Voci dalla guerra. Viktor Marynčak, sacerdote di Charkiv: “Non mi abituo ad avere in chiesa le bare di quattro soldati”.
Per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”), Denys Volocha ha raccolto la testimonianza di padre Viktor Marynčak, sacerdote che continua a officiare a Charkiv, offrendo assistenza spirituale ai fedeli. La guerra ha messo duramente alla prova la sua fede, che non è venuta meno.
Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
Denys Volocha
08.09.2023
Dopo l’invasione russa Viktor Marynčak ha continuato a celebrare nella chiesa di san Giovanni apostolo, ma ha anche benedetto coloro che hanno deciso di andarsene da Charkiv. Ultimamente gli capita spesso di celebrare i funerali dei soldati, cosa che lo costringe a farsi domande cui è difficile trovare una risposta.
Padre Viktor è una leggenda a Charkiv. Docente di lingua russa all’università dal 1968, di punto in bianco nel 1991 andò a celebrare in quella che è forse l’unica chiesa filo-ucraina di Charkiv, che ha dato non poco filo da torcere al Patriarcato di Mosca.
Con le prime granate cadute poco distante, le vetrate della chiesa (che ha una storia straordinaria) sono finite tutte in pezzi. “Però i muri hanno retto” dice padre Viktor, e ricorda di non avere avuto paura in quei momenti, né lui né i suoi parrocchiani.
Quello che segue è un suo lungo discorso sul controllo delle emozioni, sulla sua personale redenzione, sulla capacità della Chiesa di riformarsi, sulla dignità e la libertà.
In marzo ci svegliavamo ogni mattina per le raffiche delle mitragliatrici: l’emergenza era chiara a tutti. Ma non ha scosso le nostre fondamenta. Quando, però, sono arrivate le prime notizie su Buča e Irpin’…
È dura, non c’è dubbio. E continuerà a esserlo fino alla fine di questa guerra; dopodiché sarà ancora dura, ma in modo diverso. Vincere o morire: a questo siamo destinati. E siccome non vogliamo morire, vinceremo. I problemi sono tanti, però…
Perdite, dolore: è un continuo accumulo. A qualcosa ci si abitua e diventa statistica. È tremendo. Ma succede. E non dobbiamo chiudere gli occhi. Dobbiamo guardarci dritto nel cuore con la consapevolezza che là dentro qualcosa potrebbe andare storto. Perché il bersaglio principale del nostro nemico è proprio lui, il nostro cuore. Che non è proprio senza peccato.
Ripeto spesso una domanda che ho sentito anni fa da un ragazzo che aveva visto morire la madre. “Dov’era il tuo Dio?”. È a me stesso per primo, che lo chiedo. Dov’era Dio quando succedeva quello che è successo a Buča, a Irpin’, a Izjum, a Balaklija, o a Cyrkuny? Dov’era il tuo Dio, eh? Non ho una risposta. Una risposta semplice, intendo, non filosofica. Non ce l’ho. No.
Il problema è l’effetto che hanno queste cose sul tuo cuore. A me hanno minato le basi della mia visione razionale del mondo, che ovviamente si fondava sui comandamenti. Una visione del mondo umanistica. Una visione del mondo incentrata sull’individuo, sull’essere umano quale centro dell’universo. L’essere umano con la sua dignità. Il suo amore. I suoi diritti, la sua creatività, la sua ispirazione. La visione del mondo che ci ha donato Gesù Cristo. Una visione del mondo che presupponeva che col tempo le persone sarebbero state più umane le une con le altre. Che finalmente determinate regole e diritti avrebbero funzionato. Niente regole, invece. E niente diritti. Niente funziona in un mondo dove l’impero del male è signore e padrone.
Le emozioni
Venti anni fa, un giorno un medico guardò i valori della mia pressione e disse: “Perché hai la minima così alta?”. Poi ci pensò su e disse: “Ah, è l’adrenalina!”. Ce l’ho in circolo ogni giorno.
Ho celebrato il matrimonio di un uomo, qui. Poi c’è stata la guerra. E mi è toccato il suo funerale. C’è una famiglia, nel quartiere, che conosco da 32 anni, dal primo giorno in cui sono arrivato. Ho seppellito il bisnonno, la bisnonna, il nonno e il nipote, un ragazzo di 18 anni. Conosco la famiglia. Io non piango facilmente, non me lo permetto. Quel giorno non ce l’ho fatta. Ho abbracciato sua nonna e siamo rimasti qualche minuto a piangere insieme, così, al cimitero. Dopodiché ho celebrato il funerale.
Non racconto a nessuno nemmeno un decimo di quanto mi capita. Io ho la grazia del sacerdozio che mi aiuta a portare questa croce, mentre chi non ce l’ha non ha nulla che li protegga. L’ho verificato a suo tempo, che protezione sia la grazia del sacerdozio. Non sono parole, è la realtà con cui ho a che fare.
A un funerale sono l’unico che deve mantenere la calma dall’inizio alla fine. Devo controllare me stesso e la situazione. Di nuovo, non significa non avere emozioni; significa saper smorzare quelle negative e distruttive: è molto importante. Al contrario, le emozioni utili le coltivo. Oggi ho celebrato due battesimi: è stata una cosa luminosa, una gioia pura e lieve. Le emozioni riaffiorano subito. Dunque non è che le perdiamo… È ai funerali che non mi abituo. Non mi abituo ad avere quattro bare insieme, qui in chiesa: è capitato, erano quattro soldati. Accanto a una bara c’era una mia vecchia conoscente. La conosco da trent’anni: dentro la cassa c’era un suo parente. Non è possibile farsi scivolare addosso cose del genere. È possibile controllarsi, mantenere la calma.
A distinguere un credente, secondo me, è l’equilibrio, è la fiducia – infondata, e lo sottolineo – che andrà tutto come deve andare. Bene o male non lo so, ma andrà come deve andare. Come deve, sì. Secondo la volontà di Dio. Che io accetto completamente e incondizionatamente. Dunque, non ho nulla da temere. A questo servono le situazioni di crisi: ci insegnano a pregare e a cercare modi e vie che dicano sì alla vita. È molto importante, questo.
La redenzione
Io sono stato connivente. Non in modo attivo, ma l’ho fatto. In ambito scolastico e culturale, bisogna dirlo, non si poteva fare altrimenti. Lavoro nella scuola dal 1968. Vent’anni e passa di insegnamento sono una cosa seria. La mia vita successiva è stata un modo per elaborare, per cambiare il mio atteggiamento, la mia situazione, la mia condotta. E per vivere in modo diverso. Non come vivevo ai tempi dell’Unione Sovietica. Per questo sono diventato sacerdote. Dovevo riscattare le mie colpe.
L’aspetto individualistico e personalistico del cristianesimo mi toccava molto da vicino. Il cristianesimo non si rivolge alle masse, ma a ogni singolo individuo, e per me è chiarissimo. Il cristianesimo vuole salvare ognuno di noi. Ognuno ha sulle spalle i suoi sbagli, le sue colpe; può avere inciampato, ma sta a noi aiutarlo a rialzarsi e a cambiare vita. Dobbiamo aiutarlo noi.
La riforma
Ci sono chiese recenti, le chiese protestanti, che si stanno riformando a tutta velocità. È una loro caratteristica. Essendo chiese nuove. Senza duemila anni di storia alle spalle che le condizionano. Noi ce li abbiamo, duemila anni di storia. E andiamo piano. Non abbiamo fretta di riformarci.
Le nostre riforme devono riguardare come prima cosa il nostro ministero sociale. Abbiamo diversi giovani cappellani in chiesa. Cui tocca un compito straordinario. Ogni giorno incontrano chi va in battaglia. Ascoltano, confessano, pregano per loro. E celebrano funerali, anche. Sostengono i soldati. Fanno loro capire che un sacerdote è fonte di forza per lo spirito. È necessario che sappiano di avere un appoggio.
Il cristianesimo è la religione più tragica del mondo, quella per cui quanto c’è di meglio può anche morire. Come ha scritto un teologo: “I cristiani sono destinati a perdere perché non possono usare tutti i loro mezzi, ma sono costretti a scegliere”. La storia della nostra Chiesa è la storia di duemila anni di persecuzioni. Siamo stati una Chiesa perseguitata fino a poco fa. Perciò non c’è da stupirsi che la maggior parte dei nostri santi siano martiri.
La dignità
Alla base della società moderna e della sua attenzione per i diritti umani, per lo stato di diritto, per il rispetto della libertà e della dignità umana c’è la visione cristiana della vita, la visione cristiana dell’essere umano. Per questo, per esempio, quando sono sceso in piazza nei primi giorni di dicembre del 2013 non l’ho fatto da civile. Mi è stato chiesto di farlo da sacerdote. E io sono andato a spiegare che le richieste di libertà e dignità erano richieste cristiane. Non poteva esserci dubbio.
Ed è preservando la propria libertà e dignità che bisogna andare fino in fondo. Credo che questo sia il senso e lo scopo dell’esistenza umana. Essere l’immagine di Dio. Dio è amore. Dio è luce, Dio è libertà, Dio è verità, per esempio. Siate dunque portatori di libertà, luce, verità e amore. Portate, affermate tutto ciò. Cos’altro serve?
Quando una persona muore, a nessuno interessa l’elenco di pubblicazioni, titoli o successi conseguiti. Tutti ricordano com’era. Importa la luce. Questa è la cosa principale.
Posso dire di avere visto molte persone di straordinaria dignità, tra la vita e la morte. Con una luce straordinaria. E questo è fonte di ispirazione, per me. Mi dà gioia e pace, e anche una certa fiducia. Dunque è possibile essere così, e anche fino all’ultimo. È ciò che mi prefiggo per me stesso.
Quanto al fare, è una cosa secondaria, conseguente.