La psichiatria punitiva in Russia. Un’arma di repressione efficace, che fa poco rumore

Una pratica sistematica al tempo dell’Urss, poi ripartita forte dopo il 2012, l’anno d’inizio del terzo mandato di Putin e delle proteste di piazza Bolotnaja, le più grandi nella Russia post-sovietica, e ulteriormente dopo febbraio 2022. Fino a diventare patologizzazione del dissenso.

(di Marco Simonetti)


12 febbraio 2024 
Ore 13:01


La psichiatria punitiva è sopravvissuta alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e negli ultimi vent’anni l’uso della psichiatria per fini politici è rimasta una pratica diffusa in Russia. A questo tema ha dedicato un reportage la “Novaja Gazeta”, testata giornalistica in prima linea nel dare voce al dissenso nella Russia di Putin. “[…] Decine di imputati sono già stati dichiarati pazzi e mandati, invece che in prigione, negli istituti psichiatrici,” scrive l’autrice Zoja Svetova. Ma l’obiettivo del Cremlino non è semplicemente quello di neutralizzare i dissidenti: dietro l’utilizzo politico della psichiatria si nasconde l’intenzione di rendere il dissenso una patologia.


“Nel mio reparto è arrivato un vecchio signore. Giocava a domino, camminava svelto, scherzava. Dopo qualche settimana di “cure” riusciva a malapena a muoversi […].”


Lo racconta Sergej Pribylov in un’intervista rilasciata a DOXA. Sergej è un attivista. Nel marzo 2018 tentò di incendiare le macchine di alcuni funzionari governativi per protestare contro le guerre che la Russia conduceva in Siria e in Ucraina. Condannato per teppismo, a sei mesi dall’arresto il tribunale decise di ricoverarlo all’Istituto Serbskij di Mosca, il principale centro di psichiatria forense della Russia. Qui gli fu diagnosticato un disturbo schizoide della personalità, fu dichiarato pericoloso per se stesso e per gli altri e venne trasferito nell’ospedale psichiatrico n. 5 a Čechov, non lontano dalla capitale, dove rimase per due anni.


Manifestazione sulla Piazza Bolotnaja
Manifestazione sulla Piazza Bolotnaja a Mosca nel dicembre 2011 (foto di Bogomolov.PL, CC BY-SA 3.0)


Quella di Sergej è solo una delle tante storie di persone sottoposte a trattamenti sanitari obbligatori per ordine dei tribunali. La piaga della psichiatria punitiva non è cosa recente. Il suo utilizzo era già prassi al tempo dell’URSS e ne divenne vittima anche lo scrittore Vladimir Bukovskij, rinchiuso in una psichuška – eufemismo per “manicomio”.


La psichiatria punitiva rimase una pratica ricorrente anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma il suo utilizzo sembra essere incrementato a partire dal 2012, l’anno d’inizio del terzo mandato di Putin e delle proteste di piazza Bolotnaja, le più grandi nella Russia post-sovietica. Proprio durante i fatti di piazza Bolotnaja venne arrestato il manifestante Michail Kosenko, poi dichiarato pazzo e condannato, come Sergej, a un trattamento sanitario obbligatorio presso l’Ospedale psichiatrico di Čechov. Durante la perizia psichiatrica forense (la cosiddetta pjatiminutka) gli venne chiesto per chi avesse votato alle elezioni. La stessa sorte toccò ad Aleksandr Gabyšev, dissidente originario della Jacuzia che nel 2019 organizzò una marcia di protesta da Jakutsk a Mosca. Nel maggio 2020 fu ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Jakutsk e nel 2021 venne dichiarato incapace di intendere e di volere. Il Centro per la difesa dei diritti umani Memorial considera Gabyšev un prigioniero politico.


Dal febbraio 2022 il ricorso alla psichiatria punitiva da parte delle autorità è aumentato ulteriormente. Maksym Lypkan, Elena Rodina, Viktorija Petrova: questi sono solo alcuni degli oppositori che negli ultimi mesi sono stati sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori per decisione dei tribunali. Lypkan e Petrova, ad esempio, sono stati accusati di aver diffuso materiale sui social media, in violazione della Legge federale Nr. 32-FZ del 4 marzo 2022, che criminalizza la diffusione di notizie false riguardo l’operato dell’esercito russo e il discredito delle Forze Armate russe, dichiarati pazzi e rinchiusi in un ospedale psichiatrico. Lo stesso Oleg Orlov, co-presidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, è stato recentemente condannato per aver violato la stessa legge. Nei suoi confronti, l’11 ottobre 2023 il pubblico ministero presentò una mozione per sottoporre Orlov a un esame psichiatrico forense. La mozione fu respinta dal giudice.


Dal tribunale al manicomio


L’utilizzo della psichiatria punitiva è una pratica sistematica. Le decisioni e le azioni di tutte le parti coinvolte – il pubblico ministero, i giudici, gli psichiatri, in certi casi persino la paura dei parenti e degli amici delle vittime – fanno sì che al termine del processo l’imputato venga rinchiuso in un centro psichiatrico.


Il viaggio dal tribunale al manicomio – e, nei casi più rari e fortunati, alla dimissione – inizia con l’arresto, l’accusa di reati come screditamento delle forze armate, istigazione al terrorismo o teppismo. Durante il processo il pubblico ministero può presentare una mozione per chiedere che l’imputato venga sottoposto a una perizia psichiatrica forense, la pjatiminutka. Il giudice può decidere di respingere o accogliere la mozione. Nel caso in cui venga accolta, l’imputato viene mandato in un centro medico-psichiatrico (come l’Istituto Serbskij) per essere esaminato. Durante l’esame di Maksym Lypkan, ad esempio, gli è stato chiesto della sua storia clinica e del perché avesse “un tale atteggiamento nei confronti dello Stato.”


Al termine della perizia, gli psichiatri fanno una diagnosi. È qui che si decidono le sorti dell’imputato, che può essere dichiarato sano oppure pericoloso per se stesso e per la comunità, “non avente capacità critiche e prognostiche”, schizofrenico, insomma: “malato di mente”. Nel caso di Michail Kosenko, gli psichiatri del Serbskij dichiararono l’uomo affetto da schizofrenia paranoide e pericoloso per se stesso e per gli altri. Questa diagnosi è stata ampiamente criticata e definita “oltraggiosa” dall’Associazione psichiatrica indipendente della Russia (IPA). Non mancano i casi di manomissione: nel caso di Viktorija Petrova, arrestata nel maggio 2022, la difesa ritiene che gli psichiatri abbiano distorto le risposte fornite dall’imputata durante l’esame psichiatrico.


Dopo la perizia, la diagnosi viene trasmessa al tribunale. Sarà il giudice a decidere se e in che modo trattare l’imputato. Attualmente, l’ordinamento giuridico russo prevede quattro tipi di trattamenti sanitari obbligatori: trattamento ambulatoriale, trattamento ospedaliero di tipo generale, trattamento ospedaliero di tipo specialistico e trattamento ospedaliero di tipo specialistico con supervisione intensiva. Come afferma Lubov Vinogradova, direttrice della IPA, “negli ultimi anni i tribunali hanno scelto sempre più raramente un trattamento obbligatorio di tipo ambulatoriale,” prediligendo invece il ricovero e l’ospedalizzazione.


“Se dovessi scegliere non avrei dubbi: meglio la prigione”


Le persone ricoverate in ospedali psichiatrici sono sottoposte a torture sia fisiche, sia psicologiche. Sergej Pribylov, come molti altri, è stato ricoverato presso l’Ospedale psichiatrico di Čechov, circondato da un’alta recinzione di filo spinato. Nell’intervista a DOXA, Sergej fornisce una descrizione accurata della vita in una psichuška: orari rigidi, regole severe, marce forzate, perquisizioni e un’osservazione totale e costante da parte del personale sanitario, che prende nota di tutto: “cosa e come mangi, con chi parli, dove guardi, come vai di corpo, di che umore sei, cosa ti raccontano i tuoi parenti.” L’intimità non esiste, nemmeno sotto la doccia, e chi si oppone viene segnalato come “alterato”, quindi messo in una cella d’isolamento e costretto a un altro anno di internamento. Durante la permanenza – decennale, in alcuni casi – gli internati sono costretti ad assumere potenti medicinali che provocano numerosi effetti collaterali, inclusi disturbi del sonno, stanchezza cronica, apatia e depressione.


A volte l’abuso sfocia in violenza fisica, umiliazione, disumanizzazione. È quanto accaduto a Viktorija Petrova, imputata nell’ennesimo caso sulle fake news, poi dichiarata pazza e ricoverata il 24 ottobre 2023 nell’Ospedale psichiatrico N. 3 “Skvorcov-Stepanov”, non lontano da San Pietroburgo. Qui Viktorija è stata obbligata a spogliarsi e fare la doccia davanti a un gruppo di persone. È stata legata, picchiata “come un cane”. Le è stato fatto intendere che lì, in ospedale, non era più un essere umano. Viktorija Petrova è detenuta da un anno e mezzo.


I più fortunati – se di fortuna si può parlare – riescono a farsi cambiare terapia farmacologica e, in alcuni rari casi, a essere dimessi. La procedura per le dimissioni è lunga: è necessario ottenere l’approvazione di due commissioni mediche e di un tribunale. I “pazienti” devono aver ammesso di essere affetti da una malattia, devono dimostrare di sapere come trattarla, di conoscere quali farmaci assumere. Le commissioni li interrogano e decidono se interrompere o prolungare il ricovero. A prendere la decisione finale però è il tribunale, che può decidere di ignorare il parere dei medici. Secondo Sergej, gli internati a Čechov vengono dimessi in media dopo tre anni. Spesso però gli abusi non terminano con la fine del ricovero, che segna invece l’inizio del trattamento domiciliare, durante il quale i pazienti sono obbligati a vedere regolarmente uno psichiatra e assumere psicofarmaci debilitanti. Pribylov racconta: “Dormo male, soffro di flatulenza, ingrasso, sono sempre stanco, non mi va di fare nulla, fatico a capire quello che leggo.” Chi si rifiuta di stare alle regole rischia un secondo ricovero.


La psichiatria punitiva e la patologizzazione del dissenso


Il Cremlino si serve della psichiatria punitiva perché è un’arma di repressione versatile e che fa poco rumore, ma risulta molto potente ed efficace. La minaccia dell’ospedalizzazione mantiene la società in un perenne stato di paura e fa da deterrente verso chi tenta di sfidare l’ordine della Russia di Putin. Diagnosticando la pazzia ai prigionieri politici, gli psichiatri e i giudici permettono di ospedalizzare attivisti e oppositori e legittimano un trattamento medico-sanitario obbligatorio che lede la salute psico-fisica di persone che pazze non sono. Sul lungo periodo l’ospedalizzazione e l’assunzione forzata di farmaci annichilisce persone che, come nel caso di Sergej, sono ridotte all’apatia e alla depressione, non hanno la forza di alzarsi dal letto, di leggere un libro, di lavorare. La psichiatria punitiva non si limita a togliere loro il diritto a protestare, va oltre: espropria l’individuo della facoltà di partecipare attivamente alla società, lo rende un reietto, lo allontana dal posto di lavoro, dagli amici e dalla famiglia, forse talmente impaurita da rompere ogni legame, come accaduto a Elena Rodina.


È poi possibile guardare oltre e considerare il fine ultimo, meno materiale e più subdolo della psichiatria punitiva. La Russia di Putin sta portando avanti una campagna di patologizzazione dell’opposizione. Sul lungo termine, la tendenza sistematica a dichiarare mentalmente instabili coloro che manifestano apertamente opinioni contrarie al regime può indurre i cittadini a porre in un rapporto equivalente e reciproco il dissenso e la pazzia. La psichiatria punitiva favorisce per riflesso un’associazione di tipo inconscio tra il dissenso e l’infermità mentale. In altre parole, le inattendibili diagnosi pseudo-scientifiche che obbligano le persone ai trattamenti sanitari obbligatori non si limitano a screditare i dissidenti e gli oppositori: esse screditano l’idea stessa di dissenso, in qualsiasi sua declinazione di forma e contenuto. Se è vero che un dissidente è un malato di mente, è anche vero che un non-dissidente è sano. Sul piano pratico questa equazione, oltre ad allontanare i cittadini russi da qualsiasi forma di dissenso e cittadinanza attiva, li allontana dalla condizione stessa di poter sviluppare un pensiero critico divergente dai diktat del Cremlino.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz.

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz con curatela di Luca Bernardini (Guerini e Associati, 2024). Una testimonianza al femminile sull’universo del Gulag e sugli orrori del totalitarismo sovietico. Arrestata nel 1945 a ventidue anni per la sua attività nell’AK (Armia Krajowa), l’organizzazione militare clandestina polacca, Anna Szyszko-Grzywacz viene internata nel lager di Vorkuta, nell’Estremo Nord della Siberia, dove trascorre undici anni. Nella ricostruzione dell’esperienza concentrazionaria, attraverso una descrizione vivida ed empatica delle dinamiche interpersonali tra le recluse e della drammatica quotidianità da loro vissuta, narra con semplicità e immediatezza la realtà estrema e disumanizzante del Gulag. Una realtà dove dominano brutalità e sopraffazione e dove la sopravvivenza per le donne, esposte di continuo alla minaccia della violenza maschile, è particolarmente difficile. Nell’orrore quotidiano raccontato da Anna Szyszko-Grzywacz trovano però spazio anche storie di amicizia e solidarietà femminile, istanti di spensieratezza ed emozioni condivise in una narrazione in cui alla paura e alla dolorosa consapevolezza della detenzione si alternano le aspettative e gli slanci di una giovane donna che non rinuncia a sperare, malgrado tutto, nel futuro. Anna Szyszko-Grzywacz nasce il 10 marzo 1923 nella parte orientale della Polonia, nella regione di Vilna (Vilnius). Entra nella resistenza nel settembre 1939 come staffetta di collegamento. Nel giugno 1941 subisce il primo arresto da parte dell’NKVD e viene rinchiusa nella prigione di Stara Wilejka. Nel luglio 1944 prende parte all’operazione “Burza” a Vilna come infermiera da campo. Dopo la presa di Vilna da parte dei sovietici i membri dell’AK, che rifiutano di arruolarsi nell’Armata Rossa, vengono arrestati e internati a Kaluga. Rilasciata, Anna Szyszko cambia identità, diventando Anna Norska, e si unisce a un’unità partigiana della foresta come tiratrice a cavallo in un gruppo di ricognizione. Arrestata dai servizi segreti sovietici nel febbraio 1945, viene reclusa dapprima a Vilna nel carcere di Łukiszki, e poi a Mosca alla Lubjanka e a Butyrka. In seguito alla condanna del tribunale militare a venti anni di lavori forzati, trascorre undici anni nei lager di Vorkuta. Fa ritorno in patria il 24 novembre 1956 e nel 1957 sposa Bernard Grzywacz, come lei membro della Resistenza polacca ed ex internato a Vorkuta, con cui aveva intrattenuto per anni all’interno del lager una corrispondenza clandestina. Muore a Varsavia il 2 agosto 2023, all’età di cento anni.

Leggi

Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società, opposizione.

Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società, opposizione. A cura di Riccardo Mario Cucciolla e Niccolò Pianciola (Viella Editrice, 2024). Il volume esplora l’evoluzione della società e del potere in Russia dopo l’aggressione all’Ucraina e offre un’analisi della complessa interazione tra apparati dello stato, opposizione e società civile. I saggi analizzano la deriva totalitaria del regime putiniano studiandone le istituzioni e la relazione tra stato e società, evidenziando come tendenze demografiche, rifugiati ucraini, politiche nataliste e migratorie abbiano ridefinito gli equilibri sociali del paese. Inoltre, pongono l’attenzione sulla società civile russa e sulle sfide che oppositori, artisti, accademici, minoranze e difensori dei diritti umani affrontano sia in un contesto sempre più repressivo in patria, sia nell’emigrazione. I saggi compresi nel volume sono di Sergej Abašin, Alexander Baunov, Simone A. Bellezza, Alain Blum, Bill Bowring, Riccardo Mario Cucciolla, Marcello Flores, Vladimir Gel’man, Lev Gudkov, Andrea Gullotta, Andrej Jakovlev, Irina Kuznetsova, Alberto Masoero, Niccolò Pianciola, Giovanni Savino, Irina Ščerbakova, Sergej Zacharov. In copertina: Il 10 aprile 2022, Oleg Orlov, ex co-presidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, viene arrestato sulla Piazza Rossa a Mosca per avere manifestato la sua opposizione all’invasione dell’Ucraina con un cartello con la scritta “La nostra indisponibilità a conoscere la verità e il nostro silenzio ci rendono complici dei crimini” (foto di Denis Galicyn per SOTA Project).

Leggi