Voci dalla guerra. Leonid Remyha, medico di Cherson: “Ogni giorno c’erano grida, lamenti, torture”.

eonid Remyha, medico ospedaliero, racconta le sue vicissitudini sotto l’occupazione russa. Per la sua posizione filoucraina aveva attirato l’attenzione degli occupanti. Dopo essere stato destituito dal suo incarico, è stato portato in un centro di detenzione e sottoposto all’esame del poligrafo in quanto individuo sospetto.

Medico di Cherson sottoposto alla macchina della verità per la sua posizione filoucraina

Leonid Remyha, medico ospedaliero, racconta le sue vicissitudini sotto l’occupazione russa. Per la sua posizione filoucraina aveva attirato l’attenzione degli occupanti. Dopo essere stato destituito dal suo incarico, è stato portato in un centro di detenzione e sottoposto all’esame del poligrafo in quanto individuo sospetto.

Serhij Okunjev ha intervistato il dottore per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).

Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.

Le traduzioni italiane sono a cura di Francesca Lazzarin, Giulia Sorrentino e altri collaboratori di Memorial Italia.

di Serhij Okunjev

27.97.2023

All’inizio dell’invasione su larga scala russa Leonid Remyha era il primario di uno degli ospedali di Cherson. Per essersi rifiutato di collaborare con gli occupanti il medico è stato costretto a passare per le camere di tortura dei russi.

Mi ricordo che alle 6 di mattina mi hanno telefonato degli amici dal distretto di Heničes’k e hanno detto che il ponte di Čonhar e la città di Heničes’k erano già sotto bombardamento. Ormai avevamo capito che bisognava fare qualcosa. C’era davvero la disperazione più totale, e io e la mia famiglia abbiamo iniziato a consultarci sul da farsi. Anche i vicini hanno iniziato a dare segni di nervosismo: tutti ascoltavano la radio. Io, come al solito, sono andato al lavoro. Al lavoro si erano riuniti tutti i colleghi, e abbiamo cominciato anche noi a sentire le notizie. Sapevamo già che stavano bombardando Kyїv, Charkiv e altre città. Abbiamo capito che bisognava lavorare e aspettare delle comunicazioni ufficiali.

Si sapeva già che alcune forze di polizia e altri organi che garantivano la nostra sicurezza avevano abbandonato la città, ed eravamo rimasti soli. Loro [i russi] sono arrivati a Cherson attorno al primo marzo. E già il 6 o il 7 sono entrati nel territorio dell’ospedale. Hanno insistito per incontrare me, in quanto primario.

“Abbiamo bisogno che liberiate parte dei vostri locali. Il comando della Federazione Russa ha stabilito di collocare qui il suo ospedale militare per i russi”.

Gli ho detto che era impossibile, che non potevamo mandare via i bambini, gli adulti, gli altri pazienti. Gli abbiamo detto che da noi stava imperversando il Covid. Poi hanno iniziato ad arrivare, in borghese, degli agenti dell’FSB russo, dei rappresentanti dei servizi speciali che hanno cominciato a fare pressione sul personale, e su di me, per spingerci a collaborare con loro. Ci sono stati quasi tre di questi incontri. È successo alla vigilia della loro festa del 9 maggio. Hanno portato qui il quotidiano “Komsomol’skaja Pravda” perché lo distribuissimo tra i medici e i pazienti. Io gli ho detto: “Ok, lasciatelo pure, poi sbrighiamo tutto”. La sera abbiamo distrutto, bruciandole, tutte le copie del giornale, e loro in qualche modo lo sono venuti a sapere. Cioè, qualcuno gli ha riferito l’accaduto. C’era stato anche un altro fatto: avevamo tenuto nascosti dei ragazzi della nostra difesa territoriale. Una parte di loro è morta, un’altra è rimasta ferita nel nostro parco dei lillà.

Erano addirittura disarmati, ho capito bene?

Sa, in parte erano armati. Ci hanno portato dei ragazzi feriti, erano quattro o cinque, due li abbiamo mandati ai reparti specializzati. Ma avevano dei mitra con sé.

Intendevo dire che avevano dei mitra contro dei carri armati.

Li abbiamo subito ricoverati come civili, perciò quando sono arrivati gli agenti dell’FSB e hanno richiesto la documentazione relativa agli appartenenti alla difesa territoriale, sono venuti dei medici e hanno visto le loro cartelle cliniche, ma lì c’era scritto che erano abitanti del posto rimasti feriti nei bombardamenti. In qualche modo, gli agenti dell’FSB sono venuti a sapere anche quello, e mi hanno rivolto tutte le accuse: che sono un fiancheggiatore della causa ucraina e che oppongo resistenza alle autorità russe. Era il motivo per destituirmi dal mio incarico. E pretendevano che togliessi la bandiera ucraina dall’edificio.

Era sul tetto?

Era sul tetto, sì, davanti all’accettazione c’era una bandiera ucraina, e lui [un russo] l’ha vista. Ha acceso la videocamera del cellulare e mi ha ordinato di toglierla. Io gli ho detto che non l’avrei fatto, che poteva chiamare i soldati, fare di me quel che voleva, ma che non l’avrei fatto. Lui mi ha guardato in modo strano e ha detto: “Beh, così stai mettendo a rischio la tua vita, che c’è, non hai famiglia?”. Sì, gli dico io, ho una famiglia, ma non lo farò. Lui ha annuito con fare conciliante, ha detto che sarebbe tornato alle 5 (era mattina) e non avrebbe voluto più vedere quella bandiera. Ma quella bandiera è rimasta lì fino al 7 giugno, fino a quando non mi hanno destituito.

Leonid Remyha, primario presso l’ospedale cittadino di Cherson “A. e O. Tropin”.

Sono comparsi di nuovo degli agenti dell’FSB, armati. Questa volta insieme a dei rappresentanti del governo collaborazionista che in quel momento era stato nominato a Cherson. Erano dei rappresentanti di Sal’do e dei suoi sodali che lui stesso aveva nominato. Sono arrivati e mi hanno detto: “O firmi un documento in cui dici che collabori con noi, o sei fuori. Per la tua posizione filoucraina, per aver bruciato i giornali, per esserti schierato contro le autorità russe, ti arrestiamo”. E mi hanno subito destituito. Mi sono sentito male, mi è salita la pressione. I miei medici, che erano presenti in quel momento, li hanno supplicati: “Ma cosa fate! Ora gli verrà un ictus o un infarto! Ricoveriamolo in ospedale”. Hanno acconsentito e mi hanno accompagnato loro stessi, scortato, nel nostro stesso ospedale.

Hanno cercato di arrestarla a casa, non in ospedale?

No, è successo in ospedale, nello studio. Hanno convocato una riunione e hanno detto che mi avrebbero destituito, arrestato e portato in via Perekops’ka, dove c’era un punto di raccolta per gli arrestati. Ma posso dire che i medici che erano con me in quel momento, i miei medici e i loro assistenti, mi hanno difeso e hanno detto che ero malato, e la mia pressione era davvero molto alta. Tra di loro c’era un medico russo, se ho capito bene non uno dei nostri collaborazionisti, ma proprio un medico russo. Lui ha dato l’ordine di ricoverarmi, “e poi si vedrà”.

Sono stati designati dei collaborazionisti che hanno effettuato una nuova registrazione della nostra azienda sanitaria secondo le leggi russe. Hanno proibito di parlare ucraino. Hanno costretto a redigere la documentazione solo in russo, e così via. Tutto ciò è stato fatto in modo coercitivo, sotto il controllo degli agenti dell’FSB, che erano qui quasi tutti i giorni e controllavano l’intera attività dell’ospedale: finanziaria, clinica, organizzativa, gestionale. Era tutto sotto il controllo dell’FSB. E poi, dopo essere stati in ospedale, venivano a controllare me. A un certo punto, così ho capito, c’è stata una rotazione: alcuni agenti sono cambiati e ne sono arrivati altri per occuparsi di tutte le faccende. Non avevano ancora esaminato tutto quanto, e prima che arrivassero a me, io ero già scappato dall’ospedale.

Sono scappato e mi sono nascosto a Cherson, a Olešky, in altre città. Sapevo che mi stavano cercando perché il mio appartamento era stato scassinato e avevano portato via vari oggetti e documenti che erano lì.

Hanno forzato il garage. Anche lì hanno preso delle cose. Sono venuto a sapere che mi cercavano. Mi sono nascosto, più che ho potuto, ma il 20 settembre mi hanno preso ugualmente in strada. Mi hanno bendato, hanno chiamato un tizio che mi conosceva, lui ha confermato che ero io, il tale Remyha che lavorava nel posto tale. Avevano una scorta ad accompagnarli, c’erano cinque o sei soldati armati, tre agenti dell’FSB, tutti in mimetica. Quando mi hanno bendato, ho capito che mi portavano al centro di detenzione preventiva, perché mi oriento molto bene a Cherson. E così è stato. Al centro mi hanno schedato. Mi hanno sequestrato tutto, telefono e automobile, perché in quei giorni mi spostavo in automobile. Un’altra l’hanno prelevata dal parcheggio durante gli interrogatori. E non le hanno restituite. Già, cose che capitano.

Cioè gliele hanno rubate?

Sì. Hanno rubato di tutto, hanno svaligiato la casa.

Io ero in cella. Con i nostri ragazzi ucraini. Mi hanno riconosciuto. “E tu perché sei qui, sei un dottore!” “Per la mia posizione.” Poi agli interrogatori, ho capito dalle accuse che la mia posizione filoucraina è stata la causa principale della loro decisione di fiaccarmi moralmente. La posizione filoucraina, d’accordo. Ma quando ti dicono che salivi sul tetto dell’ospedale per lanciare droni, che davi informazioni all’esercito ucraino…

Le dicevano così?

Sì, e che mio figlio lavora per il sindaco, sostiene il “Pravyj sektor” e stanzia fondi per l’esercito ucraino. Che io ho partecipato ad attentati contro nostri collaborazionisti. E così via. Insomma, dovevano dimostrare la mia colpa in ogni modo perché, a quanto pare, dovevano risponderne ai loro comandanti. Nella mia cella c’erano molte persone di vario tipo. Ci siamo conosciuti, parlati, ho capito che è gente forte. Sono persone dall’animo veramente patriottico, che hanno difeso l’indipendenza dell’Ucraina. C’erano veterani del Donbas, soldati ucraini riservisti.

Molti ragazzi sono morti lì. Sapevamo tutto, sentivamo tutto. Ogni giorno c’erano grida, lamenti, torture. C’erano anche delle celle femminili, dove io (in quanto medico) venivo chiamato per prestare aiuto.

Una delle celle di tortura a Cherson, usata dai russi per vessare gli ucraini, fonte dell’immagine: canale Telegram “Cherson: guerra senza fake”.

Una volta il direttore di questo centro mi dice: “Mi spiace così tanto lasciarti andare”. Io gli chiedo: “E perché?” “Perché ci servi, sei un dottore, qui non possiamo far venire le ambulanze.” Da un lato, il mio aiuto lì dentro era veramente indispensabile ai nostri ragazzi. Ma dall’altro, stare lì dentro, sa, era una tortura. I miei cari non sapevano dov’ero. Non c’erano informazioni, i miei colleghi l’hanno saputo solo quando ero lì da quasi una settimana. Mi hanno detto: “Le alternative sono due: se la macchina della verità non conferma i dati, lei è libero. Se li conferma, le alternative sono due: Simferopol’ (processo o fucilazione) oppure una lunga permanenza in carcere”.

Il 3 sono venuti a prendermi. Mi hanno portato nell’edificio dove si svolgono gli interrogatori col poligrafo. Lì c’erano dei tecnici specializzati. Abbiamo scambiato qualche parola. Poi c’è stato l’interrogatorio, dopodiché ho aspettato un dieci minuti. Mi prendevano in giro, dicevano: “Allora, si torna dentro, sei pronto?” E io ho detto: “Perché, ho forse il diritto di scelta?” “No, non sei passato, le accuse sono confermate.” Poi, dopo un altro po’ di tempo, uno si è girato verso di me e ha detto: “Invece no, sei libero”. “Come libero?” “Hai sentito, esci di qui, vai a casa. Il giorno tale torna qui, ti ridaremo i documenti”. Ed effettivamente il 4 o il 5 (eravamo in ottobre) mi sono presentato all’ora prestabilita, ho aspettato molto, mi hanno restituito i documenti e un telefono. Il secondo se lo sono tenuto. Hanno detto che non dovevo farmi vedere nell’area dell’ospedale.

Poi è iniziato il processo di evacuazione, mandavano sms per dire che dovevamo evacuare. Sono venuti da me un tre-quattro giorni prima della liberazione di Cherson, eravamo già in novembre, forse. Hanno detto che l’8 o il 9 dovevo presentarmi nel tale posto con soldi, documenti e provviste per un giorno, che ci avrebbero fatti evacuare. Era un’evacuazione forzata. Gli dico: “Troviamo un accordo, io verrò con voi se voi mi darete un’automobile, e con quell’automobile verrò con voi dall’altra parte”.

Non sono riuscito a raggirarli, hanno detto: “No, tu verrai soltanto con noi”. Dopo un giorno sono riscomparso.

Una vicina mi ha detto che sono venuti a chiedere dove fossi. Ma io mi ero nascosto, sapevo che di lì a poco dovevano andarsene, e infatti il 9 se ne sono andati. Il 10 qui era tranquillo. E l’11 sono arrivati i nostri soldati. Parlavo con la gente, i vicini, i conoscenti, eravamo sicuri che avremmo vinto. Quando l’11 è passata un’automobile che diffondeva l’inno ucraino e aveva la nostra bandiera ucraina, dapprima nessuno ci aveva creduto. Pensavamo che fosse una qualche messinscena dei russi. Poi, quando siamo scesi e abbiamo visto che i ragazzi avevano la nostra divisa e parlavano la nostra lingua, ci siamo commossi. È andata proprio così.

Quando è tornato in ospedale?

Il giorno dopo sono tornato in ospedale. I ragazzi mi hanno accolto, hanno esposto la bandiera. Il personale mi ha accolto con la nostra bandiera ucraina.

Qual era l’umore dopo la liberazione?

È stata una vera festa! Sì, è stata una festa!

E com’era la situazione in ospedale?

Ci siamo ritrovati, baciati, abbracciati, rallegrati. Ma c’era molto altro da fare per le conseguenze [dell’occupazione russa]. Gli occupanti ci hanno depredati, hanno preso apparecchiature, computer, tutti i documenti. Bisognava rimettere tutto in piedi. Molti dottori se ne sono andati, molto personale. Era indispensabile serrare le fila, sistemare ogni cosa. La gioia della vittoria e la nostra città libera ci hanno uniti.

Io ho figli, nipoti, una famiglia. Purtroppo, i miei genitori sono già morti. Un attacco così sleale non ce lo aspettavamo.

Una parte dei miei parenti viveva in Russia, già dopo il 2014 i nostri rapporti sono cambiati moltissimo. Ho capito che non potevamo essere come loro. Tutta la mia famiglia era filoucraina, nonostante il fatto che mia moglie sia nata in Russia. Lei era filoucraina, figli e nipoti erano filoucraini. E il personale, parte del personale con cui lavoravo, pure. È gente che credeva così tanto nella vittoria, così tanto nella nostra Ucraina che non ho potuto tradirli.

Non sono soltanto dirigenti, ma anche medici comuni?

Sì, i nostri medici comuni. Voglio dire che la maggior parte delle persone che si sono ritrovate sulla riva sinistra è rimasta in contatto con l’ospedale. Aspetta la liberazione.

 

 

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