Voci dalla guerra: Svitlana Holovata, abitante di Moščun: “Avevo paura di restare mutilata”.
Svitlana Holovata ha raccontato a Oleksij Sydorenko di come una granata sparata dai russi sia precipitata a casa sua senza esplodere, lasciando in vita lei e la sua famiglia. Dopo la fine della guerra Svitlana e il marito intendono ricostruire la loro casa a Moščun.
L’intervista è stata realizzata per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”). Il video dell’intervista, in lingua originale sottotitolato in italiano, si può guardare nel canale YouTube di Memorial Italia.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
Oleksij Sydorenko
10.11.2022
“Avevo paura di restare mutilata”. Così, sulla soglia della sua casa ridotta in macerie, racconta i giorni di guerra un’abitante di Moščun
La casa di Svitlana Holovata, a Moščun, è distrutta fino alle fondamenta. È bruciato tutto: letti, armadi, mobili, persino il televisore. Sembra quasi che non ci sia mai stato niente, lì dentro, dice Holovata.
Mi chiamo Svitlana Ivanivna Holovata. Abito nel paese di Moščun, in via Lisna. Prima della guerra lavoravo in un supermercato “Fora”, che chiaramente adesso è chiuso. Il negozio è distrutto, e al momento noi dipendenti restiamo a casa.
— Avrebbe mai immaginato che ci sarebbe stata la guerra?
No, mai e poi mai. Certo, avevo radunato i documenti, ma li tenevo comunque già tutti in una busta. Nessuno aveva fatto altri preparativi. Niente valigie, no: non volevamo proprio crederci. Il 24 febbraio siamo andati a lavorare normalmente. Alle tre ci hanno detto di chiudere il negozio e mio marito è venuto a prendermi. Ma il giorno dopo sono tornata al lavoro. Era necessario, la gente doveva pur mangiare! Ma il “Fora” non ha comunque aperto. Ci siamo salvati per il rotto della cuffia, se posso dire così, perché erano già iniziati i bombardamenti. Volevano far saltare il ponte. Chiaramente da quel momento siamo rimasti a casa.
— Ci racconti il primo giorno di guerra. Che cosa è successo?
Quel giorno ero al lavoro. Mio marito chiamava di continuo per dirmi che c’erano degli elicotteri che passavano vicino a dove stava lui. Poi abbiamo visto che bombardavano l’aeroporto, a Hostomel’. Aerei, elicotteri… tutto, abbiamo visto. Però sopra di noi passavano e basta: andavano a bombardare Hostomel’.
— Non avete pensato di scappare?
Per niente! Pensavamo che [i russi] sarebbero passati oltre, o si sarebbero ritirati. Non avevamo nessuna intenzione di andarcene. Neanche il 2 marzo. Ma c’erano mio figlio e la nonna, che è anziana; per questo che ce ne siamo andati. Sennò io ero contraria.
— Che cosa vi ha spinto a partire?
Abbiamo dovuto farlo per mia suocera, che ha una certa età: ero preoccupata per lei. E poi, sinceramente, quando ormai bombardavano forte anche da noi, la paura vera non era di morire, ma di rimanere mutilati. Che avremmo fatto, in quel caso? Ero terrorizzata.
— Dove vi rifugiavate durante i bombardamenti?
In cantina. Avevamo imparato a capire da che parte venivano i missili. Se erano i nostri a sparare, sapevamo di essere nel mezzo, e a quel punto scendevamo in cantina con la nonna e mio figlio. Ci stavamo in quattro: io, mio marito, sua madre e nostro figlio.
— Ci racconti di casa sua.
C’erano due ingressi. Erano un centoventi metri quadri, in tutto. Dalla nostra parte c’erano due stanze, la cucina, il bagno e il corridoio. Nell’altra metà ci stava mio figlio, che aveva due stanze pure lui, la cucina e un lungo corridoio. A lui volevamo costruirgli un altro piano, sopra. La casa originaria avrà avuto una quarantina d’anni, l’avevano costruita i miei suoceri. Poi noi abbiamo aggiunto la parte per me e mio marito, con un ingresso separato. Ormai sono venticinque anni che stiamo insieme e non abbiamo mai smesso di costruire. Qui, per esempio, avevamo fatto il garage e la cucina.
— In che momento il paese di Moščun ha subito i primi danni?
Il primo è stato nell’orto del vicino. Gli hanno centrato la casa, che ha subito preso fuoco. I pompieri c’erano, ma non hanno neanche provato a spegnere l’incendio. Una granata è arrivata anche a casa nostra, ma almeno non è esplosa. Eravamo tutti lì. Mia suocera era a letto, e noi sdraiati sul pavimento della sua stanza. Io stavo cucinando il pranzo e ho detto che non sarei scesa in cantina. Così non ci è andato nessuno. Mia suocera ha già ottant’anni, dormiva, e per non svegliarla siamo rimasti con lei. Non so per quale miracolo ci siamo salvati… Eravamo tutti nella stessa stanza.
— Dov’è caduta la granata?
Vicino a casa, accanto al contatore del gas, ma non ha spaccato le tubature. Era il 28 febbraio. Semplicemente, la granata non è esplosa. All’inizio eravamo preoccupati, andavamo a controllare, perché era caduta sulla prolunga elettrica: non avevamo più la corrente e ci eravamo attaccati al generatore dei vicini almeno per ricaricare i telefoni. Avevamo paura ad accendere il nostro generatore, la granata era proprio sopra i cavi. Andavamo a controllare, la guardavamo: niente, stava lì e basta…
— La notte seguente l’avete trascorsa dentro casa?
Certo! Io ho detto chiaro e tondo che non avrei dormito in cantina. Là sotto ci scendevamo soltanto di giorno. Così ogni mattina ci alzavamo, uscivamo in cortile e scambiavamo due parole con gli altri. Stavamo tutti con le mani in mano, perché non sapevamo che fare. Proprio non lo sapevamo. Tiravamo avanti come potevamo… Io cucinavo per tutti.
— Quando avete deciso di partire, e perché?
Il 2 marzo sono andata da mia sorella a prendere i documenti di sua figlia, che aveva lasciato lì quelli che non le servivano. Suo marito arriva e mi fa: “Partiamo!” E io: “Come sarebbe? Noi non andiamo da nessuna parte!” E lui: “Invece sì: hanno detto che bisogna andar via”. Per fortuna avevamo la macchina, l’unica cosa che ci era rimasta. E il serbatoio era pieno.
Prima siamo andati nella regione di Poltava, da mio padre. Eravamo in cinque, avevamo preso con noi anche un vicino rimasto solo che non aveva altro modo per andarsene. E per due mesi abbiamo vissuto in cinque in una stanza.
A dire la verità io pensavo di andarmene per un paio di giorni, non di più. Ero preoccupata anche per il congelatore che non era del tutto sbrinato. Non contavo di stare via a lungo. Ma poi gli scontri sono diventati intensissimi. Il 7 e l’8 marzo i volontari hanno portato via le ultime persone rimaste, quelle rintanate nelle cantine perché non avevano mezzi propri per partire. Noi non avevamo segnale e non potevamo telefonare a nessuno. Sapevamo già che non si poteva più tornare: c’erano i combattimenti.
— Quando ha saputo che casa sua era stata distrutta?
Me l’ha detto un ragazzo che abitava da noi. In qualche modo è riuscito a raggiungerci e mi ha detto: “Signora Svitlana, mi spiace tanto, ma purtroppo casa sua non c’è più”. Era il 10 marzo. La casa era stata distrutta due giorni prima, ma lui ha aspettato a dirmelo per non rovinarmi la festa dell’8 marzo.
— Quando avete deciso di tornare?
Abbiamo aspettato fino al 9 maggio, anche se in realtà volevamo tornare un po’ prima. Tutti quelli che erano passati di là prima del 9 maggio avevano fatto delle foto della nostra casa e ce le avevano mandate. Quindi sapevamo già cosa avremmo trovato… La casa è andata completamente distrutta. Sembra che non sia mai stata ristrutturata, che non ci fossero mai stati mobili, dentro. Sono bruciati tutti. Sono rimasti solo il frigo, la lavastoviglie e la caldaia.
È bruciato tutto: letti, armadi, mobili, persino il televisore… Davvero, sembra che non ci sia mai stato nulla. Il garage e la cucina esterna sono bruciati completamente.
Mentre tornavamo a casa, la speranza era di trovare in piedi almeno la cucina esterna: questo ci dicevamo. L’avevamo rifatta da cima a fondo, avremmo potuto stare lì. E la stanza dove volevo avviare un’attività da parrucchiera: non avevo fatto in tempo. Pensavamo di ricavare due belle stanze. È quello che vorremmo fare anche adesso. Ma bisogna che ci aiutino, perché con i nostri mezzi è impossibile: siamo tutti disoccupati, adesso. Il mio “Fora” al momento non pensa di riaprire, e non lavora neanche mio marito. Stiamo messi così.
— Gli occupanti russi sono entrati a Moščun?
Per un po’ ci si sono stabiliti. Sono andati da uno che era rimasto a casa sua. Credo che si nascondessero nelle cantine delle case distrutte. Da noi, però, non c’è stato nessuno, chissà come mai. Era tutto come lo abbiamo lasciato: patate, conserve, tutto. Forse perché c’erano altre case intorno. Più in là, sullo spiazzo, dove le case sono distrutte, ci hanno fatto vedere che nelle cantine c’erano acqua e scorte di cibo. Si capiva che qualcuno si era nascosto lì e che non erano i nostri.
— Adesso dove abitate?
A casa di mia sorella, che è andata all’estero per guadagnare qualcosa. Io sto a casa sua, non lontano da Moščun. Mia nipote, sua figlia, è andata a Ivano-Frankivs’k ed è rimasta lì per lavorare; sta in affitto. Siamo tre sorelle. Domani arriva la terza, anche la sua casa è andata completamente distrutta. Abiteremo insieme. Qui almeno qualcosa in piedi c’è ancora, mentre da loro non c’è più niente.
— Che progetti avete per il futuro?
Vogliamo ricostruire tutto. Inizieremo dal garage e dalla cucina esterna. E ci sistemeremo lì. Siamo tutti parenti, ora, certo, ma vorremmo comunque poter stare da soli, a casa nostra. Quindi dobbiamo ricostruirla.
— Il suo atteggiamento nei confronti dei russi è cambiato?
Completamente! Prima di tutto, per via della guerra. Poi non riesco a capire se davvero sono completamente istupiditi dalla propaganda, se non capiscano davvero cosa succede qui da noi. Non lo capiscono, non ci danno alcun sostegno. In questo momento il mio rapporto con i russi è pessimo. Non voglio vederli né sentirli, niente!
Questo materiale è stato preparato dal Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv nell’ambito dell’iniziativa globale T4P (Tribunale per Putin).