civile e si diedero alla criminalità, utilizzando la loro esperienza di guerra per creare gruppi organizzati che divennero una vera minaccia alla sicurezza sociale. E l’operazione in Afghanistan, ripeto, non si può neanche lontanamente paragonare alla guerra in Ucraina. Un mucchio di problemi attende la Russia anche con il reinserimento degli invalidi perché, oltre ai morti, dal fronte sta tornando un numero enorme di persone che hanno perso braccia, gambe o che hanno subito altre mutilazioni fisiche. Siamo sinceri: tradizionalmente, lo stato se ne infischia di questa gente. Non c’è dubbio che in un prossimo futuro le città russe vedranno la presenza costante di persone in divisa militare su sedie a rotelle e con al petto una medaglia, ad esempio per la conquista di Mariupol’ o di Mar’inka, intente a chiedere l’elemosina fra le macchine ferme negli ingorghi o agli ingressi della metropolitana. Un discorso a parte riguarda gli ex detenuti tornati dalla guerra. Per aver partecipato alla cosiddetta operazione speciale, Putin ha graziato e riabilitato migliaia di veri e propri avanzi di galera e rifiuti della società. Assassini, stupratori e rapinatori sopravvissuti alla guerra tornano a casa come se niente fosse, riprendono a vivere accanto alle proprie vittime e ai loro cari. Al Cremlino dicono che hanno ottenuto la libertà scontando i propri delitti col sangue. Ma agli occhi di chi ha scontato i suoi peccati un vampiro che ha violentato e ammazzato una bambina? La mamma di quella bambina uccisa starà meglio perché il suo assassino è uscito di prigione per andare nel Donbas a sparare agli ucraini per poi tornare a casa da eroe? Per giunta, la guerra non guarisce affatto chi ha tendenze criminali; anzi, ne aumenta aggressività e spregiudicatezza. Già ora nelle prime pagine dei giornali fioccano titoli che parlano di mercenari Wagner che accoltellano compagni di bevute, rapinano passanti, organizzano sparatorie nei negozi o violentano bambine in età scolare. Tutto ciò, peraltro, non disturba il potere, che impone alla società il culto degli ex detenuti tornati dal fronte: i mass-media li esaltano, ne fanno degli eroi, invitati nelle scuole a tenere lezione agli studenti. Contemporaneamente, nella società si diffonde un senso di profonda e scandalosa ingiustizia, espresso dalle più coraggiose tra le mogli dei soldati mobilitati. I detenuti reclutati dalla Wagner, se sopravvivono, già dopo sei mesi tornano a casa con la fedina pulita e le tasche zeppe di soldi, mentre uomini rispettosi della legge richiamati dalla mobilitazione e spesso mandati al fronte contro la loro volontà, da due anni rimangono a congelare e a marcire in trincea. E il potere, nella figura del deputato generale Kartapolov, replica a quello sdegno sputando loro in faccia e dicendo senza mezze parole: “Rimarrete al fronte fino alla fine della guerra o finché non crepate. La questione è chiusa, non c’è altro da aggiungere”. Gli stessi parenti dei mobilitati che cercano di salvare i loro cari vengono definiti agenti nemici o, nel migliore dei casi, imbecilli. Il dialogo tra il potere e la società civile avviene con la consueta brutalità. Vladimir Putin dice spesso che il principale valore della Russia sono le sue persone, che lo stato compie sforzi enormi per proteggere e sviluppare il capitale umano. La guerra in Ucraina ha dato una palese dimostrazione della falsità di simili proclami e dell’ipocrisia di Putin. Per lui le persone non sono nient’altro che materiale di consumo, da comprare a basso prezzo e sbattere in prima linea per realizzare i suoi fini politici e soddisfare le proprie ambizioni.

Il secondo esito della guerra è la violenza arrecata all’economia russa. Putin rassicura tutti che la nostra economia va benissimo. Non è minata dalle sanzioni e cresce a ritmo vertiginoso. Ma cosa sta succedendo davvero? Sì, il PIL russo l’anno scorso ha segnato una crescita, ma questa dinamica è dovuta in primo luogo al brusco aumento delle spese militari. Il Fondo per il benessere nazionale, dove si concentrano le riserve fondamentali del nostro paese, in un anno si è ridotto quasi della metà, da 9.000 a 5.400 miliardi di rubli. Questi soldi sono stati generosamente spesi per produrre mezzi corazzati, razzi, munizioni, e naturalmente ogni carro armato o ogni proiettile prodotto entra nel computo del PIL, cosa che si riflette nelle statistiche economiche. Ma è importante capire che lo sviluppo economico non trarrà nessun beneficio da un proiettile esploso o da un carro armato colpito nei dintorni di Avdiivka: sono soltanto cifre nei resoconti governativi, mentre quei soldi sono stati letteralmente bruciati nel fuoco della guerra. Oltretutto, questo fuoco esige sempre più combustibile e quest’anno Putin prevede di assegnare ancora più risorse al fabbisogno militare. Guardiamo il bilancio della Russia per il 2024: le spese per la difesa sono cresciute del triplo in confronto al periodo prima della guerra. Hanno raggiunto la quota record del 40% del bilancio e, per la prima volta nella storia recente, hanno superato le spese per i settori sociali. Come se non bastasse, quasi tutti i capitoli di spesa legati all’istruzione, alla sanità e alla cultura sono stati ridotti o direttamente, o per effetto dell’erosione dovuta all’inflazione. Ossia, le riserve nazionali vengono di fatto interrate nei campi di battaglia, mentre si propinano alla popolazione statistiche astute e fasulle su una crescita economica lontana dalla realtà. Putin è orgoglioso anche del calo record della disoccupazione ma, come sempre, tace sulla vera causa del fenomeno: la riduzione del livello di disoccupazione non è affatto dovuta alle abili politiche governative. Nel mercato del lavoro il numero di occupati non è più sufficiente a causa dell’invio in massa di uomini al fronte, a causa dell’emigrazione di centinaia di migliaia di persone impiegabili dovuta alla guerra e alla mobilitazione, a causa dello squilibrio a favore dell’industria militare, dove a spese del bilancio statale si è avuto un forte aumento degli stipendi, cosa che attrae personale specializzato creando un deficit di forza lavoro nei settori civili. Putin è felice dei numerini indicati dai resoconti, ma gli economisti sono unanimi nel ribadire che il mercato del lavoro vive una grande crisi, che causa un forte rallentamento alla crescita economica reale. Sorprendentemente Putin è riuscito a fornire un magnifico assist agli USA, che definisce il suo avversario principale e che incolpa di tutti i mali del mondo. Per esempio, la guerra in Ucraina ha costretto l’UE a rinunciare quasi del tutto al gas russo: se fino al 2022 la Gazprom controllava oltre il 40% del mercato europeo del combustibile azzurro, oggi la sua quota è scesa al 7-8%. E chi ne ha beneficiato di più? In primo luogo, naturalmente, le compagnie americane, che hanno ottenuto la fetta maggiore del mercato lasciato libero e l’hanno rimpolpato con le loro forniture di GPL via mare. Si sono arricchiti anche i produttori americani di armi, che soddisfano le esigenze dell’esercito ucraino e riforniscono i depositi della NATO. Ora dispongono di ingenti commesse per gli anni a venire. E, dunque, a dover spedire al Cremlino un biglietto di ringraziamento sono i produttori di gas e i baroni delle armi americani. Vale la pena citare anche il generoso regalo di Putin agli occidentali, del valore di quasi 300 miliardi di dollari. Si tratta delle riserve statali russe, distribuite tra gli USA e i paesi dell’UE. Il Cremlino si è preparato alla guerra con un’abilità e una precisione tali da lasciare ai propri avversari geopolitici centinaia di miliardi. E ora in Occidente si discute tranquillamente su cosa fare di questi fondi: se requisirli e darli all’Ucraina come risarcimento per i danni, o se ricavarne regolari profitti sotto forma di interessi. Un discorso a parte è il balzo dell’inflazione condizionato dal riorientamento dell’economia a favore del fabbisogno militare. I funzionari governativi sfoggiano sorrisi e confermano di tenere sotto controllo la crescita dei prezzi. Ma il televisore difficilmente può mentire al frigorifero perché, al di là di quel che dicono i notiziari, chiunque vada a fare la spesa non potrà non accorgersi che i prezzi di molti beni di consumo sono aumentati di una volta e mezzo nel giro di un anno. Infine, dopo l’inizio della guerra abbiamo scoperto la sorprendente espressione “industrializzazione inversa”, un termine che, peraltro, è stato associato alla nostra economia non da un qualche straniero ostile ma dalla stessa banca centrale russa. È sua, infatti, la dichiarazione per cui la Russia sta tornando a realizzare prodotti antiquati con tecnologie antiquate. In poche parole, interrotti i rapporti con l’Occidente, il nostro paese ha imboccato la strada del regresso causando un drammatico rallentamento del proprio sviluppo. La parola “regresso” caratterizza piuttosto bene l’insieme delle politiche statali di Vladimir Putin. Sono proprio tali politiche a fare da potentissimo freno allo sviluppo della Russia praticamente in ogni ambito.

Il terzo esito importante della guerra, a mio avviso, è legato alla débâcle del Cremlino nell’arena internazionale. In un’intervista recente, il regista Nikita Michalkov, noto lacchè del presidente, lamentava che Putin sta vivendo un bruttissimo periodo dal punto di vista psicologico perché ormai può comunicare soltanto con due o tre leader mondiali. Di che parlava? Evidentemente della trasformazione del capo di stato russo in un reietto internazionale, una vera e propria novità nella nostra storia. Al Cremlino, in epoche diverse, si sono avuti leader di vario tipo, crudeli, scaltri o autentici tiranni, ma mai prima d’ora la Russia era stata in mano a un uomo talmente tossico da far sì che mezzo mondo voglia prenderne fisicamente le distanze. Putin ha dichiarato in pubblico che uno degli scopi cruciali della guerra con l’Ucraina è la necessità di allontanare la NATO dai confini russi. Questa era la richiesta contenuta nell’ultimatum ufficiale inviato dalla Russia all’Occidente alla vigilia dell’invasione. Due anni dopo, si può affermare che Putin si è sostanzialmente dato la zappa sui piedi, perché prima dell’aggressione armata i leader occidentali erano pronti al dialogo con lui, analizzavano seriamente le varie richieste del Cremlino, cercavano compromessi. Il presidente francese Emmanuel Macron ha passato ore al telefono con Putin, ascoltando la sua sequela di lamentele e offese. Ma dopo l’invasione dell’Ucraina, gli occidentali sembrano aver perso definitivamente la fiducia nell’adeguatezza e nella disponibilità a trattare di Putin. Ora non è in corso il minimo dialogo. Anzi, la NATO aumenta metodicamente la propria capacità difensiva e dispiega armamenti sul proprio fianco orientale. Che fine hanno fatto le minacce di Putin alla NATO? Si può dire che abbiano ottenuto l’esito opposto di quanto ci si aspettava. Anziché allontanarsene, la NATO si espande verso i confini russi: nell’alleanza è già entrata la Finlandia, e prossimamente la Svezia andrà a ingrossarne le file [la Svezia è poi entrata ufficialmente nella NATO il 7 marzo, NdR]. I paesi baltici rinforzano i territori di frontiera, disseminandoli di bunker e formando una rete difensiva; di fatto stanno costruendo una propria linea fortificata. Una tale attività costringe il Cremlino a reagire, a concentrare su questo settore molte unità aggiuntive, attrezzature e forze antiaeree. Al contempo, nei pressi dell’oblast’ di Kaliningrad si sta preparando una delle più grandi esercitazioni NATO dai tempi della Guerra fredda, che coinvolgerà decine di migliaia di soldati. Tali manovre presuppongono un ipotetico scontro con l’esercito russo. È in atto pure il riarmo sistematico e il rinnovamento degli arsenali degli stati della NATO, molti dei quali hanno inviato le loro vecchie attrezzature all’esercito ucraino e in cambio hanno ottenuto sistemi d’arma moderni dall’industria bellica americana. Di fatto, prima del 2022 la NATO era una formazione piuttosto amorfa, un prodotto dell’epoca della Guerra fredda. Pur conservando formalmente la sua struttura, il blocco non aveva obiettivi comprensibili ed era visto con scetticismo dalle popolazioni di molti dei suoi stati membri. I politici faticavano sempre più a spiegare ai loro elettori perché bisognasse continuare a spendere soldi per una costosa alleanza militare se, con la scomparsa dell’URSS nel lontano 1991, era scomparsa pure la minaccia esistenziale alla civiltà occidentale, e la NATO, in sostanza, non aveva più nemici. Putin, invece, con la sua aggressione ai danni dell’Ucraina, ha letteralmente infuso nuova vita nella NATO, ha dato senso alla sua esistenza. Scatenando la più grande guerra in Europa dopo il secondo conflitto mondiale, il dittatore russo ha dimostrato che la minaccia è ancora valida, ed è del tutto reale. Se gli elettori europei fino a qualche tempo fa erano critici nei confronti della NATO, ora esigono che i loro governi rafforzino il blocco, lo rendano attivo: la rinascita dell’alleanza nord-atlantica è ora davanti ai nostri occhi. Purtroppo, la guerra di Putin ha notevolmente complicato la vita anche di molti cittadini russi che non condividono l’aggressione. I nostri connazionali incontrano sempre maggiori difficoltà a viaggiare per il mondo, devono ricorrere all’umiliante schema delle importazioni parallele e pagare di più per procurarsi prodotti di qualità, penare per i visti, le carte di credito, i trasferimenti bancari. La politica del Cremlino ha fatto in modo che i paesi più disparati abbiano iniziato a considerare i russi persone di seconda classe, affibbiando a tutti noi il marchio dell’occupante. È evidente che, avviando la guerra contro l’Ucraina, Putin contava di spingere l’Occidente a intavolare trattative su un nuovo ordine mondiale e sulla divisione delle sfere di influenza tra le potenze leader. La propaganda di stato non ne faceva nemmeno un grande mistero, portando a esempio la conferenza di Jalta fra il presidente americano Roosevelt, il primo ministro britannico Churchill e il segretario generale sovietico Stalin, nella quale si giunse a un accordo sui parametri della coesistenza post-bellica delle due civiltà, quella capitalista occidentale e quella socialista sovietica. La ferocia di Putin e la sua minaccia di ricorrere alla forza militare, nelle testoline degli strateghi al Cremlino, avrebbero dovuto costringere gli USA, l’UE e i loro alleati a riconoscere il presidente russo come un partner alla pari in questo ipotetico processo negoziale. L’effetto, invece, è stato opposto: Putin ha iniziato a essere visto come un imprevedibile e pericoloso psicopatico, con cui non ha senso dialogare. Al contrario, è stata scelta una forte strategia di contrapposizione sanzionatoria al Cremlino e di isolamento della Russia. Cos’è, dunque, che Putin ha ottenuto in due anni di guerra? Aveva promesso di portare pace e libertà all’Ucraina, ma di fatto le ha portato morte, distruzione e dolore. Centinaia di migliaia di morti e feriti, milioni di profughi, rovine al posto di città un tempo fiorenti: ecco cos’ha portato Putin al popolo ucraino. Oltretutto, le parti del paese a soffrirne di più sono state proprio le regioni russofone, tradizionalmente leali alla Russia: sono state loro a subire l’attacco più forte da parte dei cosiddetti liberatori. Putin aveva garantito al nostro popolo la difesa degli interessi nazionali della Russia e il ripristino dell’antica grandezza. Ha invece assestato un colpo alla demografia nazionale e ha privato della vita e reso storpi decine di migliaia di russi che avrebbero potuto lavorare, crescere figli ed essere utili alla società. Ha bruciato nel fuoco della guerra un’enorme quantità di denaro e risorse che avrebbero potuto essere investite nell’istruzione, nella sanità e nello sviluppo. In più ha compromesso lo status internazionale della Russia, rendendola drammaticamente dipendente dalla Cina e facendo del nostro paese un approvvigionatore di materie prime, di fatto una stazione di rifornimento per l’industria cinese.

La verità è che questa guerra va contro gli interessi della Russia, avvelena il presente del nostro popolo e ci priva del futuro. Questa guerra deve essere fermata il prima possibile. Le truppe russe devono tornare a casa e all’Ucraina devono essere garantite sovranità e integrità territoriale. Ma Putin dovrà essere condannato.

Vi ringrazio di avermi seguito fin qui. E non arrendetevi, non perdete la fiducia in un futuro migliore. Dopo ogni notte buia spunta immancabilmente l’alba. Io sono Il’ja Jašin, prigioniero politico nella colonia numero 3 della regione di Smolensk. A presto!

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