In arte Joker James. Aleksej Ponomarëv: “Con podcast e hip hop vogliamo aprire qualche spiraglio in Russia”

Raccontare l’attualità (e riflettere sul passato) con il giornalista e rapper. "Forse in molti si aspettano da me dei brani ancora più radicali e univoci, in cui invito a rovesciare il regime di Putin e infiammo gli animi. Ma non ci riesco, perché comunque le mie canzoni non sono propaganda politica: sono solo dei piccoli frammenti di me e della mia coscienza, a cui voglio dare voce".

(di Francesca Lazzarin, assegnista di ricerca in letteratura russa presso l’Università di Udine; nella foto la copertina dell’album “Chorošij”, con modifiche)


18 maggio 2023 
ore 14:29


Aleksej Ponomarëv è un giornalista di Mosca, attualmente residente a Tbilisi e redattore del portale d’informazione indipendente Cholod, oltre che autore, insieme alla sua collega ucraina Anna Filimonova, del podcast Kavačaj, ideato all’indomani del 24 febbraio 2022. Parallelamente al lavoro per numerosi media e siti di divulgazione culturale (da Meduza ad Arzamas), ha intrapreso un’intensa attività musicale, che dal gruppo indie rock Pony lo ha portato, attorno al 2016, al suo attuale progetto Joker James: ai riff di chitarra del precedente collettivo si intrecciano i martellanti beat elettronici e il declamato di quel rap che, ormai da diversi anni, si è innestato saldamente sul suolo russo facendo le veci – a maggior ragione negli ultimi tempi, come abbiamo già scritto in questo sito – ora della poesia civile, ora della canzone autoriale di protesta. In occasione del primo tour europeo di Joker James, che ha toccato e toccherà svariate città (da Vienna a Berlino, dai paesi baltici a Belgrado), si sono svolti due suoi concerti anche in Italia, a Venezia e a Padova. L’organizzatrice di entrambi gli eventi, Francesca Lazzarin, ha conversato con Aleksej Ponomarëv/Joker James di giornalismo e musica impegnata nella Russia degli anni ’10 e nella diaspora di oggi.


La tua esperienza, rispetto a quella di altri rapper o cantautori, è particolarmente interessante perché hai sempre affiancato la musica al lavoro nei media, peraltro sperimentando diversi generi musicali e diversi modi di fare giornalismo. Possiamo dire che queste due professioni sono interconnesse?


Quando ho cominciato a lavorare nel giornalismo suonavo e cantavo con il gruppo indie rock Pony, e all’epoca la musica era una sorta di boccata d’aria fresca: da una parte c’era il lavoro, la stesura di notizie di cronaca e politica. Ed era piuttosto pesante, per quanto rispetto ad adesso fossero tempi relativamente sereni, anche se pure allora succedevano cose strane e inquietanti, ovviamente. E la musica era un mondo a parte dove potevi dimenticare quello che capitava attorno. Poi, quando la situazione in Russia è peggiorata, e i Pony hanno smesso di esistere come gruppo, perché alcuni dei suoi componenti si sono trasferiti altrove (per esempio uno dei suoi fondatori è andato a vivere proprio in Italia), ho realizzato che volevo avviare un mio progetto da solista. Proprio allora stava iniziando il vero boom dell’hiphop in Russia: si è capito, grazie ad Oxxxymiron ed altri ottimi artisti, che era possibile scrivere canzoni rap di spessore, e non soltanto testi su soldi, droghe, belle donne e macchine. Così è nato Joker James [lo pseudonimo è stato scelto in omaggio a un pezzo del gruppo The Who, N.d.R.], e insieme a lui sono cambiate la funzione che attribuivo alla musica e la modalità di interazione tra i miei due mondi. Mi occupavo ancora, essenzialmente, di cronaca e politica, e quando scrivi su questi temi devi sempre cercare di rimanere neutrale, mantenere la giusta distanza, riportare i punti di vista delle diverse parti in causa, mostrare i fatti. Ma siamo comunque persone vive, in carne ed ossa: in tutti noi presto o tardi si accumulano delle emozioni, e a volte ti viene voglia di esprimerle con maggiore forza rispetto a quando tenti di far arrivare una verità obiettiva ai lettori. Dunque, ho iniziato a scrivere canzoni più spiccatamente impegnate. Non posso dire che tutti i miei pezzi siano ispirati a fatti di attualità: parlo anche di alcune mie personali inquietudini, del mio passato e di altro. Ad ogni modo, adesso registro soprattutto podcast, a volte scavo in profondità in svariati temi, e la musica mi è di grande aiuto nella loro rielaborazione. Quindi ora il legame tra i miei due lavori è diventato più esplicito: se prima si trattava effettivamente di due mondi separati, ora una dimensione dà linfa all’altra e viceversa.


Come è cambiato, col tempo, il tuo lavoro di giornalista? Sappiamo bene quanti e quali fatti hanno scosso la Russia nel corso del primo decennio del secolo, per non parlare di adesso…


Fino a un certo momento ho lavorato per media non particolarmente rigorosi: scrivevo di sport, vivevo di quello ed era anche interessante, ma sicuramente molto diverso da ciò di cui mi occupo ora. Ho iniziato a fare giornalismo ‘serio’ verso il 2009, quando sono arrivato al portale Lenta.ru. Allora era il più importante sito d’informazione indipendente in Russia. Erano gli anni, se possiamo chiamarli così, della presidenza Medvedev: anni per cui, ora, proviamo addirittura nostalgia. Medvedev all’epoca usava Twitter, noi pubblicavamo delle notizie, Medvedev le ri-twittava e seguiva persino Naval’nyj… Poi, nel 2014, la redazione di Lenta.ru è stata, di fatto, smembrata: dall’amministrazione presidenziale hanno telefonato al proprietario del portale (va precisato che si trattava a tutti gli effetti di una grossa azienda privata che afferiva al gruppo Rambler, comprensivo di molti altri media e motori di ricerca) dicendogli che bisognava licenziare la caporedattrice, Galina Timčenko, perché non faceva bene il proprio lavoro. Il che, ovviamente, non era vero: all’epoca Lenta.ru aveva un pubblico enorme, ogni giorno raccoglieva svariati milioni di visualizzazioni. La popolarità di cui godeva era paragonabile a quella dei canali televisivi federali. E forse proprio per questo dava fastidio a qualcuno ai piani alti. Inoltre, in quello stesso periodo c’erano state le Olimpiadi invernali a Soči, e noi avevamo avuto un approccio anche critico o satirico in merito, il che era pure un motivo di astio nei nostri confronti. Ovviamente abbiamo scritto in dettaglio del Majdan in Ucraina e dell’annessione illegale della Crimea, facendo spesso delle dirette online. Insomma, Lenta.ru era ormai un fattore di disturbo. Galina ha deciso di licenziarsi e insieme a lei si è licenziata la maggior parte dei collaboratori, perché chiaramente in quelle condizioni non potevamo più lavorare. Quindi sono passato a un altro sito indipendente, che all’epoca si chiamava Slon e ora si chiama Republic. Lì ero il responsabile della sezione notizie e lavoravo davvero 24 ore su 24. È stato un anno interessante e terribile allo stesso tempo, perché poi è iniziata anche la guerra in Ucraina, nel Donbas: c’era un flusso ininterrotto di notizie e di fatti cruciali che era fondamentale seguire. Basti pensare al Boeing malese abbattuto dai separatisti nel luglio 2014 e a tutte le fake news annesse e connesse, che noi abbiamo cercato già allora di smentire, portando avanti un’autentica lotta contro la propaganda del Cremlino. Poi ho lavorato per il progetto di divulgazione culturale Arzamas e per Meduza, il portale che appunto Galina Timčenko ha fondato dopo aver abbandonato forzatamente Lenta.ru. Lì facevo il social media manager, il che non mi dava particolari stimoli, ma proprio per questo sempre a Meduza ho deciso di mettermi alla prova con i podcast: in Russia, all’epoca, avevano appena iniziato a prendere piede, e Meduza è stata tra i primi a dare il la a questo trend. Credo che i podcast di Meduza siano stati in assoluto i più ascoltati dai russofoni, perché allora quasi non c’era concorrenza, differentemente da adesso. In seguito nella redazione di Meduza c’è stato un cambio di rotta, parte dei collaboratori ha lasciato il portale, e in particolare la mia collega Taisia Bekbulatova ha deciso di creare un suo sito, Cholod, incentrato soprattutto sulla Russia e su fatti di forte impatto avvenuti al suo interno. Lì è nato, per esempio, il podcast “Trassa 161” (“Highway 161”), più che altro narrativo, anche con storie di true crime: abbiamo avuto degli ottimi feedback, perché sul mercato russo non c’era niente del genere. Era basato su materiali autentici che registravamo in diverse città. Poi però, come tutti sappiamo, il 24 febbraio 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina e abbiamo capito che dovevamo ripensare radicalmente il nostro lavoro. È chiaro che non avevamo né le forze, né il tempo di continuare a raccontare nei podcast le storie di prima. Per questo ho pensato che sarebbe stato meglio una sorta di digest sulla guerra in corso…


E così è nato il podcast russo-ucraino Kavačaj? Ormai ha superato i cento episodi ed è per molti un punto di riferimento se si vogliono ascoltare riflessioni lucide sulla guerra e sulle sue conseguenze catastrofiche, senza però mai perdere un senso di profonda umanità…


Sì. All’inizio non sapevo bene in che formato impostare il digest, ma ho pensato subito che non potesse certo essere curato solo da parte russa, e che bisognasse assolutamente trovare una persona in Ucraina disponibile a confrontarsi con me quasi ogni giorno su quello che stava succedendo. Quindi ho chiamato la mia collega e amica ucraina Anna Filimonova, di Odesa, ora residente a Kyiv. In quel momento si trovava a Leopoli, e ha subito accettato: mi conosceva, seppur virtualmente, dai tempi di Meduza, e sapeva che ero un cittadino russo con una testa pensante e una posizione diametralmente opposta a quella del regime. Il nome del podcast è estrapolato da una canzone del gruppo ucraino Okean El’zi. È stata una mia idea, un ricordo dei vecchi tempi: all’inizio degli anni Zero gli Okean El’zi erano il collettivo ucraino che anche in Russia amavamo di più. Il podcast, più che configurarsi come una mera discussione delle notizie, ha assunto sin da subito un ruolo per così dire ‘terapeutico’. Certo, alcuni nostri colleghi predispongono quotidianamente dei fantastici e dettagliatissimi digest (per esempio Ruslan Leviev con le sue analisi di vari dati sulla guerra, o gli autori dei podcast della BBC), ma noi siamo solo in due, non abbiamo una squadra alle spalle; quindi, per noi è più che altro un momento di riflessione che condividiamo con molti nostri amici e conoscenti russi e ucraini, invitati come ospiti dei diversi episodi. Si tratta di giornalisti, o di esperti in determinate tematiche. Abbiamo conversato con figure come il critico cinematografico Anton Dolin o la critica letteraria Galina Juzefovič, o reporter ucraini che si sono uniti ai reparti della difesa territoriale. Continuiamo a registrare il podcast anche adesso e ritengo che sia un’iniziativa importante: vogliamo senz’altro portarla avanti fino alla fine della guerra, perché abbiamo capito che significa tanto per molti ascoltatori. E la porterò avanti parallelamente alle mie attività musicali.


A proposito di musica, parliamo di Joker James. Nel 2016 è uscito l’EP “No fun”, a cui sono seguiti gli album “Strana čudes” (“Il paese delle meraviglie”) nel 2017 e “Chorošij” (“Buono”) nel 2022, oltre ad alcuni singoli. Ascoltandoli si percepisce chiaramente come i temi delle canzoni cambino sullo sfondo di determinati eventi, rispecchiandoli e problematizzandoli: il legame con il tuo lavoro di giornalista indipendente si nota subito. Ci sono canzoni esplicitamente di protesta, con un “j’accuse” molto forte. Penso ad esempio al tuo debutto del 2016 “Ničego smešnogo” – “Non c’è nulla di divertente” – in cui ti scagli contro il patriottismo sciovinista e aggressivo del Cremlino (che “mette in prigione e scatena guerre”) affermando provocatoriamente che “Io sono un traditore della patria, sono una quinta colonna, la mia Russia non è la tua e vive una vita a parte”, e facendo seguire a queste righe programmatiche una spietata diagnosi di quei cittadini russi che da un lato si inorgogliscono per inconsistenti chimere nazionaliste, dall’altro credono alla propaganda e danno la colpa agli “americani” di tutti gli effettivi disagi della loro quotidianità. Oppure mi viene in mente un altro tuo pezzo dove, con molta ironia e autoironia, parli del tuo “migliore amico, che è un agente straniero, anche se parla in russo senza accento”.


Effettivamente è iniziato tutto con uno sfogo spontaneo delle mie emozioni, con una mia reazione a quello che stava succedendo. In “Ničego smešnogo”, per esempio, accenno in breve anche alla storia della dissoluzione della vecchia Lenta.ru di cui parlavo prima. Faccio capire che siamo nelle mani di un pugno di sgradevoli funzionari, e per colpa loro ci ritroviamo per strada a fare i freelance. In compenso, è questo che ha dato inizio al mio percorso musicale solistico. Ad ogni modo, non credo che il mio compito come musicista sia ‘istruire’ chi mi ascolta, e nemmeno spiegare pedissequamente cosa sta accadendo.


Ci sono anche dei brani dove rifletti sull’eredità sovietica e su come questa sia rimasta radicata, a livello sia di mentalità che di realia quotidiani, anche nella Russia di oggi e nella sua identità quanto mai ambigua (penso ad esempio alla tua sardonica “Strana, kotoroj net” – “Il paese che non c’è”). A volte racconti i traumi di quello stesso passato (come nel caso del “campo della morte” siberiano di “Memory”, in merito al quale, “sospirando, il paese tace”) per conservarne la memoria, appunto nello spirito di Memorial, per cui tra l’altro hai suonato nel dicembre 2021 a un concerto in supporto dell’associazione nella sua sede di Karetnyj Rjad a Mosca, prima che fosse costretta a chiudere i battenti…


Sì, quando canto “Memory” ai concerti la dedico spesso ai miei amici del Memorial moscovita. È solo grazie a loro se sono venuto a conoscenza della storia, scioccante, del “campo della morte” di Serpantinka, su cui praticamente non sono rimaste testimonianze, visto che appunto era un luogo sostanzialmente deputato alla fucilazione dei condannati alla pena capitale. Solo pochi, per miracolo, sono sopravvissuti e hanno raccontato di dove si trovava e di come i corpi dei fucilati venissero gettati in un torrente chiamato proprio “Snajper”. Ovviamente nella canzone tutto ciò è descritto tramite cenni e immagini sparse, forse non tutti gli ascoltatori sono in grado di capire di che si tratti: d’altronde, va da sé, non voglio certo fare la pagina Wikipedia di turno. Però ci sono le mie emozioni, le mie inquietudini: è chiaro che il processo creativo non è lineare, a volte comporta delle associazioni mentali inattese, delle libere rielaborazioni del soggetto iniziale. In “Strana, kotoroj net” racconto un episodio della storia della mia famiglia, di quando mio nonno da bambino è andato a piedi ai funerali di Stalin: un’altra storia che mi ha molto impressionato, perché lui voleva davvero andarci, ai funerali di Stalin. Peccato che non sapesse che suo padre, già più di dieci anni prima, era stato arrestato e quasi subito giustiziato al poligono di Butovo (alla famiglia, però, avevano detto che si trovava in prigione “senza diritto di corrispondenza”, e poi che era morto in cella per cause naturali). Comunque, fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica mio nonno è rimasto un idealista: credeva nel socialismo e in obiettivi da raggiungere. Quando tutto ciò è crollato, e molti fatti terribili sono venuti alla luce, ovviamente era sotto shock, aveva la sensazione che lo avessero ingannato per tutta la vita. E va da sé che questo background ha avuto un forte influsso anche su di me, tanto più che adesso, purtroppo, in Russia si stanno ripetendo molte pagine nere del Novecento. Per esempio, il mio patrigno, all’inizio degli anni ’80, non mi ricordo se sotto Andropov o Černenko, è stato sottoposto a interrogatorio dal KGB perché aveva pubblicato dei testi ‘antisovietici’, e adesso vede le stesse dinamiche di quando era giovane. Sembra uno strano e brutto gioco di ruolo che va avanti a oltranza. Forse in molti si aspettano da me dei brani ancora più radicali e univoci, in cui invito a rovesciare il regime di Putin e infiammo gli animi. Ma non ci riesco, perché comunque le mie canzoni non sono propaganda politica: sono solo dei piccoli frammenti di me e della mia coscienza, a cui voglio dare voce.


E gli hai dato senz’altro voce nel tuo ultimo album, “Chorošij”, che a suo modo è catartico e cattura perfettamente non solo le tue sensazioni, ma le sensazioni di molti all’altezza del 24 febbraio 2022: ben pochi pezzi rendono la paralisi psicologica agghiacciante di quella mattina come “Reality”, con il suo ritmo simile a un battito cardiaco smorzato, ma sempre sul punto di esplodere (“Reality check. Mosca, XXI secolo. Me ne sto alla finestra in un fottuto stato di shock. Guardo cadere la neve. Guardo gli uccelli volare tranquilli. Un treno, senza apparente fretta, accelera piano in direzione Kyiv…”), o le incertezze delle prime settimane di emigrazione come “Goroda” (“Città”).


Quando è iniziata l’invasione, ovviamente, non avevo né le forze né la voglia di pensare a scrivere canzoni, perché il mio unico desiderio era che tutto quell’orrore finisse al più presto. Purtroppo, però, non è finito. Sono passati alcuni mesi, e in un modo o nell’altro ho iniziato a rifletterci su e a dare forma a nuovi testi, a nuove musiche. Se non sbaglio, il primo brano che ho scritto dopo l’inizio della guerra è, a proposito di eredità sovietica, “Chrustalëv, mašinu!” (“Chrustalëv, la macchina!”), sulla morte di un dittatore. Il film “Chrustalëv, mašinu” (1998) di Aleksej German è sulla morte di Stalin, nella mia canzone ci sono dei riferimenti all’eventuale morte di un certo altro dittatore a cui molti di noi, ora, non riescono a smettere di pensare.


Allo stesso tempo, l’album si chiude, se non con una nota ottimistica, almeno con un tocco di calore umano in un pezzo come “A.S.M.R.”, una specie di ninnananna per gli amici ucraini sotto le bombe e gli amici russi in un contesto di emigrazione in cui spesso si sentono inutili ed estranei, senza contare il senso di colpa e di impotenza, e il fatto che in patria sono stati ormai stigmatizzati come traditori di cui nessuno ha bisogno (il bel videoclip che hai girato parla proprio di emigrazione coatta). La frase reiterata a mo’ di mantra propiziatorio nel ritornello è “Eto vremenno”, cioè: tutto questo è temporaneo, non durerà per sempre. E il testo si chiude con la constatazione che “a prescindere da quello che dicono, noi ci siamo”, cioè una Russia alternativa c’è, nonostante tutto. Personalmente non mi piace parlare dei famigerati “chorošie russkie”, i “russi buoni”: è un’espressione che vuol dire tutto e niente, e non a caso è più l’oggetto di ogni sorta di meme che un concetto serio con cui identificarsi. D’altronde, il brano che dà il titolo all’album, “Chorošij”, si apre con una frase in ucraino, continua con il ben noto imperativo “Chuj vojne!” (“Fanculo la guerra!”), ma termina con un lapidario: “Come canta il mio gruppo preferito di Dnipro, sei una brava persona, ma potresti essere molto meglio di così”. Senz’altro si può sempre fare di più, però mi pare comunque importante sottolineare che c’è una Russia che continua a resistere (nel sito di Memorial Italia esce un bollettino specifico in merito), oltre a una diaspora russa molto attiva che è contro la guerra, è contro il regime, si impegna, che si tratti di fare informazione rigorosa o di raccogliere fondi per gli ucraini in difficoltà. E il tuo attuale tour europeo è strettamente collegato alla presenza di queste nuove comunità russe sparse in tutta Europa.


In generale la situazione è terrificante: fa male anche solo immaginare quante persone hanno perso la loro casa, sono morte. Allo stesso tempo stiamo cercando, nei limiti del possibile, di aprire qualche spiraglio. Il mio pubblico, non molto ampio – non sono certo una star –, all’interno dell’abnorme società russa era per così dire diluito in dosi omeopatiche, ma la guerra ha permesso di vedere chi sono davvero le persone sensibili e non indifferenti a quanto sta accadendo. Molti di loro hanno lasciato la Russia e si sono stabiliti in diverse città. Ovviamente io non riempio gli stadi come Noize MC, Monetočka o Oxxxymiron [famosissimi cantanti russi considerati “agenti stranieri” in patria e ora impegnati unicamente all’estero in una lunga serie di concerti, spesso di beneficenza, N.d.R.], ma posso comunque organizzare dei bei concerti, e in ogni città c’è una comunità di persone che sono felici di vedermi e sentirmi: è una piacevole sorpresa che dà un po’ di coraggio a me e a loro.


La sensazione è quella di essere un po’ meno soli e isolati…


Sì. Una sensazione inaspettata e davvero bella.

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