Voci dalla guerra. Oksana Pavlova, insegnante di Mariupol’: “Ragazzi, non posso fare lezione, perché è scoppiata la guerra”.
Oksana Pavlova insegnava lingua e letteratura russa a Mariupol’. Nell’intervista realizzata da Andrij Didenko racconta come lei e il marito hanno cercato di sopravvivere nella Mariupol’ devastata dai russi. Con molta amarezza constata come l’umanità non abbia tratto alcuna lezione dalle guerre precedenti.
L’intervista è stata realizzata per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).
Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.
Le traduzioni italiane sono a cura di Emanuela Bonacorsi, Francesca Lazzarin, Giulia Sorrentino e altri collaboratori di Memorial Italia.
“Ragazzi, non posso fare lezione, perché è scoppiata la guerra”
31.05.2023
Di Andrij Didenko
Oksana è un’insegnante di lingua e letteratura russa. Mentre Mariupol’ veniva bombardata, alla donna sembrava che il suo cuore si stesse trasformando in un uccellino. Faceva davvero male vedere gli edifici anneriti e i volti dei vicini, che per la guerra si erano così illividiti da sembrare consumati.
Sono un’insegnante di lingua e letteratura russa con quasi trent’anni di esperienza alle spalle. A volte sotto i bombardamenti mi sembrava che il mio cuore stesse diventando come un uccellino, un passerotto. Lo sentivo contrarsi forte tutt’a un tratto. I condomini di nove piani erano quasi tutti anneriti, distrutti. Era terribile guardarli, perché non molto tempo prima c’era stato il Capodanno… e gli edifici erano illuminati. C’era vita.
Mi chiamo Oksana Viktorivna Pavlova. Nel primo giorno di guerra, la mattina, ero al lavoro nella scuola n. 18 di Mariupol’. E quella mattina abbiamo saputo dai notiziari che era scoppiata la guerra. Ma, sapete, pensavamo che il 24 avremmo fatto lezione per i nostri alunni online. Io, a proposito, sono un’insegnante di lingua e letteratura russa con quasi trent’anni di esperienza alle spalle. Ho lavorato in diverse scuole di Mariupol’. E il 24, alle nove di mattina, avevo lezione con la nona classe. Ma l’aerodromo situato poco lontano da noi era già stato colpito da qualcosa. Perché vivevamo alla periferia di Mariupol’, nella zona del quartiere di Čer’omušky e del villaggio di Pivdenne. Lì vicino ci sono dei campi, e poco lontano da noi era stanziata un’unità militare: proprio lì si trova l’aerodromo.
E, sapete, è stato colpito da qualcosa di terribile, e ne sono rimasta così impressionata che ho scritto su Viber ai miei alunni della 9A: “Ragazzi, non posso fare lezione, perché è scoppiata la guerra”.
Ho notato che non ero padrona di me stessa e quindi non ho fatto la prima lezione. E poi avevo lezione tipo alla sesta ora, mi sono fatta forza e ho iniziato a fornire ai ragazzi aiuto psicologico. Non ho fatto lezione, ma ho raccontato che mia madre aveva subìto la guerra da bambina, ho raccontato come aveva resistito a Luhans’k. Come anche lì ci fossero bombardamenti aerei. Come poi è arrivata la vittoria del 9 maggio. Avevo in aula gli alunni della nona classe, della sesta… gli ho raccontato che ogni persona ha un suo destino che gli è dato in dono da Dio. E che in guerra succedono molte cose strane. Che bisogna credere, resistere. E che capita che le persone si salvino così, in modo miracoloso.
Fino alle sette di sera (più o meno dalle cinque di mattina alle sette di sera) andavano avanti i bombardamenti. A volte cominciavano alle sei di mattina. Osservavo e notavo che la guerra in città è una sorta di guerra con degli orari precisi. Circa alle sette di sera iniziavamo a mangiare. Mangiavamo una volta al giorno. Bevevamo molta acqua, perché avevamo sempre una sete che ci bruciava la gola. Il nostro sistema nervoso faceva una gran fatica ad abituarsi.
Poi, il 7 marzo, da noi a Čer’omušky era tutto tranquillo, i nostri vicini erano corsi dalla loro figlia e poi erano tornati da noi. E appena ho visto i miei vicini… Sapete, c’è quell’espressione che dice che “una persona non ha più il suo volto”. E ho notato per la prima volta il senso di quella frase guardando la mia vicina che era tornata. Vedevo solo un viso tutto giallo. Non vedevo gli occhi… Era come se i suoi tratti somatici fossero stati consumati da tutto quell’orrore. Perché allora stavamo solo iniziando ad abituarci. Poi ho visto che tutti, tutti i vicini avevano le labbra secche. E ho pensato che era sempre perché le persone, per quell’orrore… Erano come bruciate da una fiamma.
Con i vicini ci tenevamo a galla l’un l’altro. Mentre parlavamo, qualcosa volava sopra le nostre teste. Adesso guardo i video delle persone di quelle cittadine della regione di Donec’k, di Luhans’k, che erano anche loro sotto le bombe, camminavano per strada e dicevano: “Ci siamo già abituati”. A noi di Mariupol’ è successa la stessa cosa. La gente pregava molto a Mariupol’. Pregavano tutti, e anche la nostra famiglia. Ogni volta che uscivo in strada dicevo: “Fammi il segno della croce”. Quando uscivamo in due, facevo il segno della croce a mio marito, e lui a me. Abbiamo cominciato ad aiutarci a vicenda.
Ma c’erano momenti in cui capivo che in quei condomini alti, di fianco a noi, c’erano tante persone. E chiedevo continuamente a mio marito: “Ce l’avranno l’acqua?”.
Sapete, cosa rimpiango… ora ho una sensazione pesante: perché capivo che potevo portargli dell’acqua. Ma sentivamo tutto il tempo degli spari, delle raffiche di mitra. Cioè, capivamo anche che uscire in strada significava morte certa. E in più il 24 mia figlia mi aveva detto: “Mamma, papà, state attenti, perché non so come potrò vivere senza di voi”. Le sue parole mi obbligavano ad essere più cauta.
C’erano persone coraggiose che invece uscivano, aiutavano: noi abbiamo iniziato più tardi. Prima di partire avevamo portato quasi tutto il nostro cibo a quei palazzi. Condomini a nove piani che erano quasi tutti anneriti, distrutti. Era terribile guardarli, perché non molto tempo prima c’era stato il Capodanno… e gli edifici erano illuminati. C’era vita… E quando ci abbiamo portato il nostro cibo, abbiamo visto che anche le persone erano tutte annerite. Perché accendevano continuamente dei falò per cucinare qualcosa.
Per loro era molto dura. Per noi che vivevamo in case private era più facile, perché c’erano solo i nostri vicini. Ma quando le persone dovevano stare nei rifugi sotterranei, succedevano cose terribili. Qualcuno, lo so, è persino impazzito in quei rifugi. I rapporti tra le persone erano difficili, ciascuno ha reagito dando prova di sé in modi diversi.
Sapete, abbiamo resistito tre-quattro giorni, ma poi è stato tremendo. Ogni tre-quattro giorni era come se dalla pancia venisse su il pensiero: ‘Questo non lo reggerò’.
Come dicevano ai tempi antico-slavi: il ventre è la vita. Mi balenava il pensiero che non avrei retto. Poi riflettevo tra me e me: “I miei genitori hanno retto il 1941, hanno aspettato fino al 1945. Reggeremo anche noi”. E pensavo: “Il Signore ha sopportato e ci ha ordinato di fare lo stesso”.
Ma solo durante la guerra ho capito la frase “Dio ci dà secondo le nostre forze”. Perché quello che hanno visto i miei colleghi nel centro della città era davvero terrificante. Abbiamo salvato una persona della mia età, l’abbiamo fatta uscire da Mariupol’ con sua mamma, e ha detto che ogni due giorni correva dall’ex moglie e dalla figlia. Perché capiate, c’è una parte della città dove siamo noi, Čer’omušky, e c’è la parte vecchia della città dove si trova il Museo etnografico. E lui correva lì, attraversando tutta Mariupol’. E Dio lo ha protetto, perché aveva visto di quelle cose… aveva visto un morto seduto su una panchina: aveva perso conoscenza ed era rimasto seduto lì. Attorno correvano gatti e cani senza zampe.
Di cani zoppi ce n’erano tanti. Abbiamo iniziato a dare da mangiare ai cani che scappavano da quei condomini, e che sembravano impazziti. È successo all’incirca il 1° marzo: correvano per le strade e azzannavano i gatti. Sette gatti dei nostri vicini, quelli che ci portavano il porridge da mangiare, sono stati azzannati dai cani. Poi quella follia è venuta meno. Era solo perché gli animali non sopportavano quei suoni. Così come le persone. Dopo Mariupol’, quando siamo arrivati sui Carpazi, sono andata da un cardiologo. Ha detto che mi erano iniziati dei problemi cardiaci.
A volte sotto i bombardamenti mi sembrava che il mio cuore stesse diventando come un uccellino, un passerotto. Lo sentivo contrarsi forte tutt’a un tratto.
I miei colleghi vengono dal centro città, lì è successo il peggio… Noi non capivamo assolutamente che cosa stesse succedendo a Mariupol’, perché le comunicazioni erano interrotte. Quando abbiamo cominciato ad uscire di casa, chiedevamo ai passanti: “Cosa? Dove? La città è ancora ucraina? Quali quartieri sono ancora ucraini?”. E le persone ci dicevano qualcosa. Poi una collega, che è scappata a Kyiv, ha raccontato che la figlia e il genero erano andati a prendere dell’acqua. È successo in centro, in via Zelins’kyj. Lui ha sentito qualcosa sotto il piede e all’improvviso è scivolato. E ha visto che era il cervello di un uomo. Il cervello di un uomo… Credo sia la cosa più terribile: vedere che la cosa che hai calpestato era una persona…
La donna che me lo ha raccontato si trovava in centro in un rifugio sotterraneo davanti alla nostra scuola, la n. 18, dove lavoravo io. Si trovava in uno scantinato con altre persone. Sua madre era malata, costretta a letto già da molti anni, così dallo scantinato le toccava salire da lei al sesto piano a piedi, e per le scale c’erano dei cadaveri. A lei i morti facevano molta paura sin dall’infanzia. Per questo chiudeva gli occhi. Quando la situazione era calma saliva dalla madre per darle da mangiare, aiutarla. Poi scendeva… Mi ha detto: “È stato un vero incubo!”.
Anche lei ha visto i nostri ragazzi ucraini uccisi. Loro supportavano le persone parlandoci. Il peggio è stato in centro: i nostri erano nel supermercato ATB, e i russi sparavano. Poi è scoppiato un incendio, i nostri difensori sono corsi là dove c’erano persone. È stato terribile. Ho sentito molte storie di persone in quegli scantinati, soprattutto anziane, a cui il cuore non ha retto.
Era terribile guardare fuori dalle finestre, perché si vedevano le case che bruciavano. Ogni volta era terribile.
Una volta ho avuto difficoltà a raccontare quello che avevo visto succedere ai nostri palazzi persino a mio marito. È stato una specie di Armageddon. Com’è stata possibile una cosa del genere? Io sono un’insegnante, forse per me è stato più semplice, perché leggevo sotto i bombardamenti. Leggevo libri di teologia, ne ho molti. Prendevo addirittura appunti. Poi mi sono detta: “La Pasqua è vicina. Forse anche la vittoria, perché la guerra è iniziata il 24 febbraio, e la Pasqua cade il 24 aprile”.
Una volta abituati ai bombardamenti uscivamo perfino per strada per scaldarci. Avevamo due gatte che chiedevano di uscire. All’inizio le abbiamo tenute a lungo in casa. Poi abbiamo cominciato a permetterglielo. Le lasciavamo andare e gli facevamo il segno della croce. E loro uscivano. Anch’io ho cominciato a uscire: per potare la vigna o le rose. E dicevo a tutti: “Dobbiamo prepararci per Pasqua. O vivremo nel terrore perenne?”.
Dicevo anche a mio marito che siamo delle persone istruite. E non solo noi, ma tutti gli abitanti di Mariupol’, Ucraina. Siamo delle persone civilizzate ma loro (i russi) ci tenevano nel terrore. Noi come due vigliacchi stavamo a casa tremanti. Avevamo paura persino di uscire in strada. Per un mese non ci siamo lavati né il viso né i capelli, per risparmiare acqua. Ho detto: “Com’è possibile? C’è la civiltà, c’è l’ONU. Ci sono diverse organizzazioni, l’umanità ha avuto la lezione della Seconda guerra mondiale. Perché ora va così? Com’è possibile?”
Gli abitanti di Mariupol’ pensavano che dopo una settimana tutto si sarebbe risolto ai livelli alti. Che avremmo dovuto aspettare che si calmassero le acque. Ma abbiamo visto che l’umanità non ha imparato nessuna lezione, e ogni guerra, come dicono le persone sagge, comincia non si sa come e (non si sa) perché. E allo stesso modo poi finisce. Purtroppo non possiamo fermarla. Non ci sono ancora istituzioni tali da poter incidere.
Quando è iniziata la guerra in Ucraina, abbiamo capito (io ho capito), che siamo stati indifferenti al dolore altrui. La Georgia, la Cecenia, la Serbia, la Siria… Quando lì c’erano le guerre non abbiamo neanche provato ad aiutare, a fare volontariato in massa. Ma adesso la disgrazia altrui è come la nostra, lo abbiamo capito. Da una parte ci sono i premi Nobel per gli scienziati che creano medicine che salvano le persone. Dall’altra ci sono le guerre. Come può tutto questo coesistere a livello umano?