In Russia la repressione continua: Oleg Orlov è in carcere

Il 27 febbraio 2024 Oleg Orlov, copresidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial e membro della neoricostituita Associazione Internazionale Memorial, è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione  per la pubblicazione dell’articolo "Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto".

Il 27 febbraio 2024 Oleg Orlov, copresidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial e membro della neoricostituita Associazione Internazionale Memorial, è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione in colonia penale a regime ordinario in base all’articolo del codice penale della Federazione Russa che punisce il “vilipendio reiterato delle forze armate”. Orlov è diventato un obiettivo della repressione dopo la pubblicazione dell’articolo Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto. Al momento Orlov si trova nel carcere SIZO-5 (“Vodnik”) di Mosca. Il 1 marzo il ricostituito Centro per la difesa dei diritti umani Memorial è stato iscritto nel “registro degli agenti stranieri”. Il 2 febbraio è stato dichiarato “agente straniero” anche Oleg Orlov. Ricordiamo che nel 2014 l’allora Centro per i diritti diritti umani Memorial e poi nel 2016 Memorial International erano stati dichiarati agenti stranieri e che nel 2021 entrambe le associazioni sono state chiuse in via definitiva con sentenza della Corte suprema della Federazione Russa secondo la quale Memorial avrebbe “diffuso un’immagine falsa dell’Urss come Stato terrorista”.

Chi è Oleg Petrovič Orlov?

Carattere schivo ma deciso, Oleg Petrovič Orlov è una delle anime del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, nonché membro del Movimento democratico unitario Solidarnost’. Nato a Mosca nel 1953 e biologo di formazione, tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Ottanta, mentre lavora all’Istituto di fisiologia vegetale dell’Accademia delle scienze, stampa e diffonde volantini con appelli contro la guerra in Afghanistan e riflessioni sulla situazione polacca e sul sindacato Solidarność. Nel 1988 entra formalmente nel gruppo di iniziativa della nascente associazione Memorial di cui diventa di fatto uno dei fondatori. Nei primi anni Novanta collabora con Sergej Adamovič Kovalëv, dissidente in epoca sovietica e deputato del parlamento russo dopo la dissoluzione dell’Urss, e lavora come consulente nella Commissione per i diritti umani presieduta dallo stesso Kovalëv. Con il “gruppo di Kovalëv” si occupa principalmente di difesa dei diritti umani e sostegno ai prigionieri politici ed è osservatore in zone di guerra. Nel 1995, durante la prima guerra cecena, è inizialmente presente a Groznyj nel corso dell’assedio al palazzo presidenziale e successivamente fa parte del gruppo di attivisti che si offrono come ostaggi per garantire la liberazione delle 1.500 persone sequestrate dai terroristi di Šamil Basaev nell’ospedale di Budënnovsk nella Russia meridionale. Nel corso delle due guerre cecene si occupa in modo particolare del sistema dei campi di filtraggio. Dal 2004 al 2006 è membro del Consiglio presidenziale per lo sviluppo delle istituzioni della società civile e dei diritti umani dal quale si allontana in segno di protesta per una dichiarazione ambigua di Vladimir Putin sull’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja (“L’omicidio [di Anna Politkovskaja] arreca al governo danni molto più grandi di quanto facessero le sue pubblicazioni. La portata della sua influenza sulla vita politica del paese era minima”). Nel 2009 ritira, insieme con Sergej Kovalëv e Ljudmila Alekseeva, il premio Sacharov per la libertà di pensiero del Parlamento europeo, assegnato a Memorial. Tra il 2009 e il 2010 subisce un processo per diffamazione, da cui è assolto, per avere attribuito la responsabilità dell’assassinio di Natal’ja Estemirova, direttrice di Memorial a Groznyj, a Ramzan Kadyrov, presidente della Repubblica Cecena. Dall’inizio degli anni Novanta, con il progetto Gorjačie točki (Hot Spots), coordina le attività del Centro per i diritti umani Memorial, documentando violazioni dei diritti umani e crimini di guerra: tra il 1999 e il 2009 nel Caucaso del Nord durante la seconda guerra cecena, nel 2008 nel corso dell’intervento russo in Georgia, nel 2014-2016 in occasione del conflitto in Ucraina orientale. A dicembre del 2022 fa parte della delegazione che riceve a Oslo il premio Nobel per la pace assegnato congiuntamente ad Ales’ Bjaljacki, difensore dei diritti umani bielorusso condannato a dieci anni di reclusione, al Center for Civil Liberties, organizzazione ucraina per la difesa dei diritti umani, e a Memorial.

“Ci sono momenti in cui è impossibile tacere”
Il documentario Ritorno alle repressioni. Oleg Orlov, pubblicato il 22 aprile 2023, fa parte del progetto Priznaki žizni (Segni di vita) di Radio Svoboda. In una lunga intervista, a più di trent’anni di distanza dalla fondazione di Memorial, Orlov ammette che le speranze di allora non si sono concretizzate. La Russia è tornata a una situazione di illibertà ancora più grave di quella della sua gioventù, vissuta negli ultimi anni dell’Urss di Brežnev. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il giro di vite del Cremlino all’interno della Federazione Russa è stato violento. In base ai nuovi articoli di legge sulle fake news e sul vilipendio delle forze armate, le pene detentive per diffusione di informazioni indipendenti sulla guerra sono diventate abnormi. Il’ja Jašin, politico di opposizione, è stato condannato a otto anni e mezzo di reclusione per avere denunciato sul suo canale YouTube i crimini commessi a Buča dai militari della Federazione Russa contro la popolazione civile ucraina. Vladimir Kara-Murza, storico, giornalista e politico di opposizione, deve scontare venticinque anni in base a vari capi d’accusa, compreso alto tradimento, dopo un processo a porte chiuse, per avere criticato l’invasione dell’Ucraina. Orlov ritiene che le ragioni del ritorno della Russia a una situazione di illibertà siano il militarismo e il mito dell’impero, l’idea che lo stato sia più importante della vita e dei diritti dei cittadini.


La cronaca dei fatti

Il 21 marzo 2023 a Mosca alle sei di mattina le forze dell’ordine perquisiscono l’appartamento di Oleg Orlov e di altri otto soci di Memorial. Le perquisizioni si svolgono nel contesto dell’accusa di riabilitazione del nazismo (art. 354.1 p. 2 del codice penale della Federazione Russa). Dopo gli interrogatori i nove soci di Memorial – Jan Račinskij, presidente dell’ormai ex Memorial International; Oleg Orlov, copresidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial; Aleksandra Polivanova; Marina, madre di Aleksandra Polivanova; Nikita Petrov; Galina Iordanskaja; Alena Kozlova; Irina Ostrovskaja; Aleksandr Gur’janov – risultano coinvolti in qualità di testimoni. Nel corso delle perquisizioni vengono sequestrati computer, telefoni, chiavette USB, documenti, calendari e mascherine con il logo di Memorial. Le perquisizioni si svolgono anche nella ormai ex sede di Memorial International in via Karetnyj rjad e nei locali di Memorial Mosca in via Malyj Karetnyj dove le forze dell’ordine si presentano con smerigliatrice, martello e piede di porco. Per tutta la giornata le forze dell’ordine portano via scatoloni dai locali di Memorial Mosca. Agli avvocati di Memorial non è consentito entrare.

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Nel corso della stessa giornata il Comitato investigativo apre nei confronti di Oleg Orlov un procedimento penale per “vilipendio reiterato” dell’esercito della Federazione Russa (art. 280.3 p. 1 del codice penale), imputazione che prevede una pena massima di tre anni di reclusione, portata nel marzo del 2023 a cinque anni, in base alla quale Oleg Orlov era già sottoposto a obbligo di firma dal 1 maggio dell’anno precedente.

Nella Federazione Russa è possibile aprire un procedimento penale per “vilipendio reiterato delle forze armate” nel caso in cui nell’anno in corso una persona abbia almeno una sentenza passata in giudicato relativa all’analogo articolo del codice dei reati amministrativi (art. 20.3.3.). Nel corso del 2022 Oleg Orlov è stato accusato cinque volte di avere preso parte a manifestazioni contro la guerra e in due occasioni gli è stato attribuito l’articolo del codice dei reati amministrativi relativo al vilipendio delle forze armate: una prima volta quando ha manifestato da solo nel centro di Mosca, di fronte al teatro Bol’šoj, con il cartello “Putin ha dato di matto e spinge il mondo verso la guerra nucleare” e una seconda volta quando è stato fermato sulla piazza Rossa con il cartello “L’Urss del 1945 è un paese che ha vinto il fascismo. La Russia del 2022 è un paese in cui il fascismo ha vinto”.

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Secondo le forze dell’ordine, Orlov avrebbe vilipeso le forze armate una terza volta in un anno quando, il 14 novembre 2022, ha pubblicato su Facebook il testo russo del suo articolo Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto.

Tra giugno e novembre 2023 il primo processo contro Oleg Orlov vede quindi succedersi sette udienze che si sono concluse l’11 novembre con una condanna di colpevolezza e la conseguente condanna al pagamento di una multa di 150.000 rubli, pari a circa 1.400 euro. Come previsto dal sistema giudiziario della Federazione Russa agli imputati è concessa una posledenee slovo, un’ultima dichiarazione, ovvero la possibilità di prendere la parola per sostenere la propria innocenza o corroborare la linea difensiva scelta, e Oleg Orlov ha avuto modo di pronunciare presso il tribunale Golovinskij di Mosca la sua ultima dichiarazione. La riportiamo interamente:

La Russia riemergerà dal buio (11 novembre 2023)

Per iniziare, vorrei ricordare che tantissime persone che condividono i miei ideali sono state condannate a pene molto severe: molti anni di reclusione per essersi espresse, per avere protestato in forma pacifica, per avere detto la verità. Ricordiamo Aleksej Gorinov e Vladimir Kara-Murza: in questo momento li stanno uccidendo, trattenendoli in carceri di massima sicurezza. Ricordiamo Aleksandra Skočilenko: ne stanno minando deliberatamente la salute in un carcere di detenzione preventiva. Ricordiamo Igor’ Baryšnikov, ammalato grave: il tribunale non gli ha permesso di assistere sotto scorta ai funerali della madre e, in questo momento, è di fatto privo di cure mediche. Ricordiamo Dmitrij Ivanov, Il’ja Jašin e tutte le persone condannate a numerosi anni di prigione per avere protestato contro la guerra.

In questo contesto la pena richiesta dall’accusa per me appare estremamente mite. Potrebbe sembrare, in fin dei conti, che pagare un prezzo così basso per avere espresso una posizione che ritengo veritiera non sia un gran fastidio. Ma no. Nel caso di una sentenza di condanna presenteremo comunque ricorso. Perché in questo processo qualsiasi sentenza di condanna, che sia severa o mite, sarà una violazione della Costituzione russa, una violazione delle norme del diritto, una violazione dei miei diritti.

Io non mi pento!

Non mi pento di avere manifestato pubblicamente contro la guerra, di avere scritto l’articolo per il quale sono sotto processo. Tutta la mia vita precedente non mi lasciava altra scelta. Non posso fare a meno di ricordare il motto preferito del mio maestro, grande difensore dei diritti umani, Sergej Adamovič Kovalëv, formulato a suo tempo dai pensatori romani: “fai ciò che devi, accada ciò che può”.

Non mi pento di non essermene andato dalla Russia. È il mio paese, e ho ritenuto che dalla Russia la mia voce si sarebbe sentita di più. E ora, grazie all’impegno congiunto della polizia politica, degli inquirenti, della procura e della corte, il mio breve e modesto articolo ha ottenuto una circolazione che non avrei mai potuto nemmeno immaginare.

E non rimpiango in alcun modo di avere lavorato per molti anni con Memorial, di avere lavorato per il futuro del mio paese. Adesso potrebbe sembrare che, come si dice, sia andato tutto in fumo. Potrebbe sembrare che tutto quello che io e i miei amici e colleghi abbiamo fatto sia andato distrutto e che il nostro lavoro non sia servito a niente. Ma non è così. Sono certo che non ci vorrà così tanto tempo e la Russia riemergerà dal buio in cui adesso è sprofondata. E che questo sia inevitabile è un merito non indifferente della comunità costituita dai soci di Memorial e da tutti i nostri amici e colleghi della società civile russa che nessuno riuscirà a distruggere.

In sostanza, perché ho manifestato e perché ho scritto quel breve articolo?

Adesso il concetto di patriota ha perso credito. Agli occhi di un numero enorme di persone il patriottismo russo è diventato sinonimo di imperialismo. Ma per me e per molti miei amici non è così. Dal mio punto di vista il patriottismo, in primo luogo, non è orgoglio per il proprio paese, ma bruciante vergogna per i crimini che si commettono in suo nome. Ci vergognavamo durante la prima e la seconda guerra cecena e ci vergogniamo ora per ciò che in nome della Russia commettono i cittadini del mio paese in Ucraina.

Il filosofo tedesco Karl Jaspers scrisse nel 1946 il saggio La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania. In quel lavoro formulò la tesi dell’esistenza di quattro tipi di colpa dei tedeschi dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale: colpa criminale, politica, morale e metafisica. A mio avviso, i pensieri esposti in quel saggio si adeguano molto bene alla situazione in cui ci troviamo in questo momento, noi, cittadini russi degli anni Venti del ventunesimo secolo.

Ora non parlerò della colpa criminale. Chi ha commesso crimini sconterà una pena o forse no. Ma il futuro della Russia di oggi (similmente al futuro della Germania nel 1946) dipende in larga misura dalla disponibilità di noi tutti, nessuno escluso, a riflettere non sulle colpe altrui, ma sulle nostre. Una citazione dal lavoro di Jaspers:

“Quella frase, ‘Questa è la vostra colpa!’, può significare: voi siete responsabili per le azioni del regime che avete tollerato. Qui si tratta della nostra colpa politica.

Voi siete colpevoli di avere oltre a ciò sostenuto questo regime e di avervi collaborato. Qui sta la nostra colpa morale.

Voi siete colpevoli di avere assistito inerti ai delitti che furono commessi. Qui già traspare una colpa metafisica”.

A mio avviso, chi ama la propria patria non può fare a meno di riflettere su quanto accade al paese cui si sente legato in modo indissolubile. Non può fare a meno di pensare alla propria responsabilità per quanto è accaduto. E inoltre non può fare a meno di provare a condividere i propri pensieri con altre persone. Talvolta si deve pagare un prezzo per questo…

Io ci ho provato.

Faccio un’altra citazione. Questa volta da una dichiarazione ufficiale rilasciata il 22 marzo di quest’anno.

“Russia e Cina invitano tutti i paesi a promuovere valori universali come pace, progresso, uguaglianza, giustizia, democrazia e libertà, a impegnarsi nel dialogo piuttosto che nel confronto.”

Lo dichiara lo Stato che ha inviato le proprie truppe in un paese confinante, l’Ucraina, di cui non molto tempo prima aveva riconosciuto l’integrità territoriale. Lo Stato che in quel paese conduce una guerra definita aggressione dalla assoluta maggioranza degli Stati membri dell’ONU.

Lo dichiara lo Stato nel quale è stata soppressa ogni libertà, nel quale sono state adottate con procedimento d’urgenza e si applicano alla svelta leggi che sono in diretta contraddizione con la Costituzione vigente, leggi che criminalizzano qualsiasi discorso critico. Compresa la legge in base alla quale mi giudicate oggi.  

Va bene, “la guerra è pace e la libertà è schiavitù” e “le truppe della Federazione Russa in Ucraina sostengono la pace e la sicurezza internazionale”.

Onorevole corte, davvero non è evidente che tutti noi – sia io, sia voi – ci ritroviamo nel mondo di George Orwell, nel romanzo 1984?

È un viaggio nel tempo sorprendente!

Nella storia reale, e non nella letteratura, l’anno successivo al 1984 segnò l’inizio dei cambiamenti in Unione Sovietica. La perestrojka, poi la rivoluzione democratica del 1991. Allora sembrava che i cambiamenti fossero irreversibili…

E invece dopo più di trent’anni ci ritroviamo nel 1984…

Per il momento nel codice penale russo non esiste ancora il concetto di reato di opinione, per il momento non si sanzionano ancora i cittadini per un dubbio sulla correttezza della politica statale, se espresso a bassa voce tra le mura della propria casa, non si sanzionano per un’espressione non corretta del viso. Per il momento…

  

Ma, se quel dubbio lo si esprime al di là delle pareti della propria casa, ne possono derivare denunce e sanzioni. È già passibile di sanzione indossare abiti di colori “non corretti”. Ed è ancora più sanzionabile esprimere pubblicamente un’opinione che differisca dal punto di vista ufficiale. È sanzionabile riferire quali siano le posizioni delle organizzazioni internazionali. È sanzionabile esprimere il minimo dubbio sulla veridicità dei rapporti ufficiali del ministero della difesa.

In queste condizioni sarà inevitabile che in futuro si adotti una nuova legge: sanzioni per reato d’opinione.

Per il momento in Russia non si bruciano ancora i libri in piazza. Ma i libri degli autori non graditi alle autorità già li contrassegnano con l’umiliante etichetta di agente straniero, nelle librerie li relegano agli scaffali più nascosti e nelle biblioteche li distribuiscono ai lettori quasi in segreto. Già licenziano dai teatri gli attori che hanno osato dire qualcosa che non rientra nella rotta del partito e del governo. La nota attrice Lija Achedžakova è stata allontanata dalla professione per le sue posizioni pubbliche. Tutto questo succede nel silenzio della maggioranza di coloro che prima erano definiti comunità del teatro. In uno Stato totalitario non deve esistere nessun genere di comunità. Tutti devono avere paura e tenere la bocca chiusa.

A maggior ragione sono immensamente grato alla comunità, alle persone straordinarie che non hanno avuto paura e sono venute a questo processo e che continuano ad andare agli altri processi politici. Per me è molto importante. Vi ringrazio molto!

Adesso succedono cose che solo poco tempo fa era impossibile immaginare in Russia: l’arresto della regista Ženja Berkovič e della drammaturga Svetlana Petrejčuk, per esempio. Per cosa? Per uno spettacolo in cui si riflette sulle ragioni che talvolta spingono le giovani donne nelle reti delle organizzazioni terroristiche.

Il regime che si è venuto a creare in Russia non ha affatto bisogno che le persone riflettano. Ha bisogno di altro, di opinioni semplici come muggiti, e solo a sostegno di ciò che in questo momento le autorità proclamano giusto. Ormai lo Stato non solo controlla la vita sociale, politica ed economica del paese, ma aspira anche al controllo assoluto della cultura, invade la vita privata. Diventa sempre più onnipresente. Questa tendenza non si è manifestata il 24 febbraio dell’anno scorso, ma prima. La guerra ha solo accelerato il processo.

Come ha fatto il mio paese, uscito dal totalitarismo comunista, a precipitare in un nuovo totalitarismo? Come dovremmo definire questo genere di totalitarismo? Di chi è la colpa di quanto è successo?

Anche a queste domande è dedicato il mio breve articolo, per il quale adesso sono sotto processo.

Mi rendo conto che ci sono persone che diranno: che vuoi farci, la legge è legge. Se hanno adottato una legge, significa che bisogna rispettarla.

Ricordiamo che nel 1935 in Germania sono state adottate le cosiddette leggi di Norimberga. E poi, dopo la vittoria del 1945, gli esecutori di quelle leggi sono stati processati.

Non sono del tutto certo che gli attuali promotori ed esecutori delle leggi antigiuridiche e anticostituzionali della Federazione Russa si troveranno a rispondere di fronte a un tribunale. Ma una pena sarà inevitabile. I loro figli e nipoti si vergogneranno di dire dove lavoravano e cosa facevano padri, madri, nonni e nonne. La stessa cosa succederà a chi adesso, eseguendo gli ordini, commette crimini in Ucraina. A mio avviso, questa è la pena più spaventosa. Ed è inevitabile.

Be’, una pena è inevitabile anche per me, perché al momento un’assoluzione con un’accusa del genere è impossibile.

Adesso vedremo quale sarà la sentenza.

Ma negli anni Novanta del secolo scorso, nella nuova Russia, non credo di avere contribuito inutilmente alla stesura della legge sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. E nella Russia libera del futuro quella legge sarà sicuramente migliorata e rielaborata per riabilitare tutti i prigionieri politici di oggi, tutte le persone condannate per motivi politici, compresi coloro che sono stati condannati per la loro posizione contraria alla guerra.

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Tuttavia a metà dicembre del 2023 il Mosgorsud, Tribunale della città di Mosca, annulla la sentenza emessa dal tribunale distrettuale Golovinskij di Mosca e rinvia il caso alla procura. Il 29 dicembre il pubblico ministero Il’ja Savčenko emette una disposizione in base alla quale Orlov è chiamato nuovamente a rispondere come imputato. L’articolo del codice penale della Federazione Russa cui si fa riferimento è sempre lo stesso: il 280.3 p. 1, relativo al vilipendio reiterato delle forze armate della Federazione Russa per l’articolo Volevano il fascismo e l’hanno ottenuto, ma al caso sono aggiunte circostanze aggravanti sotto forma di “motivi di incitamento all’odio e all’ostilità”. Gli inquirenti sostengono che Orlov abbia pubblicato l’articolo guidato da “ostilità ideologica contro i tradizionali valori morali, spirituali e patriottici russi” e dall’odio nei confronti del gruppo sociale costituito dai “militari delle forze armate della Federazione Russa”. Orlov rifiuta di rispondere alle domande del giudice e degli inquirenti, facendo riferimento al comportamento tenuto dai dissidenti e difensori dei diritti umani di epoca sovietica tra i quali Sergej Kovalëv, poiché ritiene che si tratti di un processo ingiusto e assurdo e, nel corso delle udienze, legge Il processo di Franz Kafka. Il 26 febbraio 2024, al termine di questo secondo processo e prima di essere condannato a due anni e sei mesi reclusione, pronuncia la sua seconda ed ultima dichiarazione.

 

Non ho nessun rimpianto e niente di cui pentirmi (26 febbraio 2024)

Il giorno in cui è iniziato questo processo la Russia e il mondo sono stati scossi dallo spaventoso annuncio della morte di Aleksej Naval’nyj. Anche io ne sono rimasto scosso. Ho anche pensato di rinunciare alla mia ultima dichiarazione: cosa dichiarare oggi, mentre tutti noi non ci siamo ancora ripresi dallo shock provocato dalla notizia? Ma poi ho pensato che sono tutti anelli della stessa catena: la morte o, più esattamente, l’assassinio di Aleksej, le rappresaglie giudiziarie contro altre persone che criticano il regime, me compreso, il soffocamento della libertà nel paese, l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito della Federazione Russa. E ho deciso di parlare comunque.

Non ho commesso alcun reato. Sono sotto processo per un articolo in cui ho definito totalitario e fascista il regime politico che si è venuto a creare in Russia. L’articolo risale a più di un anno fa. E all’epoca alcuni miei conoscenti pensavano che io caricassi troppo le tinte.

Ma adesso è del tutto evidente che non esageravo affatto. Nel nostro paese lo Stato non solo controlla di nuovo la vita pubblica, politica ed economica, ma ambisce anche al controllo assoluto della cultura, del pensiero scientifico, invade la vita privata. Diventa onnipresente.

In poco più di quattro mesi, da quando si è concluso il mio primo processo in questo stesso tribunale, sono successe molte cose che dimostrano con quanta velocità il nostro paese stia sempre più sprofondando nel buio.

Elencherò una serie di fatti di varia natura, differenti sia per dimensioni, sia per tragicità:

– in Russia sono proibiti i libri di molti autori russi contemporanei;

– è stato proibito il movimento LGBT, come è impropriamente definito, fatto che in sostanza è una palese ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini;

– alla Scuola superiore di economia è stato proibito citare gli agenti stranieri. Adesso gli studenti, prima di affrontare una materia, devono studiare e imparare a memoria l’elenco degli agenti stranieri;

– il noto sociologo e saggista di sinistra Boris Kagarlickij è stato condannato a cinque anni di reclusione per avere parlato di alcuni episodi della guerra in Ucraina utilizzando parole che contrastano con la versione sostenuta ufficialmente;

– l’uomo che i propagandisti definiscono leader della nazione, parlando dell’inizio della Seconda guerra mondiale, dice pubblicamente quanto segue: “Ma i polacchi lo hanno costretto, hanno tirato troppo la corda e hanno costretto Hitler a iniziare la Seconda guerra mondiale proprio con loro. Perché la guerra è iniziata proprio dalla Polonia? Perché la Polonia era intransigente. Per realizzare i suoi piani Hitler non aveva altra scelta se non quella di iniziare proprio dalla Polonia”.

Come bisognerebbe definire un ordinamento politico in cui accade quanto ho elencato? A mio avviso, non ci sono dubbi sulla risposta. Purtroppo nel mio articolo avevo ragione.

È vietata non solo la critica pubblica, ma anche qualsiasi opinione indipendente. È possibile essere sanzionati per azioni che all’apparenza non hanno alcun legame con la politica o con la critica del potere. Non esistono ambiti dell’arte in cui sia possibile esprimersi liberamente, non esistono discipline umanistiche accademiche libere, non esiste più nemmeno la vita privata.

Adesso dirò qualche parola sulla natura delle accuse avanzate contro di me e che si avanzano in numerosi altri processi contro chi, come me, si oppone alla guerra.

Quando è iniziato questo secondo processo contro di me, ho rinunciato a partecipare e quindi durante le udienze ho avuto la possibilità di rileggere Il processo di Franz Kafka. In effetti la nostra attuale situazione e quella in cui si è ritrovato il protagonista del romanzo di Kafka hanno alcuni tratti in comune: l’assurdo e l’arbitrio, mascherati da rispetto formale di certe procedure pseudogiuridiche.

Ci accusano di vilipendio, senza spiegare di cosa si tratti e perché sia diverso da una legittima critica. Ci accusano di diffusione di informazioni deliberatamente false, senza degnarsi di dimostrarne la falsità. Il potere sovietico agiva allo stesso modo, quando definiva le critiche falsità. E i nostri tentativi di dimostrare l’autenticità di quelle informazioni diventano penalmente perseguibili. Ci accusano di non sostenere il sistema di opinioni e la visione del mondo che i dirigenti del paese hanno proclamato corretti, e questo quando l’ideologia di Stato in Russia non dovrebbe esistere. Emettono sentenze di condanna contro di noi perché non crediamo che l’aggressione nei confronti di uno Stato confinante abbia come obiettivo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.

È assurdo.

Fino alla fine il protagonista del romanzo di Kafka non sa neppure di cosa lo accusino ma, comunque, emettono una sentenza di condanna contro di lui e lo giustiziano. In Russia invece ci notificano un’accusa formale, ma è impossibile comprenderla, se si vuole rimanere nell’ambito del diritto e della logica.

Tuttavia, a differenza del protagonista del romanzo di Kafka, in realtà noi comprendiamo perché ci fermano, giudicano, arrestano, condannano, uccidono. In realtà ci sanzionano perché ci permettiamo di criticare il potere. Nella Russia di oggi è assolutamente proibito.

Deputati, inquirenti, pubblici ministeri e giudici non lo dicono apertamente. Lo nascondono sotto le formulazioni assurde e illogiche delle loro cosiddette nuove leggi, degli atti di accusa e delle sentenze. Ma non è così.

Adesso nelle colonie penali e nelle carceri stanno lentamente uccidendo Aleksej Gorinov, Aleksandra Skočilenko, Igor’ Baryšnikov, Vladimir Kara-Murza e molte altre persone. Li stanno uccidendo perché hanno protestato contro la carneficina in Ucraina, perché vogliono che la Russia diventi uno stato democratico e prospero che non costituisca una minaccia per il mondo circostante.

Negli ultimi giorni hanno fermato, sanzionato e addirittura incarcerato alcune persone solo perché sono andate a rendere omaggio accanto ai monumenti dedicati alle vittime delle repressioni politiche ad Aleksej Naval’nyj, assassinato, un uomo straordinario, coraggioso, onesto, che in condizioni davvero difficilissime, appositamente create per lui, non ha perso l’ottimismo e la fede nel futuro del nostro paese. Perché, sì, è stato un assassinio, a prescindere dalle circostanze specifiche della morte.

Le autorità sono in guerra anche con Naval’nyj morto, hanno paura di lui anche da morto, e fanno bene ad avere paura.

Le autorità stanno distruggendo i memoriali sorti in modo spontaneo per ricordarlo.

Chi lo fa spera in questo modo di demoralizzare quella parte della società russa che continua a sentirsi responsabile per il proprio paese.

Hanno poco da sperare.

Noi ricordiamo l’invito di Aleksej: “Non arrendetevi”. Da parte mia aggiungo: non perdetevi d’animo, non abbandonate l’ottimismo. Perché la verità è dalla nostra parte. Chi ha condotto il nostro paese nel baratro in cui si trova adesso rappresenta ciò che è vecchio, decrepito, superato. Non hanno un’idea di futuro, ma solo immagini fasulle del passato, miraggi di grandezza imperiale. Spingono la Russia a ritroso, indietro, nella distopia descritta da Vladimir Sorokin nel romanzo La giornata di un opričnik. Ma noi viviamo nel ventunesimo secolo, davanti a noi ci sono il presente e il futuro, e in questo sta la garanzia della nostra vittoria.

Per concludere il mio intervento, vorrei rivolgermi – forse in modo inaspettato per molti – a coloro che adesso con il loro lavoro stanno spingendo il rullo compressore delle repressioni. Ai funzionari governativi, ai dipendenti delle forze dell’ordine, ai giudici, ai pubblici ministeri.

In realtà capite tutto benissimo. E di certo non siete tutti convinti sostenitori della necessità delle repressioni politiche. A volte vi dispiace fare ciò che dovete, ma vi dite: “E cosa potrei fare? Mi limito a eseguire gli ordini dei superiori. La legge è legge”.

Mi rivolgo a Lei, presidente della corte, e all’avvocato dell’accusa. Non avete paura? Non avete paura di vedere che cosa sta diventando il nostro paese che, con ogni probabilità, amate anche voi? Non avete paura che in questa assurdità, in questa distopia, probabilmente, dobbiate vivere non solo voi e i vostri figli, ma anche, Dio non voglia, i vostri nipoti?

Non vi viene in mente un fatto ovvio? Che prima o poi il rullo compressore delle repressioni potrebbe travolgere anche chi lo ha messo in moto e fatto camminare. Nella storia è successo molte volte.

Ripeto quanto ho detto nel precedente processo.

Sì, la legge è legge. Ma, ricordiamo, nel 1935 in Germania sono state adottate le cosiddette leggi di Norimberga. E poi, dopo la vittoria del 1945, gli esecutori di quelle leggi sono stati processati.

Non sono del tutto certo che gli attuali promotori ed esecutori delle leggi antigiuridiche e anticostituzionali della Federazione Russa si troveranno a rispondere di fronte a un tribunale. Ma una pena sarà inevitabile. I loro figli e nipoti si vergogneranno di dire dove lavoravano e cosa facevano padri, madri, nonni e nonne. La stessa cosa succederà a chi adesso, eseguendo gli ordini, commette crimini in Ucraina. A mio avviso, questa è la pena più spaventosa. Ed è inevitabile.

Be’, una pena è inevitabile anche per me, perché al momento un’assoluzione con un’accusa del genere è impossibile.

Adesso vedremo quale sarà la sentenza.

Ma non ho nessun rimpianto e niente di cui pentirmi.

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Pisa, 8-29 novembre 2024. Mostra “GULag: storia e immagini dei lager di Stalin”.

Il 9 novembre 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino e nel 2005 il parlamento italiano istituisce il Giorno della Libertà nella ricorrenza di quella data, “simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo”. Per l’occasione, l’assessorato alla Cultura del Comune di Pisa porta a Pisa la mostra GULag: storia e immagini dei lager di Stalin. La mostra, a cura di Memorial Italia, documenta la storia del sistema concentrazionario sovietico illustrata attraverso il materiale documentario e fotografico proveniente dagli archivi sovietici e descrive alcune delle principali “isole” di quello che dopo Aleksandr Solženicyn è ormai conosciuto come “arcipelago Gulag”: le isole Solovki, il cantiere del canale Mar Bianco-Mar Baltico (Belomorkanal), quello della ferrovia Bajkal-Amur, la zona mineraria di Vorkuta e la Kolyma, sterminata zona di lager e miniere d’oro e di stagno nell’estremo nordest dell’Unione Sovietica, dal clima rigidissimo, resa tristemente famosa dai racconti di Varlam Šalamov. Il materiale fotografico, “ufficiale”, scattato per documentare quella che per la propaganda sovietica era una grande opera di rieducazione attraverso il lavoro, mostra gli edifici in cui erano alloggiati i detenuti, la loro vita quotidiana e il loro lavoro. Alcuni pannelli sono dedicati a particolari aspetti della vita dei lager, come l’attività delle sezioni culturali e artistiche, la propaganda, il lavoro delle donne, mentre altri illustrano importanti momenti della storia sovietica come i grandi processi o la collettivizzazione. Non mancano una carta del sistema del GULag e dei grafici con i dati statistici. Una parte della mostra è dedicata alle storie di alcuni di quegli italiani che finirono schiacciati dalla macchina repressiva staliniana: soprattutto antifascisti che erano emigrati in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta per sfuggire alle persecuzioni politiche e per contribuire all’edificazione di una società più giusta. Durante il grande terrore del 1937-38 furono arrestati, condannati per spionaggio, sabotaggio o attività controrivoluzionaria: alcuni furono fucilati, altri scontarono lunghe pene nei lager. La mostra è allestita negli spazi della Biblioteca Comunale SMS Biblio a Pisa (via San Michele degli Scalzi 178) ed è visitabile da venerdì 8 novembre 2024, quando verrà inaugurata, alle ore 17:00, da un incontro pubblico cui partecipano Elena Dundovich (docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Pisa e socia di Memorial Italia), Ettore Cinnella (storico dell’Università di Pisa) e Marco Respinti (direttore del periodico online Bitter Winter). Introdotto dall’assessore alla cultura Filippo Bedini e moderato da Andrea Bartelloni, l’incontro, intitolato Muri di ieri e muri di oggi: dal gulag ai laogai, descriverà il percorso che dalla rievocazione del totalitarismo dell’Unione Sovietica giunge fino all’attualità dei campi di rieducazione ideologica nella Repubblica Popolare Cinese. La mostra resterà a Pisa fino al 28 novembre.

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La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz.

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz con curatela di Luca Bernardini (Guerini e Associati, 2024). Una testimonianza al femminile sull’universo del Gulag e sugli orrori del totalitarismo sovietico. Arrestata nel 1945 a ventidue anni per la sua attività nell’AK (Armia Krajowa), l’organizzazione militare clandestina polacca, Anna Szyszko-Grzywacz viene internata nel lager di Vorkuta, nell’Estremo Nord della Siberia, dove trascorre undici anni. Nella ricostruzione dell’esperienza concentrazionaria, attraverso una descrizione vivida ed empatica delle dinamiche interpersonali tra le recluse e della drammatica quotidianità da loro vissuta, narra con semplicità e immediatezza la realtà estrema e disumanizzante del Gulag. Una realtà dove dominano brutalità e sopraffazione e dove la sopravvivenza per le donne, esposte di continuo alla minaccia della violenza maschile, è particolarmente difficile. Nell’orrore quotidiano raccontato da Anna Szyszko-Grzywacz trovano però spazio anche storie di amicizia e solidarietà femminile, istanti di spensieratezza ed emozioni condivise in una narrazione in cui alla paura e alla dolorosa consapevolezza della detenzione si alternano le aspettative e gli slanci di una giovane donna che non rinuncia a sperare, malgrado tutto, nel futuro. Anna Szyszko-Grzywacz nasce il 10 marzo 1923 nella parte orientale della Polonia, nella regione di Vilna (Vilnius). Entra nella resistenza nel settembre 1939 come staffetta di collegamento. Nel giugno 1941 subisce il primo arresto da parte dell’NKVD e viene rinchiusa nella prigione di Stara Wilejka. Nel luglio 1944 prende parte all’operazione “Burza” a Vilna come infermiera da campo. Dopo la presa di Vilna da parte dei sovietici i membri dell’AK, che rifiutano di arruolarsi nell’Armata Rossa, vengono arrestati e internati a Kaluga. Rilasciata, Anna Szyszko cambia identità, diventando Anna Norska, e si unisce a un’unità partigiana della foresta come tiratrice a cavallo in un gruppo di ricognizione. Arrestata dai servizi segreti sovietici nel febbraio 1945, viene reclusa dapprima a Vilna nel carcere di Łukiszki, e poi a Mosca alla Lubjanka e a Butyrka. In seguito alla condanna del tribunale militare a venti anni di lavori forzati, trascorre undici anni nei lager di Vorkuta. Fa ritorno in patria il 24 novembre 1956 e nel 1957 sposa Bernard Grzywacz, come lei membro della Resistenza polacca ed ex internato a Vorkuta, con cui aveva intrattenuto per anni all’interno del lager una corrispondenza clandestina. Muore a Varsavia il 2 agosto 2023, all’età di cento anni. Recensioni La mia vita nel Gulag in “Archivio storico”. La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz di Paolo Rausa in “Italia-express”, 13 dicembre 2024. “Una donna nel Gulag”: Anna Szyszko-Grzywacz, la vittoria dei vinti di Elena Freda Piredda in “Il sussidiario.net”, 20 dicembre 2024.

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