Vladimir Kara-Murza dal carcere di Mosca: “Non mi avranno e, fidatevi, tutto questo presto finirà”

Il dissidente, giornalista e storico, per due volte avvelenato con gravi conseguenze sulla salute, racconta la vita in prigione e perché ha deciso di tornare in Russia per dare battaglia al regime di Putin: "Da lontano, da un posto sicuro, non puoi chiedere alla gente di battersi contro un regime autoritario".

(di Marija Voloch e Vladimir Kara-Murza jr; traduzione di Claudia Zonghetti)


30 giugno 2023 
ore 08:59


Proponiamo una lunga intervista dal carcere a Vladimir Kara-Murza di Marija Voloch, pubblicata il 27 giugno 2023 su “Poligon Media“, che ringraziamo per l’autorizzazione a pubblicare la traduzione di Claudia Zonghetti. Da più di un anno il politico Vladimir Kara-Murza è dietro le sbarre per la sua attività a favore dei diritti umani in Russia e per le sue dichiarazioni contro la guerra. Il 17 aprile 2023 è stato condannato a 25 anni di colonia penale a regime severo per aver diffuso “fake news” sull’esercito (art. 207.3, comma 2, punti g e d del Codice penale), per avere collaborato con un’organizzazione “non grata” (art. 284.1 comma 1 del Codice penale) e per alto tradimento (art. 275 del Codice penale). Kara-Murza è attualmente in attesa di essere trasferito dal centro di detenzione preventiva “Vodnik” di Mosca.  Il canale Telegram “mozhemobyasnit” [lett. Possiamo spiegare] ha contattato Kara-Murza attraverso il servizio di corrispondenza con i detenuti. Abbiamo così saputo che gli è stato finalmente concesso di chiamare i figli. Ci ha poi detto come sta, come lo trattano e come si trova con gli altri detenuti e lo staff del centro correzionale; ci ha spiegato perché ha deciso di rimanere in Russia, ci ha detto cosa gli piace leggere e molto altro ancora. 


Vladimir Kara-Murza è un politico dell’opposizione russa, è giornalista, storico e regista. Ha una laurea in Storia conseguita presso l’Università di Cambridge, nel Regno Unito. È stato membro dell’Unione delle forze di destra, del movimento Solidarność, ha partecipato alle proteste di Piazza Bolotnaja, ha ricoperto la carica di vicepresidente di PARNAS, è stato eletto nel Consiglio di coordinamento dell’opposizione, ha lavorato presso Open Russia, ha collaborato con la Fondazione Russia Libera ed è stato presidente della Fondazione per la libertà “Boris Nemtsov”. Ha anche scritto numerosi articoli sui principali media russi e stranieri e ha diretto diversi documentari. Nel 2022 ha vinto il Premio Václav Havel e il premio della Fondazione Axel Springer. Insieme a Boris Nemtsov ha ideato e sostenuto la Lista Magnitskij, per la quale ha pagato un prezzo molto alto: nel 2015 e nel 2017 è stato avvelenato dai servizi segreti russi, sopravvivendo per miracolo. Nel marzo 2023, Vadim Prochorov, il suo legale, ha riferito che le condizioni di salute di Kara-Murza sono molto peggiorate. Gli è stata diagnosticata una polineuropatia agli arti inferiori, con diminuzione della sensibilità e intorpidimento degli arti.


Vladirim Kara-Murza jr
(foto di
Jindřich Nosek (NoJin)
, CC BY-SA 4.0)


Come va la salute? 


Non c’è male, per dove sono. Come si dice in questi casi, “non mi avranno”. Il nostro carcere ha un ottimo direttore sanitario, che fa quel che può nelle circostanze in cui siamo. Sto seguendo tutte le terapie prescritte. La polineuropatia che ho alle gambe e alle mani è la conseguenza dei due avvelenamenti. Dopo il primo ho dovuto reimparare a camminare, poi ho usato il bastone per un anno. Fuori di qui mantenevo una forma discreta facendo attività sportiva: corsa, passeggiate regolari, bicicletta, nuoto e così via. Capite da soli che qua dentro è un’altra storia. Mi rimetterò in sesto quando uscirò. Ma è dura. 


Non ha paura di essere tra le “grinfie” di un regime che ha già tentato due volte di ucciderla? 


La paura è un lusso che un politico dell’opposizione non può permettersi, in Russia. Sappiamo tutti quale prezzo si paga a non tacere, nel nostro Paese. Come diceva Boris Nemtsov: “La libertà costa cara”. Molti anni fa, mentre giravo Hanno scelto la libertà, un documentario sui dissidenti sovietici, chiesi a Vladimir Bukovskij [dissidente della prima ora, attivista per i diritti umani e scrittore] che cosa lo aveva aiutato a resistere e a non cedere allo sconforto e alla paura nelle prigioni e nei campi. Mi rispose: “La consapevolezza di essere nel giusto. Se sai di essere nel giusto, la paura sparisce”. Ora so cosa intendeva.


Si è pentito della sua decisione di tornare in Russia? E cosa pensa dei suoi colleghi che, invece, l’hanno lasciata? 


Mi permetto una piccola rettifica: non sono “tornato” perché non l’ho mai lasciata, la Russia. Né dopo i due avvelenamenti né dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. A marzo sono andato alla festa per i sedici anni della mia figlia maggiore (la mia famiglia vive all’estero, e non c’è bisogno che spieghi perché), dopodiché ho fatto qualche viaggio, ho rivisto amici e colleghi, ho parlato alla House of Representatives dell’Arizona e al Congresso degli Stati Uniti con la Commissione Helsinki (due dei cinque “reati” contemplati dalla mia condanna), poi ho partecipato alle udienze dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE) sui prigionieri politici in Russia, e poi sono tornato a Mosca da Parigi. Mi hanno arrestato nel cortile della mia casa (quartiere Zamoskvoreč’e) l’11 aprile del 2022. Quanto alla sostanza della sua domanda, le possibili risposte sincere sono due. Sono un uomo, un marito e un padre, e sì, me ne pento ogni giorno, e mia moglie e i miei figli (che per più di un anno non solo non ho potuto vedere né abbracciare, ma che nemmeno ho mai sentito al telefono) mi mancano da morire, non so nemmeno dirle quanto. E mi sento infinitamente in colpa per loro. Questa è la prima risposta. La seconda è che non solo non me ne pento, ma come cittadino e come politico non avrei potuto fare altrimenti. Non me lo sarei perdonato per il resto della vita. Un politico non può esporsi “da remoto”. Se sei lontano, in un posto sicuro, non puoi criticare il potere e invitare la gente a lottare contro un regime autoritario. O per lo meno io non credo di avere il diritto morale di farlo. È una questione di etica e di responsabilità, soprattutto per un personaggio pubblico. Quando, durante la campagna elettorale del 2007 (quando l’opposizione lo aveva proposto come candidato alle presidenziali) chiesero a Vladimir Bukovskij perché era tornato e se sperava davvero di cambiare qualcosa, lui rispose: “Sono tornato perché la gente ha di nuovo paura. E quand’è così, bisogna stare al loro fianco e dire: ‘Sono qui. E non ho paura’”. Me la fanno spesso, questa domanda. E vorrei sottolineare che non sono l’unico ad avere fatto questa scelta. Michail Chodorkovskij è tornato in Russia nell’autunno del 2003, Boris Nemtsov nella primavera del 2014 e Aleksej Naval’nyj nell’inverno del 2021, tutti pienamente consapevoli dei rischi che avrebbero corso. Ma sentivano forte la responsabilità verso il Paese e verso la loro coscienza.


Non le è ancora permesso di comunicare con i suoi cari?


Mi è stato vietato di chiamare mia moglie e i miei figli per un anno e due mesi, dall’aprile 2022 al giugno 2023. Prima dal Comitato Investigativo, poi dal Tribunale di Mosca. È l’ennesimo, amatissimo uso sovietico: non si puniscono solo i “nemici”, ma anche le loro famiglie. Una pratica che viene applicata di frequente ai prigionieri politici. Ad Andrej Pivovarov è stato impedito di chiamare il figlio piccolo per un anno; da più di un anno non parla con i figli anche Aleksej Naval’nyj; Sergej Michajlov, fondatore del settimanale d’opposizione “Listok” e membro del partito PARNAS, non può scrivere alla moglie perché è una testimone al processo (e i testimoni non possono avere contatti con gli imputati: per questo l’hanno chiamata a testimoniare). Nel mio caso c’è anche una questione personale: Sergej Podoprigorov, che mi ha giudicato (e mi ha proibito di chiamare i miei figli) è stato il primo giudice che, con Boris Nemtsov, abbiamo accluso nella lista per la legge Magnitskij. È tutto montato ad arte. Della serie: “Ho un tale rancore personale verso la vittima, che mi è passata anche la fame”. [battuta storica dal film Mimino, del 1977, N.d.T.]. A giugno mi è stato permesso di chiamare i miei figli per la prima volta. Per la prima volta dal mio arresto ho sentito per qualche minuto le loro voci nella cornetta. Non ci sono parole per descriverlo, dunque nemmeno le cercherò. 


Che cosa la aiuta a non perdersi d’animo e a restare ottimista?


Non mi sentirà dire nulla di nuovo, l’esperienza dei prigionieri ha passato l’esame dei secoli. Leggo buoni libri. Prego. Faccio esercizio fisico nel cortile. Di grande sostegno sono le lettere che mi arrivano da tutta la Russia e dal mondo: un grazie sentito, enorme, a tutti coloro che scrivono ai prigionieri politici, è importante. In più, mi aiuta molto la mia formazione di storico.


Tutto questo è già successo, nel nostro Paese, ed è finito. Finirà anche questa volta, e sappiamo persino come, più o meno. Nessuno è mai riuscito ad abrogare le leggi della storia. 

Vladimir Kara-Murza jr


In che condizioni vive? 


Mi hanno messo in quello che viene definito “il blocco speciale piccolo”, l’ala più isolata, una specie di “prigione nella prigione”. Lo chiamano anche “la tana dei ladri”. Ci vivono i ladri malavitosi, gli assassini, gli estorsori. E io. All’ingresso c’è un metal detector, le porte di accesso al reparto sono due, separate e blindate, e alla porta della mia cella ci sono tre lucchetti. Quando esco ho tre secondini tutti per me che mi accompagnano attraverso i corridoi e le scale. “Ma non vi viene da ridere?” ho chiesto loro una volta. “Abbiamo istruzioni precise: lei è un uomo molto pericoloso”. Che poi, in un certo senso, hanno persino ragione: in una dittatura chi disobbedisce e insiste a dire che due per due fa quattro è davvero pericoloso. 


In che rapporti è con i suoi compagni di cella e con il personale del carcere?

È tutto come nei libri dei dissidenti sovietici degli anni ’70: non è cambiato niente, è pazzesco. I criminali comuni trattano i politici con grande rispetto (indipendentemente da ciò che pensano, tra l’altro). Quando, dopo il processo, sono entrato nel furgone cellulare con la mia condanna a 25 anni, poco è mancato che si alzassero in piedi, tutti quanti. Quanto ai secondini, sono persone molto diverse per opinioni e qualità umane, come del resto accade tra le persone in genere. C’è chi non mi nasconde la propria avversione e chi non ha paura di mostrarmi il suo sostegno, quasi apertamente a volte. Tutto come al solito, insomma. 


Com’è una sua giornata? Ci sono hobby o altre cose che la fanno stare meglio? 


Ogni giorno, in carcere, è come il giorno della marmotta del film Ricomincio da capo. Interminabile, sempre uguale e ripetitivo. L’orario è scandito: sveglia, sbobba, controllo, passeggiata, a lavarsi una volta alla settimana come da programma, e via dicendo. Hobby e altre cose sono un problema quando sei rinchiuso fra quattro mura per 23 ore al giorno (e fra quattro mura sei anche nell’altra ora, nel cortile coperto). Leggo e scrivo, soprattutto; più che altro scrivo: articoli, commenti, interventi per il tribunale, programmi politici, appunti sui libri, risposte alle lettere e ai giornalisti, tipo a lei ora. I miei compagni di cella – miei coetanei o più grandi, quelli che hanno fatto le scuole sovietiche – mi prendono in giro e dicono che sono come Lenin, che in prigione scriveva tra le righe usando il latte come inchiostro segreto. Se la ricordano tutti, quella sciocchezza! Tra l’altro, mentre era in prigione a San Pietroburgo, Lenin poteva richiedere tutti i libri che voleva dalla Biblioteca pubblica, e lo stesso faceva Miljukov, che ha scritto gran parte dei Saggi sulla storia della cultura russa mentre era rinchiuso. Io non ho questo lusso, ma abbiamo comunque una discreta biblioteca, qui dentro, con molta letteratura della dissidenza. Si capisce subito che ci sono sempre stati prigionieri politici, qui.


Cosa sta leggendo in questo momento? E cosa consiglierebbe di leggere a chi cerca di non perdere la fiducia in un futuro migliore? 


Al momento sto giusto leggendo i Saggi sulla storia della cultura russa di Pavel Miljukov. È la sua opera principale, e del resto, oltre a essere stato uno dei leader del liberalismo russo, membro della Duma di Stato e ministro degli Esteri, Miljukov era soprattutto uno storico molto profondo e serio. I suoi Saggi sono una panoramica fondamentale della storia culturale, spirituale, socio-economica, militare, sociale e politica del nostro Paese negli ultimi dieci secoli. E spiegano molte cose, anche dei giorni nostri. Nell’ultimo anno ho letto (o riletto) moltissimi libri che avevo intenzione di leggere e rileggere da un sacco di tempo, ma per cui il tempo non mi bastava mai. Sono soprattutto libri storici e memorie, ma anche narrativa e letteratura religiosa. Infine, ho avuto modo di leggere attentamente e per intero Arcipelago Gulag, un libro che oggi (soprattutto oggi, sì) tutti dovrebbero leggere. E poi, naturalmente, i libri dei dissidenti sovietici. Uno dei più importanti della mia vita è Il vento va, e poi ritorna... di Vladimir Bukovskij [trad. italiana di Sergio Leone, Feltrinelli, 1978 – N.d.T.]: è il primo che mi sento di raccomandare. È un grande libro, sempre attuale e oggi più che mai. E sappiamo anche come finisce… 


Riesce a tenersi al passo con le notizie?


Solo attraverso il filtro della propaganda di Stato, dunque non le chiamerei proprio “notizie”. In cella la TV è accesa dalla mattina alla sera. E fa paura.


Fa paura pensare che gran parte della popolazione del nostro Paese vive in una bolla di propaganda, con livelli impressionanti di odio, aggressività, isteria, bugie mostruose e istigazione alla violenza. Chi collabora a tutto questo è chiaramente un criminale.


E quando tutto sarà finito, dovrà essere processato come accadde ai loro omologhi nazisti a Norimberga, o ai capi ruandesi di Radio Télévision Libre des Mille Collines, chiamati a rispondere delle loro azioni al Tribunale internazionale delle Nazioni Unite.


So che dal carcere ha creato una fondazione per aiutare le famiglie dei prigionieri politici. Ce ne parli.


Abbiamo creato la Fondazione “30 ottobre” all’unico scopo di aiutare le famiglie dei prigionieri politici russi. Secondo una stima – prudente – di Memorial, siamo già più di cinquecento, e molti hanno famiglie e figli che sono rimasti senza i loro cari, sì, ma spesso anche senza mezzi di sostentamento. Anche loro sono vittime della repressione di Stato. Aleksandr Solženitsyn utilizzò i guadagni e le royalties di Arcipelago Gulag per creare il Fondo pubblico russo per l’assistenza ai perseguitati e alle loro famiglie. Oggi a farsi carico di un’assistenza sistematica non c’è nessuno: per questo abbiamo creato la nostra fondazione. Nel consiglio di amministrazione ci sono personaggi pubblici e attivisti per i diritti umani russi e stranieri, tra cui Natan Sharansky, Adam Michnik e Irwin Cotler; il presidente è mia moglie Evgenija e il direttore Aleksandr Podrabinek, noto giornalista e attivista per i diritti umani ed ex prigioniero politico. Il primo contributo sono stati i 90.000 euro del Premio Václav Havel del Consiglio d’Europa e del Premio Courage della Fondazione Axel Springer, che ho ricevuto l’anno scorso. La Fondazione raccoglierà anche contributi esterni, e spero che molti fra coloro che ne hanno la possibilità vogliano darci una mano. Ogni centesimo donato alla Fondazione 30 ottobre andrà alle famiglie in difficoltà. 


Cosa vorrebbe far sapere a coloro che la sostengono?


So (e vedo dalle lettere che ricevo) che molti sono sconfortati e hanno perso il senso del futuro e della prospettiva. Amici, no!, non fatelo! Tutto questo finirà, e pure in un futuro abbastanza prossimo.


E non è né fede cieca, né ottimismo ingenuo: è la storia che ho studiato. Stiamo vivendo un periodo storico che il nostro Paese ha già vissuto altre volte: nei “sette anni tristi” della fine del regno di Nicola I, negli ultimi anni prima della morte di Stalin, negli anni Ottanta. La stessa combinazione perniciosa di reazione interna e isolamento internazionale. Sappiamo anche, però, come tutti quei periodi sono finiti. Qualcosa cambierà, e non ci vorrà molto. Ed è importante farsi trovare pronti per non perdere l’opportunità di fare tutto ciò che serve, questa volta, per sottrarci al solito circolo vizioso e costruire finalmente un Paese libero, moderno ed europeo, che non sia più una minaccia per i suoi cittadini o per il mondo che lo circonda. Credo fermamente che ci riusciremo. E io stesso farò tutto ciò che è in mio potere perché questo accada.

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