Vedere il Terrore: i Gulag sugli schermi in Russia. Intervista con Kristian Feigelson

Il sociologo della Sorbona: "I russi non sono ancora riusciti a elaborare il trauma dei campi che ha colpito tre generazioni. Il regime putiniano non ha concorso affatto alla creazione di una memoria audiovisiva critica, anzi, il suo avvento ha contribuito profondamente a questa cecità della storia".

(intervista e traduzione di Stefano Pisu, Memorial Italia e Università di Cagliari)


10 novembre 2023 
ore 12:40


Kristian Feigelson è sociologo e professore di film studies all’Università Paris 3-Sorbonne Nouvelle. Ha pubblicato numerosi lavori, tra cui La fabrique filmique : Métiers et professions (2011) e Caméra politique/Cinéma et stalinisme (2005). “Filming the Gulag” è un progetto di ricerca finanziato dall’Università Paris 3 – Sorbonne Nouvelle che ha condotto allo svolgimento di numerose conferenze e proiezioni in tutto il mondo, fra cui la Oody Library and Filmotek a Helsinki, il Museo Achmatova a San Pietroburgo e in numerose altre università in Europa, Stati Uniti, Canada e Giappone. Le sue ricerche sulla rappresentazione audiovisiva del Gulag sono state pubblicate in diverse riviste in Brasile, Francia e Portogallo.


Rovine del gulag di Butugyček
Rovine del gulag di Butugyček Oxonhutchб, CC BY 2.5, via Wikimedia Commons


La rappresentazione culturale e artistica del Gulag in URSS, com’è noto, è iniziata tardi, dai primi anni Sessanta, con le opere letterarie di scrittori diventati celebri all’estero, come soprattutto Aleksandr Solženicyn e poi Varlam Šalamov. Quali sono le ragioni di questo ritardo?


In realtà questa rappresentazione e la documentazione sulla realtà concentrazionaria sovietica è iniziata molto prima. Il primo campo sulle isole Solovki nel nord della Russia, che ho visitato, fu istituito su decreto di Lenin nel 1923 allo scopo di imprigionare tutti gli oppositori del regime bolscevico: ufficiali bianchi, preti, menscevichi e socialrivoluzionari, anarchici, kulaki, trockisti; questo campo è stato attivo fino al 1938. Servì da esperimento di ciò che negli anni Trenta divenne il sistema dei Gulag in tutta l’URSS durante lo stalinismo, secondo un modello quasi industriale. Vi furono inviate quasi ventisei milioni di persone, non soltanto dall’URSS ma da tutto il mondo: dal Giappone in seguito alla Seconda guerra mondiale, di cui 600.000 fatti prigionieri in Manciuria dopo il 1945; coreani, baltici, tatari, ucraini; poi ungheresi, cechi e polacchi e molti altri contrari alla sovietizzazione dell’Europa centrale e orientale. Si può dire che la documentazione sui campi è iniziata molto presto, nonostante il contesto totalitario e la cappa di piombo in Occidente giacché non si doveva criticare il nuovo regime sovietico che era allora simbolo di libertà per l’avvento del socialismo. Sin dai primi anni Venti apparvero dei testi sull’argomento a Parigi e Berlino. Nel 1925 a Riga, in Lettonia, furono pubblicati anche degli articoli che evidenziavano l’esistenza del campo delle Solovki e le prime testimonianze di chi vi era stato rinchiuso ed era riuscito a fuggire. Come quella di Sozerko Mal’sagovufficiale inguscio delle Armate Bianche, evaso dalle Solovki nel 1926 tramite la Finlandia e la cui testimonianza fu pubblicata a Londra. Nel 1927, in Francia, il giurista Raymond Duguet cercò di mobilitare l’opinione pubblica internazionale contro l’esistenza già provata di questi campi e denunciarne le condizioni disumane. Tuttavia, sia le pubblicazioni che le testimonianze, per quanto documentate, trovarono una scarsa eco. Lo scrittore romeno Panait Istrati in Vers l’Autre Flammepubblicato a Parigi nel 1929, denunciava già l’arbitrio staliniano mentre l’opera pioneristica su Stalin di Boris Souvarine, tornato dall’URSS, fu a lungo ignorata. In URSS i primi scritti I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov, arrestato nel 1929 e rinchiuso nei campi per 17 anni, videro la luce solo nel 1966 a New York in una rivista dell’emigrazione russa per essere poi rieditati e tradotti molto più tardi, nel 1978, a Londra; furono, tuttavia, proibiti in URSS fino al 1988. L’edizione completa dell’opera uscì in Russia solo nel 1996, ovvero sette anni dopo la morte dell’autore, mentre in Francia erano stati già tradotti e pubblicati in quattro volumi fra il 1980 e il 1982. Ciò mostra l’enorme sfasamento temporale e spaziale fra la redazione delle opere e la loro effettiva pubblicazione con il rischio dell’accusa di antisovietismo.


Questi testi degli ex detenuti potevano circolare in modo molto frammentario sotto forma di samizdat [pubblicazioni clandestine], sebbene con grandissime difficoltà e il pericolo di essere arrestati. I primi testi di Solženicyn come Una giornata di Ivan Denisovič, sotto forma di romanzo, saranno pubblicati in URSS solo nel 1962 nella rivista liberale Novyj Mir. Ma il suo affresco Arcipelago Gulag, scritto a partire dalle testimonianze collettive dei deportati, uscirà in lingua russa solo nel 1973 in Francia prima della sua espulsione dall’URSS. Nel frattempo c’erano stati, soprattutto in Francia, dei processi clamorosi negli anni Quaranta e Cinquanta come quelli a Kravčenko e poi a David Rousset che avevano provato a svelare su un piano giudiziario la realtà dei campi sovietici scontrandosi con l’ortodossia comunista dominante. L’ebreo polacco Julius Margolin già nel 1952 aveva pubblicato a New York il suo racconto dei cinque anni di deportazione in URSS, intitolato Journey to Zek Land and BackMa ci si trovava in un contesto in cui l’Europa era appena uscita dalla Seconda guerra mondiale, con la rivelazione dei campi di sterminio nazisti, mentre i sovietici risultavano essere i liberatori e i vincitori. A differenza di quelli nazisti, i campi sovietici non erano stati liberati. Non ci sono riprese dei campi di sterminio nazisti ma i sovietici, come pure gli americani, avevano filmato la liberazione dei campi nel 1945 facendo circolare le immagini a livello mondiale. Tuttavia, all’epoca e durante la Guerra fredda qualsiasi accenno o testimonianza sui campi sovietici diventava insopportabile, se non impossibile, negli ambienti comunisti e non solo.


Sappiamo, invece, molto poco sull’esistenza o meno di una produzione audiovisiva realizzata in URSS sulle prigioni e i campi di lavoro. Le tue ricerche hanno permesso di colmare questa lacuna negli studi sul gulag e la sua rappresentazione in URSS. Puoi parlarcene?


L’esplorazione dell’ambito filmico è molto utile per comprendere il fenomeno dei campi. Abbiamo parlato finora essenzialmente di testimonianze e fonti scritte. Occorrerà attendere poco più di sessant’anni fra un primo film di propaganda sul tema – SLON (1927) – e un film documentario critico sullo stesso tema, ovvero Il potere delle Solovki (1988) di Marina Goldovskaja. Quest’ultimo si basa su archivi filmici sovietici e sulle testimonianze degli ex deportati alle Solovki raccolte dall’accademico Dmitrij Lichačev e pubblicate quando la perestrojka aveva fatto riemergere la questione dei campi di lavoro. Il film affronta un vero e proprio tabù giacché evidenzia chiaramente la responsabilità di Lenin nella progettazione di ciò che sarebbe diventato il sistema dei gulag.


Fra il 1923 e il 1938 quasi 83.000 persone passarono per le isole Solovki e più di 40.000 vi morirono. Questo documentario fu un vero terremoto in una fase della storia dell’URSS in cui fino a poco prima era molto complicato affrontare questi problemi. Quasi 15 milioni di persone videro questo film che contribuì ad aprire i primi dibattiti importanti sulla questione, tanto più che proprio allora nasceva l’associazione Memorial, con il sostegno del dissidente Andrej Sacharov. Ho incontrato più volte Marina Goldovskaja a Los Angeles dove insegnava cinema alla UCLA per discutere di questo film. Si basava su spezzoni, trovati negli archivi cinematografici sovietici, di un precedente film muto – SLON (1927) – realizzato in URSS come propaganda delle Solovki per dimostrare che le voci che giravano in Europa sulla durezza del campo erano infondate. In questo film dalle finalità didattiche e edificanti, realizzato da un operatore dell’OGPU [la polizia politica sovietica, NdR], si intendeva mostrare che i campi erano innanzitutto luoghi di rieducazione per rimettere sulla “retta via” i nemici del socialismo. Il film circolò molto poco all’epoca della sua realizzazione e sono riuscito a trovarne la copia originale per analizzarla al mio ritorno dalle Solovki grazie all’associazione Memorial [cfr. Kristian Feigelson, «Politique des médias et usages du passé en Russie» Hermès N° 52/2008; «Filmer le Goulag: entre histoire et mémoire» Le Temps des Médias N°33/Printemps 2020; «Images filmiques des camps: entre mémoire et oubli» Sens-Dessous, «L’Oubli» n°28/ Septembre 2021, NdR]. Il film è molto interessante per un ricercatore perché presenta tutte le contraddizioni che sono sempre esistite in Russia fra la cultura visiva e quella scritta, che avevo già studiato precedentemente. Per esempio, mentre tutti gli scritti sul Gulag venivano banditi per decenni quasi fino alla fine della stessa URSS, questo film mostrava apertamente nel 1927 tutte le tappe della deportazione, dall’arresto del proscritto al processo, dall’arrivo al Gulag alla vita quotidiana nelle Solovki. SLON elude completamente le atrocità e le sofferenze dei detenuti perché lo scopo è mostrare innanzitutto che si può essere felici in un campo di lavoro. Perciò, fu girato ufficialmente sotto l’egida del Sovkino [ente di gestione dell’industria cinematografica sovietica, NdR] per contraddire la propaganda anticomunista in occidente. Al centro della narrazione vi è la questione dell’accettazione della condizione di detenuto nella prospettiva del reinserimento sociale e socialista. Il gulag è filmato in un universo chiuso, ovvero quello di un’isola da cui è quasi impossibile scappare, con le sue regole e convenzioni, tramite un racconto altrettanto chiuso che evita il problema dei motivi della reclusione giacché si proietta verso un “avvenire radioso”. D’altra parte, SLON ricorda un altro film, stavolta di propaganda nazista, ovvero Il Fürher dona una città agli ebrei (1944) di cui restano oggi solo 20 minuti e che fu girato nel ghetto di Theresienstadt in Cecoslovacchia nello stesso modo. Nella storia del cinema, abbiamo dunque due film emblematici ma poco conosciuti, in cui tutti gli attori riuniti sono stati molto probabilmente sterminati.


Al di là di SLON e del documentario di Goldovskaja ci sono state altre opere sui gulag (a soggetto, documentari o televisive) girate durante la storia dell’URSS?


Pochissimi film hanno trattato la questione, rispetto alla sua reale importanza. Nel campo del cinema di finzione, per esempio, Evgenij Červjakov diresse nel 1936 I detenuti che ritrae la vita nel cantiere del Belomorkanal [canale fra il Mar Bianco e il Mar Baltico, NdR], costruito da migliaia di detenuti. Lo scopo è celebrare gli imponenti lavori staliniani durante il grande terrore della seconda metà degli Trenta come accade anche in altri film di propaganda – a soggetto e non – dell’epoca, fra cui Il canale Stalin (A. Lemberg, 1933), La conquista di Kolyma (E. Volk, 1934), All’assalto dell’Uchta (E. Volk, 1935), La costruzione della ferrovia Bajkal-Amur (N. Savenko, 1935), Il canale Moskva-Volga (N. Gikov, 1937), L’errore dell’ingegnere Kočin (A. Mačeret). Parallelamente, ci furono alcuni film sui processi staliniani – come il cinegiornale del 1930 Il processo al partito industriale contro le “spie” o il film a soggetto La tessera del partito di Ivan Pyr’ev del 1936 – che svilupparono la retorica della delazione per incutere paura nel pubblico e nella società. Altri cinegiornali emblematici del clima di terrore furono Il ventesimo anniversario dell’NKVD del 1937 o I raduni contro i trockisti. Il cinema è quindi utilizzato in un contesto di terrore generalizzato per denunciare e ammonire sebbene si tratti di film che, tuttavia, ebbero scarso successo. Passando al periodo post staliniano, si può ricordare il film di Elem Klimov Benvenuti, ovvero vietato l’ingresso agli estranei (1964) che affronta in modo metaforico la questione dei campi. Per gli spettatori dell’epoca del disgelo le allusioni ai gulag attraverso la messinscena dei campi estivi per bambini erano abbastanza evidenti. In questo contesto la televisione, che dagli anni Sessanta rivestì il ruolo precedentemente svolto dal cinema di agitazione e propaganda, non toccò direttamente il tema. Quest’ultimo rimase così un tabù, sebbene vi siano state delle eccezioni, come Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij, capace di evocare la zona grigia e di assenza di diritto rappresentata dal sistema concentrazionario sovietico.


Negli anni Novanta, dopo il crollo dell’URSS, l’industria cinematografica, priva del sostegno statale, ha conosciuto una grave crisi finanziaria. La produzione audiovisiva russa post-sovietica ha contribuito in qualche modo alla memoria del sistema delle prigioni e dei campi di lavoro dell’URSS?


Nel breve periodo di fermento prima e dopo la caduta dell’URSS, solo pochi furono realizzati sul tema. In assenza di autentici archivi audiovisivi accessibili sui campi stessi o sulle deportazioni, si affrontarono i problemi più generali della repressione staliniana e del totalitarismo. Per esempio, Pentimento (1984) di Tengiz Abuladze, premiato a Cannes nel 1987, evoca soprattutto il totalitarismo in una città della provincia georgiana. Un altro esempio è Sta fermo, muori e resuscita (1989) di Vitalij Kanevskij, premiato con la Caméra d’or a Cannes nel 1990, che ricostruisce un campo di lavoro siberiano dopo il 1947. In un contesto sì di maggiore libertà di espressione, ma al contempo di crisi sociale ed economica, la società russa atomizzata degli anni Novanta non ha interesse a tornare sulle questioni del gulag che la riporta verso un passato sepolto. Inoltre, il tema non è economicamente redditizio in un momento in cui l’industria cinematografica soffre fortemente la crisi finanziaria. Si è dunque molto lontani dal lavoro di memoria dai tedeschi e da altri subito dopo la Seconda guerra mondiale, dove quasi 500 film – tra fiction e documentari – sono stati realizzati intorno alla questione dei campi nazisti. Solo Memorial si è sforzata per venticinque anni di raccogliere pazientemente nella Russia post-sovietica un gran numero di testimonianze audiovisive dei deportati filmate a posteriori, che completano il lavoro svolto sugli archivi cartacei aperti negli anni Novanta. Come fonti visive si possono trovare anche numerosi disegni o quadri dei deportati.


Il tentativo di Vladimir Putin di controllare dall’alto temi socialmente e politicamente sensibili, come la memoria della storia sovietica e dei suoi aspetti più violenti, ha riguardato anche l’ambito della produzione audiovisiva?


L’ascesa e il consolidamento del potere di Putin dal 2000 non hanno concorso affatto alla creazione di una memoria audiovisiva (cinema, televisione, internet) critica del Gulag. Al contrario, il suo avvento ha contribuito profondamente a questa cecità della storia. Fedele alle sue origini in un KGB fondato sulla cultura del nemico, Putin ha sempre più ristretto le libertà civili, orchestrato processi contro gli oppositori, fino a sciogliere d’imperio l’associazione Memorial. Sul piano cinematografico, dopo il caos degli anni Novanta, l’industria russa si è gradualmente modernizzata. Oggi la gran parte delle risorse passa per un fondo Federale di sostegno al cinema che ha il compito di rendere la produzione più redditizia. La contropartita è stata quella di orientare la produzione filmica in una direzione ideologizzata che deve corrispondere agli interessi del potere putiniano e alimentare la congiuntura nazionalista di una Russia grande e militarmente potente, secondo un modello che richiama alcune produzioni sovietiche del passato. Va detto che, nel primo decennio putiniano, è possibile individuare ancora qualche film sul tema del Gulag. Per esempio, nel 2006 il regista Gleb Panfilov ha adattato Una giornata di Ivan Denisovič in una versione poco fedele al romanzo. Nel 2007 Nikolaj Dostal’ ha messo in scena la serie televisiva Il testamento di Lenin, ispirandosi alla vita e all’opera letteraria di Šalamov. Molto anni dopo altri racconti sul gulag, realizzati da scrittori contemporanei, sono stati adattati sullo schermo, come il libro dell’autrice tatara Guzel’ Jachina intitolato Zuleika apre gli occhi (2020) nel film di Egor Anaškin. Vi è, inoltre, L’arcipelago della Solovki di Zachar Prilepin, scrittore di successo, adattato nella serie Il monastero (2021) di Alekandr Veldinskij e Valerij Todorovskij. Su questi temi ci sono stati altri documentari realizzati in Germania e negli USA, senza dimenticare anche alcuni casi di film a soggetto nei paesi baltici e in Europa centrale che indagano la storia del Gulag da una prospettiva nazionale. In un sistema in cui in Russia i media sono da 20 anni, direttamente o indirettamente, sotto controllo di gruppi industriali e bancari di oligarchi al servizio di Putin, oppure smantellati o censurati, parlare di una memoria audiovisiva alternativa può dunque sembrare anacronistico. Tuttavia, utilizzando le piattaforme social online, nel 2019 il giovane blogger Jurij Dud’ è riuscito clamorosamente a riunire 12 milioni di spettatori davanti al suo documentario Kolyma – patria del nostro terrore, in un momento in cui un sondaggio rivelava che il 50% dei giovani russi fra i 18 e i 24 anni era ignorante sull’argomento trent’anni dopo la caduta dell’URSS.


La guerra in Ucraina ha aggravato le tendenze autoritarie del governo putiniano, rafforzando la censura e potenziando una televisione di propaganda.


Analizzare la dimensione visiva del gulag per comprenderne l’ampiezza conduce soprattutto a posizionarsi al crocevia degli studi cinematografici, della storia e della più generale letteratura concentrazionaria, giacché il problema è ancora oggi la dimensione visuale di questa storia che è invece ben documentata sul piano della scrittura.


La Russia è ancora in una fase di balbuzie sull’argomento e, malgrado l’importante lavoro svolto per decenni da Memorial, non è ancora riuscita a elaborare profondamente il trauma dei campi che ha colpito tre generazioni. E non si appresta nemmeno a farlo sotto la guida di Putin che, invece, si sforza di controllare la sfera pubblica in un contesto nazionalista e di riabilitare sempre maggiormente la figura di Stalin, il quale non è più solo ricordato come un vittorioso capo militare ma come una sorta di modello da seguire. Per esempio, recentemente, una copia a dimensioni ridotte della statua di Feliks Dzeržinskij – fondatore della polizia politica sovietica e promotore dei campi di prigionia e di lavoro – rimossa dalla piazza antistante la sede del KGB nell’agosto 1991 dai russi della società civile liberata, è stata installata, sebbene fuori Mosca, davanti al quartier generale del servizio di spionaggio estero della Federazione Russa. Tutti i documenti audiovisivi qui citati testimoniano piuttosto le contraddizioni profonde presenti in Russia fra la cultura scritta e quella visiva dei campi. A lungo rimasta marginale, questa storia – talvolta scritta, talaltra visiva – è diventata centrale come testimoniato dall’attribuzione del Premio Nobel per la Pace nel 2022 a Memorial. Se alcuni rari film hanno potuto anticipare queste questioni mostrandole, ancora oggi è difficile – nonostante i numerosi lavori degli storici russi e occidentali – ritornare retrospettivamente sulle incapacità di un’epoca di vedere in profondità la barbarie della storia del ventesimo secolo sovietico, nonché di mostrarla.

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