Voci dalla guerra. Kyrylo Kucenko, abitante di Rubižne: “Tutte le case della nostra via sono distrutte”.
Kyrylo Kucenko racconta del suo avventuroso viaggio per lasciare Luhans’k invasa dai russi e rifugiarsi a Leopoli (L’viv). Gli invasori hanno devastato indiscriminatamente gli edifici della popolazione civile, riducendola a una vita di stenti. Kyrylo è riuscito a mettersi in salvo con la famiglia, ma non è stata un’impresa facile. La sua testimonianza è stata raccolta da Taras Vijčuk.
L’intervista è stata realizzata nell’ambito del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).
Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
Taras Vijčuk
24.11.2022
Kyrylo Kucenko ha assistito ai combattimenti a Rubižne due volte: se nel 2014 la città era riuscita a resistere, nel 2022 i russi l’hanno rasa al suolo.
Mi chiamo Kirilo Kucenko e vengo da Rubižne, regione di Luhans’k. Sono arrivato più di due mesi fa nella regione di L’viv e ora abito nel palazzo dei baroni Groedel, a Skole. Sono andato via perché hanno bombardato prima il nostro appartamento e poi la casa di mia nonna, e vivere senza luce, gas, acqua e cibo era diventato impossibile. Abbiamo lasciato Rubižne sotto le bombe, a fatica.
— Credeva che il 24 febbraio sarebbe iniziata la guerra?
— Seguivo le notizie e sapevo che due settimane prima dell’inizio della guerra una colonna di nostri carri armati aveva attraversato Varvarivka, vicino al nostro paesino. Dicevo a tutti che sarebbe successo qualcosa, ma nessuno ci credeva. Il primo giorno di guerra da noi non è capitato quasi niente. Verso il 5-6 marzo, invece, hanno occupato Varvarivka e si sono diretti verso Rubižne. La mia casa era nel quartiere n° 6, davanti a Varvarivka. Alle 11 di mattina del 7 marzo un missile ha centrato il mio palazzo. Io, la mia ragazza, mia madre e mia sorella eravamo riusciti a raggiungere la cantina. Eravamo appena scesi, che il missile ha colpito la casa. Nel giro di una mezz’ora circa era finito tutto. Sono salito, ho aperto la porta e ho visto la casa sottosopra e due buchi nel balcone. Il mio palazzo era l’ultimo, e il missile è arrivato dall’altro lato. Il palazzo vicino, invece, è stato centrato all’altezza del terzo piano e ci sono stati un sacco di morti. Alcuni finiti sotto le macerie, altri feriti. La protezione civile ha detto che c’erano delle persone bloccate in una cantina, non so se poi sono riusciti a salvarle. Il giorno dopo siamo andati da mia nonna, che ha una casa in comproprietà con altre tre persone. Abbiamo abitato lì: io, mia nonna, mio nonno, mia madre, il suo compagno e mia sorella. Dall’altra parte del muro ci stava la vicina: 91 anni. Quelli della Croce Rossa non riuscivano a portarle cibo e acqua, ma lei aveva comunque il gas. E finché ce l’ha avuto, andavamo noi a cucinare e a darle da mangiare. Poi verso il 16-17 marzo hanno bombardato la nostra via. Avevamo vicino un istituto tecnico dove si si erano installati i militari dell’esercito ucraino, e lo colpivano in continuazione. Vicino c’era anche il nuovo ufficio postale e un rifugio dove si nascondevano delle persone. Non i soldati, però.
I russi bombardavano tutto: il nostro quartiere, l’istituto coi militari e il nuovo ufficio postale. Poi i nostri soldati se ne sono andati un po’ più in là, ma i russi hanno comunque raso al suolo tutto il quartiere. All’inizio arrivavano sui carri armati, e anche se vedevano che non c’era nessuno, sparavano e distruggevano tutto lo stesso. Hanno iniziato colpendo il palazzo vicino: il tetto si è incendiato e poi è andata a fuoco la casa; abbiamo portato fuori tutto quello che abbiamo potuto. Avevamo la macchina. Siamo riusciti a farla partire anche senza le chiavi (loro non c’erano) e siamo fuggiti sotto le bombe. Poi siamo tornati, ma non abbiamo ritrovato né il palazzo, né le nostre cose. Due missili avevano centrato in pieno il palazzo.
— Come si sono svolti i combattimenti a Rubižne?
— Da un lato c’erano i nostri, dall’altro i russi, e noi in mezzo. Si accerchiavano a vicenda. I nostri hanno tenuto duro per parecchio e hanno difeso la città anche se per quasi due mesi si sono ritrovati praticamente sotto assedio alla periferia di Rubižne. Altro che combattere. Era tutto spianato dai missili.
Siamo poi andati al Palazzo delle Cultura di Pivdenne, dove avrebbero dovuto aprire un corridoio umanitario. Eravamo quasi arrivati, quando i russi si sono messi a sparare proprio in quella direzione, nonostante l’accordo. Hanno colpito il palazzo, ma non ci sono state vittime.
— Ha assistito alla distruzione di edifici civili?
— Tutte le case della nostra via, la Berestova, sono state distrutte: quella di mia nonna al civico 52 e quasi tutte le altre. La via è stata bombardata un sacco di volte, e i palazzi sono stati centrati tutti. La casa di mia nonna ha retto più delle altre. Quella dei vicini di fronte non aveva più il tetto, avevano centrato il palazzo due volte. All’inizio non bombardavano molto, era caduto giusto il recinto, poi invece dei colpi fortissimi hanno portato via le finestre e il tetto. Il quartiere accanto al parco, l’istituto tecnico e il parco stesso sono andati distrutti quasi completamente. Nel palazzo del nuovo ufficio postale avevano trovato rifugio delle persone e la protezione civile ci aveva installato dei generatori e stazioni di ricarica dei telefoni (finché il segnale ha tenuto). Lì prendevamo anche l’acqua, perché allontanarsi era molto rischioso. Una volta un missile è caduto davanti alla stazione degli autobus: c’erano diverse persone in fila a caricare i telefoni e a prendere l’acqua, e ci sono stati una ventina di morti. Non so che intenzioni avessero i russi, ma non credo che abbiano sbagliato la mira. I carri armati sanno che non ci sono soldati, e sparano dritto alle case.
“Una città industriale rasa al suolo, non vi è un palazzo rimasto intatto e molte case non possono essere ricostruite. I cortili delle case sono ora cimiteri. Prima della guerra qui ci vivevano più di 60 mila persone, si lavorava nelle fabbriche, nel settore pubblico, nelle piccole imprese”, ha affermato il responsabile militare per la regione di Luhans’k.
— Sa di altri crimini commessi dai russi nei confronti dei civili?
— Nella nostra via viveva anche mia nonna. Era con la nostra vicina Tasja quando un missile ha centrato la sua casa distruggendo il tetto e una scheggia le ha ferito il braccio. Mio nonno l’ha portata sotto i bombardamenti al pronto soccorso che era stato attrezzato nei pressi del nuovo ufficio postale per farle almeno fasciare il braccio e lavare la ferita, perché noi avevamo solo l’acqua ottenuta sciogliendo la neve. Lì le hanno dato da mangiare, c’erano tante persone e tante stanze. Avevano persino una televisione che non so come riusciva a prendere i canali ucraini. Non so come ci riuscissero. Devono aver fatto qualche magia per poter ascoltare le notizie, perché nessuno sapeva cosa stava succedendo e dove. Io, per esempio, ho uno zio che è ancora a Mariupol’ con tutta la famiglia. Casa loro è in piedi, ma intorno è tutto distrutto…
— Come vi procuravate il cibo durante l’occupazione?
—L’acqua al nuovo ufficio delle poste. Mangiavamo quello che avevamo in cantina, le conserve. Poi, con la città bombardata, sono cominciati i combattimenti in centro, davanti alla stazione degli autobus. Il negozio “Sim’ja” era stato raso al suolo, la roba era tutta in strada e siamo andati a prenderla. I vicini avevano qualcosa da mangiare, qualcos’altro si trovava. I vicini sapevano che avevamo un bimbo piccolo… Ha sette anni, ma sempre bambino è… e quindi ci portavano qualche mela, o altro. Io avevo delle sigarette e le scambiavo con farina e pane. Inizialmente con la farina, perché il pane non c’era. E mia mamma andava tutti i giorni a cucinare la minestra e qualche pagnotta sui falò. Poi abbiamo saputo che la nostra vicina aveva il gas. Non sapevamo come facesse ad averlo, ma abbiamo iniziato a cucinare da lei. Stare per strada era terrificante, ci fischiavano le pallottole sopra la testa, era un incubo!
Con Оleksandr, il compagno di mia madre, correvamo in centro a cercare da mangiare: qualcosa abbiamo trovato nel nostro appartamento, che era già stato bombardato, qualcos’altro da vicini e conoscenti. Cercavamo ovunque in città e poi e tornavamo indietro, girando lontano al parco. Avremmo fatto prima ad attraversarlo, ma sapevamo che lì c’erano i nostri soldati, e che se i russi cominciavano a sparare… Infatti poi hanno iniziato a bombardare quella zona e anche i quartieri vicini. Un missile ci è passato a una quindicina di metri. In un lampo io e Oleksandr siamo riusciti a nasconderci in un garage, abbiamo aspettato lì. Poi siamo corsi verso una casa e abbiamo aspettato un altro po’. Oleksandr non aveva mai fumato, ma in quel momento si è acceso una sigaretta. Poi siamo riusciti a raggiungere casa nostra sotto i colpi.
Negli ultimi tempi era difficile trovare del cibo, non c’era quasi più niente. Bollivamo lardo e cereali. Ci mettevamo cereali, pasta, cotiche o le ossa che avremmo dato ai cani. Cucinavamo questo perché non avevamo più niente.
— Come siete riusciti a lasciare i territori occupati?
— Vivevamo a Pivdenne, una frazione di Rubižne. Un giorno ci scrisse una ragazza che era andata nell’Ucraina occidentale qualche tempo prima: ci diceva che era arrivata a Skole. Quasi tutti i giorni c’erano dei corridoi umanitari, da Pivdenne. Io e mio nonno ci siamo preparati. Preparati è una parola grossa: abbiamo preso un po’ d’acqua e un paio di mele, non avevamo altro. Coi vestiti che avevamo addosso… Non ne avevamo altri, ce li hanno dati qui. Ce ne siamo partiti in bicicletta. Mentre io aspettavo l’autobus del corridoio umanitario, lui è andato a salutare una prozia che viveva lì vicino. Non c’era segnale, i telefoni non andavano, e non sapevamo chi tra i parenti era vivo o morto. Lei era viva, l’avevamo saputo. Mio nonno è andato da mia madre e mia nonna. Io sono partito da solo. Prima siamo arrivati a L’viv facendo vari cambi, e poi da L’viv fino a Skole. Dopo circa tre giorni è arrivata la mia prozia. Mia madre col compagno, mia sorella, mio fratello e la famiglia del compagno di mia madre coi nonni sono andati tutti a Dnipro.
— Qualche suo conoscente è rimasto a Rubižne?
— Quando sono arrivato mi sono messo a chiamare gli amici. Molti sono partiti, ma molti altri sono rimasti a Rubižne. Per un po’ c’è stato segnale, poi hanno distrutto l’ultima antenna che lo manteneva in qualche modo. Per un po’ si poteva andare nei campi a chiamare, ma ora proprio non si riesce più a prendere la linea. Il mio amico e sua madre sono andati a Kyiv, credo. Il suo patrigno li ha raggiunti qualche tempo dopo. Non sapevano dove fosse. Mi pare che lo avessero fatto prigioniero a Rubižne: lo hanno picchiato e interrogato: “Dove sono questi militari? Dove si trova questo e quell’altro?”. A un altro amico (non dirò come si chiama) hanno ammazzato il padre. Gli era finita una scheggia nel braccio. Avevano provato ad andarsene entrando in Russia, ma invano. Molti amici sono riusciti a passare per la Russia: non avevano scelta. Alcuni erano rimasti senza casa, altri senza cibo. Sono stati costretti a partire. Alcuni sono riusciti ad andarsene altrove in Ucraina. Un miracolo! Io ero più vicino al fronte ucraino, ma qualcuno è partito anche dopo la chiusura del corridoio umanitario, quando bombardavano davvero tanto. Anche prima bombardavano fitto, ma poi ancora di più. Dicevano che avevano iniziato a colpire le cisterne di sostanze chimiche. Da noi c’era stato qualcosa di simile, con del fumo rosa che usciva da alcune cisterne. Si arrivava in Ucraina attraversando boschi e campi.
— Quali sono le differenze tra gli eventi del 2014 e il post-24 febbraio?
— Nel 2014 i russi volevano inondare Rubižne, avevano fatto esplodere il ponte sul Sivers’kyj Donec’, cercavano di arrivarci da entrambe le sponde, ma i nostri soldati hanno difeso la città. All’epoca avevano danneggiato diverse case, tra cui quella di un mio amico. Avevano centrato il tetto con un mortaio, ma il missile non era esploso. Aveva bucato il tetto ed era rimasta lì per tre mesi. Quando lui era salito a prendere qualcosa lo aveva visto e aveva chiamato la protezione civile. C’è stata qualche finestra rotta. So che anche nel 2014 c’era stata qualche vittima, ma in periferia soltanto. Grazie ai nostri soldati, all’epoca non erano riusciti a conquistare la città. Il ponte è stato riparato nel giro di sei mesi — un anno, e hanno messo dei posti di blocco. Altre città hanno subito danni maggiori.
Sjevjerodonec’k è la città più vicina a Rubižne. Nel 2014 la volevano conquistare perché ci sono delle industrie chimiche; da noi, invece, c’è la Zorja, che produceva esplosivi per l’edilizia. Se l’avessero colpita, dicevano, ci sarebbero state delle forti esplosioni. Neanche questo li ha fermati, ora. L’hanno bombardata, ma fortunatamente avevano già portato via quasi tutto. Comunque quando l’hanno colpita l’esplosione è stata forte.
— La popolazione russofona a Rubižne era perseguitata?
— A voler essere sinceri, l’ucrainizzazione era partita proprio nel 2014. Hanno smesso di insegnare il russo a scuola, o lo insegnavano come lingua straniera. Non c’erano scuole in lingua russa, ma l’ideologia regnava comunque sovrana: “Guardate che laggiù i nazisti di Bandera vi sbranano. Noi siamo Ucraina, ma non siamo quell’Ucraina lì”. Ci ammorbavano con queste storie. Nonostante l’ucrainizzazione, volevano dimostrare che anche la Russia era dalla parte del giusto. A Rubižne quasi tutti erano russofoni, quasi tutta la regione di Luhans’k è russofona, ma nessuno ci ha mai discriminato. Quando sono arrivato a L’viv inizialmente parlavo in russo. Nessuno mi ha mai detto niente. Ci hanno ospitato senza problemi, ci hanno dato da mangiare, un posto in cui stare, dei vestiti. Quando ho iniziato a lavorare qui parlavo russo. Quello che dicono sui media russi, la storia dei “nazisti di Bandera”, sono cavolate. Qui si sta molto meglio rispetto a dove stavamo noi: qui le persone sono gentili e ci aiutano.