(Foto: Kremlin.ru, CC BY 3.0,
via Wikimedia Commons)
(di Andreas Umland, analista presso l’Istituto Svedese per gli Affari Internazionali di Stoccolma. Traduzione di Giulio Novazio)
06 marzo 2024
alle 12:21
L’articolo riassume i risultati di un progetto di consulenza politica che si compone di quattro relazioni separate realizzate dallo studioso nel 2023.

Gli osservatori sono concordi nel ritenere che la guerra russo-ucraina deve finire il prima possibile. La maggior parte degli ucraini non potrebbe essere più d’accordo. Anche molti russi sembrerebbero non essere contrari alla fine di questa carneficina. Perché allora le due parti non hanno ancora raggiunto una pace negoziata e probabilmente non lo faranno in tempi brevi?
Sono almeno sei gli elementi che impediscono un compromesso tra Kyiv e Mosca: le Costituzioni dei due Paesi, i rispettivi fronti interni, le peculiari esigenze della Crimea e il suo ruolo per la Russia, nonché la memoria storica dell’Europa centro-orientale. Ognuno di questi ostacoli a una tregua rapida è di per sé significativo e il loro impatto combinato sui decisori a Kyiv e a Mosca è notevole.
In questo momento è quindi inutile premere per un cessate-il-fuoco negoziato e in qualche misura duraturo – per non parlare di una pace sostenibile. Tale strategia non solo è inconcludente, ma può anche assorbire le energie necessarie a percorrere strade più promettenti per una soluzione del conflitto.
1 e 2: Le Costituzioni dei due Paesi
I fondamenti del diritto internazionale, ossia l’inviolabilità dei confini e l’integrità territoriale degli Stati, sono spesso citati come ostacoli a un compromesso tra Kyiv e Mosca. Senza dubbio è così. Tuttavia, le norme internazionali fondamentali non sono il maggior ostacolo giuridico a un compromesso frutto di negoziati.
La Russia post-sovietica ha cominciato molto presto a creare e sostenere movimenti separatisti, scatenando o alimentando guerre civili e istituendo cosiddette “repubbliche” o “repubbliche popolari” nello spazio che considera il proprio cortile di casa. Dieci anni fa però, Mosca è andata oltre a questa strategia informale per distruggere gli stati indipendenti nati con la fine del suo impero. Nel marzo 2014 ha formalmente annesso la Crimea, diventata così parte ufficiale della sua cosiddetta federazione. Nel settembre 2022 ha ripetuto questa mossa, inconsueta, dichiarando l’annessione di quattro regioni del sud-est dell’Ucraina e modificando la legislazione russa per incorporarle pienamente. Di conseguenza, la Costituzione russa rivendica adesso cinque regioni ucraine e ci sono decine di atti giuridici di livello inferiore come leggi, decreti e risoluzioni che fanno lo stesso.
Naturalmente, secondo il diritto ucraino e internazionale si tratta di rivendicazioni infondate. Inoltre, al contrario di quanto credono molti russi e alcuni osservatori stranieri male informati, sono anche poco convincenti sul piano storico. I territori in questione non appartenevano infatti alla Moscovia, spesso invocata come stato russo primordiale, ma sono stati colonizzati in epoche successive dall’impero zarista e da quello sovietico. Eppure, le pretese, illegali e avulse dalla storia, che Mosca avanza su queste cinque regioni ucraine sono ora parte integrante della legge fondamentale russa, della legislazione federale e della struttura dello stato. Ciò ha avuto già profondi effetti psicologici e materiali sulla vita economica, sociale, culturale e privata di chi subisce l’occupazione russa, soprattutto in Crimea.
Entrambe le Costituzioni sono difficili da modificare. Quella ucraina, in teoria, può essere emendata rapidamente con una maggioranza dei due terzi nel parlamento monocamerale, la Verchovna Rada (“Consiglio Supremo”) dell’Ucraina. Tuttavia, una riforma costituzionale sull’assetto territoriale non passerà mai. Su pressione di Berlino e di Parigi, nell’agosto 2015 l’ex presidente Petro Porošenko aveva cercato di cambiare la Costituzione ucraina, in modo marginale e temporaneo, per rispettare i famigerati Accordi di Minsk. Dopo l’annuncio di una votazione parlamentare su tale riforma, minore e probabilmente irrilevante, davanti alla Verchovna Rada a Kyiv, in pieno centro, sono scoppiati violenti scontri, con diversi morti e decine di feriti. La proposta di concedere uno status speciale temporaneo ai territori del Donbas occupati dalla Russia è stata respinta. In questo contesto, e alla luce di altri fattori, è impensabile che l’Ucraina rinunci a parte del suo legittimo territorio.
Al contrario, la prospettiva che la Russia revochi le riforme costituzionali con cui nel 2014 e nel 2022 ha formalizzato l’annessione delle sue conquiste è politicamente meno inverosimile. Tuttavia, anche se maturasse tale intenzione, per Mosca sarebbe difficile rispettare gli obblighi previsti dal diritto internazionale. Sul piano politico annettere territori è infatti più conveniente che cederli. Inoltre, in Russia il procedimento di revisione costituzionale è più complesso che in Ucraina. Un ipotetico sostegno del parlamento alla restituzione delle regioni annesse sarebbe solo il primo passo verso una nuova riforma costituzionale. Affinché tale inversione si concretizzi, devono cambiare radicalmente sia il regime a Mosca sia la situazione sul campo in Ucraina. In altre parole, sul piano formale e su quello legale la Russia rinnegherà l’avventura espansionistica di Putin solo dopo il suo fallimento. La speranza che in seguito a un processo diplomatico l’Ucraina e/o la Russia emendino anche solo temporaneamente la propria costituzione è irrealistica.
3 e 4: Cittadini intransigenti
Sia in Ucraina che in Russia ci sono importanti gruppi, sociali e politici, che rifiutano qualsiasi compromesso territoriale e politico con il nemico. A causa del gran numero di morti da entrambe le parti, anche concessioni simboliche metterebbero i rispettivi governi in difficoltà sul fronte interno. Persino la più piccola apertura alla parte avversaria, frutto di negoziati ipotetici, verrebbe considerata tradimento nazionale. Una fetta più o meno ampia della popolazione e interi partiti politici si opporrebbero, alzando la voce e ingaggiando una battaglia politica e, forse, anche fisica.
Beninteso, gli oltranzisti ucraini e quelli russi non sono paragonabili né sul piano normativo né su quello politico. Come le rivendicazioni territoriali inscritte nelle Costituzioni di entrambi i Paesi, i due gruppi sono profondamente diversi sotto molti aspetti: morali, storici, culturali. Da un lato, in Ucraina i cittadini più intransigenti reclamano semplicemente il ripristino della legalità, dell’ordine e della giustizia. Questo gruppo costituisce la maggioranza, anche se a partire dallo scorso anno si è leggermente ridotto.
Dall’altro lato, in Russia ci sono diversi tipi di oltranzisti che insistono sulla necessità di mantenere, almeno in parte, le conquiste territoriali e politiche frutto dell’intervento militare cominciato nel 2014. I più radicali, tra cui Vladimir Putin, ritengono che l’espansione territoriale finora raggiunta sia insufficiente e considerano russe alcune regioni non ancora annesse illegalmente, come Odesa e Mykolaïv. Secondo questa visione, la non appartenenza dello stato ucraino all’UE e alla NATO deve essere permanente e la sua sovranità va limitata sotto molti altri aspetti, dalla lingua alle politiche di difesa. È anche vero, però, che in Russia i gruppi sociali oltranzisti sono più piccoli e meno radicati rispetto a quelli in Ucraina. Se in futuro l’opinione pubblica russa potrebbe accettare la perdita di gran parte dei relativi guadagni ottenuti con la guerra, è molto più improbabile che la popolazione ucraina tolleri la perdita ufficiale di territori e/o di sovranità. Tuttavia, l’annessione della Crimea del 2014 continua a essere ampiamente sostenuta dalla popolazione russa, anche ben al di là del nucleo dichiaratamente imperialista.
Tale scenario pone il Cremlino, la popolazione russa e gli attori esterni di fronte a un dilemma strategico peculiare: per ragioni geografiche, tra le cinque regioni ucraine che la Russia ha annesso dal 2014, la Crimea è quella più difficile da difendere e da rifornire. La penisola sul Mar Nero è, infatti, il territorio occupato più lontano e meno agevole da raggiungere; un bottino di guerra che la Russia faticherà a tenersi. Allo stesso tempo è la conquista territoriale a cui i russi tengono di più, e presumibilmente lo resterà. (Sul nodo della Crimea torneremo in seguito.)
Certo, gli obbiettivi, i sentimenti e le idee circa la guerra che i cittadini ucraini e russi hanno espresso nei sondaggi di opinione fin dal 2014 variano, per contenuto e intensità. Negli ultimi due anni, tali variazioni sono state più nette in entrambi i Paesi. Tuttavia, ampie maggioranze da una parte e dall’altra continuano a sostenere posizioni inconciliabili: in Ucraina la completa restaurazione dell’integrità territoriale, in Russia l’irreversibilità della conquista della Crimea.
Nei due Paesi ci sono gruppi oltranzisti che si servono di una retorica massimalista e sono fermamente contrari a qualsiasi concessione. Questi gruppi sociali particolarmente intransigenti, in Russia come in Ucraina, comprendono individui che dispongono di armi e sanno come usarle.
Anche dopo un’ipotetica revisione della Costituzione ucraina, di quella russa o di entrambe, rimarrebbe questo duplice ostacolo a negoziati proficui. In futuro, entrambi i governi potrebbero essere inclini a raggiungere una pace negoziata, ma non si capisce che genere di compromesso riuscirebbero a far digerire ai gruppi meno accomodanti. Alla luce dell’intransigenza diffusa nella società russa e in quella ucraina, sia Mosca che Kyiv rischierebbero la guerra civile.
In effetti, dal 2014 Mosca cerca di trasformare la guerra contro l’Ucraina, combattuta prima per procura e poi apertamente, in una guerra civile interna alla nazione politica ucraina. Stranamente, per otto anni l’Occidente ha sostenuto tale strategia, facendo pressione su Kyiv perché applicasse gli Accordi di Minsk. Questa politica vergognosa, di cui Berlino e Parigi erano le principali responsabili, è stata interrotta solo nel febbraio 2022.
Come ha illustrato la ribellione di Prigožin nell’estate 2023, la prospettiva di disordini sociali sul fronte interno è motivo di preoccupazione anche per la leadership russa. La rivolta armata guidata da Prigožin, è bene ricordarlo, era motivata dalla convinzione che a Mosca mancasse lo spirito guerriero, non quello pacifista. Data la precarietà della situazione politica in entrambi i Paesi, è improbabile che Kyiv o Mosca possano fare concessioni tali da raggiungere un cessate-il-fuoco duraturo, per non parlare di un accordo di pace.
5: Il dilemma della Crimea
Il quinto ostacolo a una pace negoziata è il ruolo peculiare che la Crimea ricopre nell’immaginario collettivo russo e nell’espansione militare cominciata nel 2014. Come detto, la Crimea è la conquista territoriale di Putin maggiormente apprezzata dai russi, molto più di Abcasia, Transnistria, Ossezia del Sud, Donec’k, Luhans’k, Zaporižžja o Cherson. Ciò è vero nonostante l’annessione del 2014 si fondasse su una narrazione storica profondamente distorta circa una presunta Crimea russa.
Nella sua storia, la Crimea è stata legata amministrativamente al territorio dell’odierna Federazione Russa per soli trentadue anni, dal 1922 al 1954. In precedenza, era stata connessa al territorio dell’odierna Ucraina continentale meridionale attraverso il khanato di Crimea (fino al 1783) e il governatorato della Tauride dell’impero dei Romanov (1802-1917). Dopo un breve periodo come parte della cosiddetta Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa è stata legata tramite la Repubblica Sovietica Ucraina (1954-1991) e l’Ucraina indipendente (dal 1991) al territorio dell’odierno stato ucraino nei suoi confini internazionalmente riconosciuti.
Il carattere russo della Crimea è in parte una finzione storica e in parte il risultato di spietati programmi di ingegneria demografica condotti dai regimi in epoca pre-sovietica, sovietica e post-sovietica.
Negli ultimi 240 anni San Pietroburgo e Mosca hanno ridotto radicalmente il numero di tatari di Crimea che vivono sulla penisola: nel 1785 erano l’84% della popolazione, oggi, secondo statistiche ufficiali russe, sono il 12%. Gli zar, i bolscevichi e Vladimir Putin hanno messo in atto violente repressioni, deportazioni ed espulsioni per cacciare, definitivamente, centinaia di migliaia di tatari di Crimea dalle loro terre d’origine.
Le politiche coloniali attuate in Crimea da San Pietroburgo e Mosca prevedevano inoltre la sostituzione dei popoli indigeni con russi, bielorussi e, fino al 1991, ucraini, che allora costituivano circa un quarto della popolazione totale. Dagli anni Quaranta del secolo scorso la maggioranza è di etnia russa. Ciò è stato possibile solo dopo che su ordine di Stalin quasi tutti gli indigeni sono stati brutalmente deportati nella parte asiatica dell’Unione Sovietica. Deportazione durante la quale molti di loro morirono. La dominanza etnica e demografica della Russia, ottenuta per mezzo di un orrendo crimine di massa, dura da meno di 80 anni.
Eppure, la maggioranza dei russi e alcuni osservatori stranieri credono che la Crimea appartenga alla Russia.
Per i russi questo mito si nutre non tanto della sua storia, perlopiù separata da quella russa, quanto della sua bellezza, delle sue lunghe spiagge sul Mar Nero e del suo clima in parte subtropicale. Quando Putin ha annesso la Crimea, la gente in Russia era talmente estasiata che il livello di corruzione percepita, rilevato da Amnesty International, è temporaneamente sceso. Nel 2014, per la maggioranza dei russi l’erba era più verde e il cielo era più blu. Ciò non solo rende improbabile la restituzione negoziata della Crimea, ma rappresenta anche un dilemma strategico per il Cremlino.
In futuro Mosca potrebbe volere la fine della guerra. Una nuova leadership potrebbe essere addirittura disposta a “sacrificare” alcuni dei territori a nord della Crimea annessi nel 2022. Quegli stessi territori che sono però da sempre necessari allo sviluppo della penisola. Il profondo legame storico e geografico tra Crimea e Ucraina continentale è, infatti, il motivo principale per cui nel 1954 il governo sovietico nella sua interezza (non Nikita Chruščëv da solo) ha deciso di trasferirla dalla Repubblica Sovietica Russa alla Repubblica Sovietica Ucraina. Nel 2022, considerazioni per certi versi simili hanno spinto Putin ad attaccare l’Ucraina su larga scala. Dopo l’annessione del 2014 ha capito che la Russia deve occupare anche le regioni a nord per rendere sostenibile la crescita economica della perla sul Mar Nero. Tra il 2014 e il 2021 la Crimea non è stata solo la regione più illegale della Federazione Russa, ma anche quella a cui erano destinate le sovvenzioni maggiori.
La penisola è quindi parte integrante di un’area geoeconomica più ampia, che comprende vaste zone dell’Ucraina continentale. Con ipotetici negoziati sul futuro dei territori attualmente occupati, sia Kyiv che Mosca si giocherebbero il tutto per tutto. Ancor di più quando le forze armate ucraine avranno distrutto il ponte di Kerč’, un evento che prima o poi probabilmente si verificherà. Uno scenario in cui la Russia si tiene la Crimea come premio di consolazione, ma accetta, non senza riserve, che l’Ucraina riconquisti gli altri territori occupati è tanto inaccettabile per Kyiv quanto insostenibile per il Cremlino. Mantenere la Crimea come exclave isolata e lontana dal proprio territorio non avrebbe infatti molto senso per Mosca, né dal punto di vista economico né da quello strategico.
Tuttavia, molti osservatori non ucraini considerano la Crimea oggetto di negoziato e potenziale strumento per raggiungere un compromesso. In realtà, la penisola non è né l’uno né l’altro. Basta dare uno sguardo a una carta geografica e una scorsa alla storia della Crimea su Wikipedia per capire che al tavolo negoziale la penisola sarebbe parte del problema e non della sua soluzione. La necessità di collegare la Crimea al nord dell’Ucraina – ossia Zaporižžja, Cherson e il Donbas – rende meno probabile un compromesso tra Kyiv e Mosca.
6: Lo scetticismo dell’Europa centro-orientale nei confronti di Mosca
Il fattore che forse più di ogni altro trattiene Kyiv dall’intavolare negoziati prematuri con Mosca è la sua esperienza storica con la Russia, insieme alla chiave comparativa in cui interpreta il suo attuale dilemma. La storia nazionale ucraina, così come quella di altre nazioni dell’Europa centro-orientale, suggerisce che la Russia non rispetterà un accordo raggiunto per vie diplomatiche invece che con una vittoria militare. Negli ultimi trent’anni l’Ucraina indipendente ha firmato centinaia di accordi con la Russia, la validità della maggior parte dei quali oggi è nulla.
Tra questi ci sono sia memorandum d’intesa sia accordi politici come il Memorandum di Budapest (1994) e gli Accordi di Minsk (2014/2015), ma anche accordi ratificati integralmente, per esempio l’Accordo di Beloveža (1991) firmato da Boris El’cin e il Trattato sul confine di stato russo-ucraino (2003) firmato da Vladimir Putin. Molti di questi documenti riconoscono implicitamente i confini, l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina. Eppure, perfino quelli firmati da un presidente della Federazione e ratificati dal parlamento russo, nel 2014 e nel 2022 si sono rivelati privi di valore.
Tra i primi e più istruttivi esempi di come la Russia post-sovietica si comporta con le sue ex colonie ci sono l’intervento militare in Moldova e i successivi negoziati, nei primi anni Novanta, quando Putin era ancora un burocrate di secondo rango a San Pietroburgo. Nel 1992, il comandante della Quattordicesima Armata, il defunto Aleksandr Lebed’, ha giustificato l’intervento delle sue truppe in un conflitto interno alla Moldova sostenendo che il nuovo governo fosse responsabile di azioni peggiori di quelle compiute cinquant’anni prima dalle SS, una spiegazione che Putin avrebbe riproposto con l’invasione dell’Ucraina nel 2014 e nel 2022. Il sostegno militare ai separatisti pro-russi in Moldova ha permesso il consolidamento del loro pseudo-stato: la Repubblica Moldava della Transnistria, un’entità dalla forma peculiare che si estende per centinaia di chilometri tra la sponda orientale del fiume Nistru e il confine tra Moldova e Ucraina.
Per risolvere la questione, negli anni Novanta la Moldova e l’Occidente hanno agito come oggi molti osservatori non ucraini consigliano di fare a Kyiv, Washinton e Bruxelles. Chișinău ha avviato negoziati con Mosca e coinvolto organizzazioni internazionali come l’OSCE. L’occidente non ha né applicato sanzioni economiche contro la Russia né sostenuto la Moldova con l’invio di armi. Nel 1994, Chișinău e Mosca hanno firmato un trattato che prevedeva il ritiro delle truppe russe dalla Moldova. Inoltre, nella nuova Costituzione adottata quello stesso anno la Moldova ha stabilito di non poter appartenere a blocchi geopolitici, escludendo così una futura adesione alla NATO.
Negli anni successivi Chișinău e Tiraspol hanno condotto numerosi negoziati; a volte con la partecipazione dell’Occidente, altre senza. Abbiamo assistito a un’applicazione da manuale di misure e strumenti per rafforzare la fiducia e risolvere il conflitto, tra cui la promozione di scambi economici, il rafforzamento di contatti interpersonali e la mediazione di organizzazioni internazionali. Tuttavia, i residui della Quattordicesima Armata comandata da Lebed’, oggi conosciuti come Gruppo operativo delle forze russe, sono ancora in Transnistria e continuano ad appoggiare il quasi-regime separatista. Dopo tre decenni, lo pseudo-stato sostenuto da Mosca nel territorio internazionalmente riconosciuto della Moldova è vivo e vegeto. Dal 2014, il Cremlino si serve della “repubblica” di Transnistria anche per minacciare la sicurezza dell’Ucraina da occidente.
Da trent’anni la Moldova è uno dei paesi più poveri d’Europa, nonché uno stato perennemente al collasso. Il destino della Moldova, il successo dell’esperimento russo in Transnistria e la reazione dell’Occidente hanno fornito al Cremlino elementi preziosi, che hanno informato le azioni e la strategia della Russia in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014. La Transnistria è diventata un modello a tal punto che nella primavera 2014 alcuni funzionari piazzati da Mosca nel cosiddetto governo dello pseudo-stato con capitale Tiraspol sono stati trasferiti nel Donbas, dove hanno contribuito a creare le cosiddette “repubbliche popolari” di Donec’k e Luhans’k, poi annesse dalla Russia nel 2022.
Dal punto di vista di Kyiv, l’esempio della Transnistria e simili avventure russe nello spazio post-sovietico non sono di buon auspicio per possibili negoziati con il Cremlino. Gli ucraini, come pure altri popoli e gruppi etnici dell’ex impero, zarista prima e sovietico poi, hanno pagato per secoli le conseguenze dell’imperialismo russo, che oggi è di nuovo l’ideologia, appena velata, di Mosca. La storia suggerisce non solo a Kyiv, ma anche a Helsinki, Tallinn, Riga, Vilnius, Varsavia, Praga e Bucarest, che l’Ucraina deve ottenere una vittoria, almeno parziale, prima di avviare negoziati sostanziali con la Russia.
Solo dopo una disfatta militare Mosca si impegnerà seriamente a trovare un compromesso che sia accettabile per Kyiv e potenzialmente duraturo.
Conclusioni
IIn futuro ci sarà spazio per i negoziati, ma non finché Kyiv non potrà trarne beneficio in virtù di cambiamenti sia sul fronte sia a Mosca. Un accordo firmato prima che l’Ucraina abbia ottenuto almeno un vantaggio militare significativo, e quindi una posizione negoziale di forza, sarebbe probabilmente una farsa. Invece che porre fine alla guerra, al massimo la rimanderebbe.
In effetti, un rapido cessate-il-fuoco potrebbe addirittura allungare il conflitto ad alta intensità e ciò sarebbe contrario agli interessi di sicurezza alla base dei negoziati. Per fare un paragone, gli Accordi di Minsk hanno sì ridotto l’intensità del conflitto nel 2014-2015, ma non hanno evitato la massiccia escalation del 2022, anzi probabilmente l’hanno favorita.
Quando Kyiv e Mosca avranno firmato un accordo significativo, bisognerà garantirne il funzionamento.
Alla luce del comportamento della Russia nello spazio post-sovietico negli ultimi trent’anni, la pace potrà essere raggiunta solo attraverso una deterrenza militare plausibile, che eviti una nuova escalation.
Fornire a Kyiv un adeguato supporto militare è quindi la strategia giusta sotto tre profili diversi.
1) Innanzitutto, contribuirà da subito a gettare le basi per negoziati sostanziali.
2) In secondo luogo, permetterà di raggiungere un accordo sostenibile tra Kyiv e Mosca, al contrario degli Accordi di Minsk.
3) Infine, garantirà una pace duratura.
Nella primavera 2014, Kyiv ha cercato di applicare alla Crimea celebri slogan pacifisti come “C’è la guerra e nessuno ci va” e “La pace non si fa con le armi”; una scelta motivata dall’approvazione esplicita, se non addirittura dall’incoraggiamento attivo, dell’Occidente. Il risultato è la più grande guerra europea dopo il 1945. Tale disastro strategico comporta una banale inferenza:
le azioni di Kyiv e dell’Occidente dovrebbero essere guidate da un’analisi empirica delle sfide reali e non da pie speranze e riferimenti storici irrilevanti.