Voci dalla guerra: Nadija Brataševs’ka, abitante di Charkiv: “I miei nipoti piangevano e dicevano di non voler morire”.
Nadija Brataševs’ka ricorda i due mesi trascorsi in cantina con il marito: “Esci a prendere gli aiuti umanitari e ogni mezzo metro che fai preghi Dio. Senti un boato, ti schiacci contro una parete e aspetti che il missile passi oltre o che esploda”. Per il progetto “Voci dalla guerra” Taras Vijčuk l’ha intervistata, ottenendo così una sorta di cronaca della vita nella città assediata, con le infrastrutture distrutte dai bombardamenti russi, senza acqua ed elettricità, col difficile compito di tranquillizzare i bambini terrorizzati. Il video dell’intervista coi sottotitoli italiani è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.
Il progetto di traduzione in più lingue delle interviste alle vittime dell’invasione russa è portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
Taras Vijčuk
09.11.2022
“I miei nipoti piangevano e dicevano di non voler morire”. Cronache dei primi giorni di guerra a Charkiv
Il 24 febbraio, alle 4:30, siamo stati risvegliati da fortissime esplosioni. La nostra casa tremava tutta. Siamo corsi dai nostri figli, eravamo tutti spaventatissimi, ma ancora non capivamo che cosa stesse succedendo. Fuori dalla finestra vedevamo fuoco e fumo. Poi un po’ di silenzio, ma era ormai chiaro che la guerra era iniziata. Avevamo previsto che stava per iniziare, e quindi tempo prima avevamo radunato la famiglia e mandato via figli e nipoti. Io e mio marito eravamo rimasti lì, non volevamo lasciare la casa.
Dove vi nascondevate durante i bombardamenti della città?
Dal primo giorno è stato terrificagnte. Ci siamo trasferiti in cantina perché le bombe potevano cadere in ogni momento, senza preavviso. I nostri figli erano partiti, mentre noi siamo rimasti lì, in cantina, per due mesi. Avevamo infatti paura di salire a casa: già dai primi piani la casa tremava dai bombardamenti, ti fermavi davanti all’ascensore e aspettavi che passasse il missile, e poi scendevi al piano di sotto. Per arrivare in cantina dal sesto piano ci voleva una vita. Lì era un po’ più tranquillo, anche se faceva comunque paura. C’erano sempre più esplosioni. Ci spaventava anche stare in cantina, perché temevamo che il palazzo crollasse e che saremmo rimasti bloccati.
Avete avuto difficoltà nel reperire cibo e medicinali?
Certo, bisognava procurarsi il cibo in qualche modo. Portavano gli aiuti umanitari, ma che paura uscire per andarli a prendere. Ogni mezzo metro che fai preghi Dio. Senti un boato, ti schiacci contro una parete e aspetti che il missile passi o esploda, e poi aspetti ancora. Ci davano gli aiuti e scappavamo subito a casa, correndo sulla neve e sul ghiaccio. Corri, preghi Dio di arrivare in un seminterrato qualunque. Il negozio inizialmente era rimasto aperto, c’erano delle lunghe file di una-due ore.
Poi hanno bombardato proprio quel negozio. Un missile l’ha centrato e sembra che ci siano state due vittime, un uomo e una donna, e molte persone ferite.
Certo, il negozio lo hanno chiuso, per evitare che si formassero assembramenti. Anche andare in farmacia faceva paura. Arrivi e iniziano a bombardare. Non sai dove stenderti, correre, cosa fare. Magari ti cascano addosso pezzi di vetro o tutta la casa.
Avete assistito alla distruzione di edifici della vostra città?
Certo. Hanno distrutto molte case, negozi, chioschi. Tutto è in macerie, ci sono vetri rotti ovunque. Avevamo paura di salire a casa anche solo per cinque minuti, per cambiarci o farci un tè.
Come siete riusciti a lasciare la città?
All’inizio ci avevano detto che potevamo partire in autobus dalla stazione, ma noi speravamo ancora che non ci sarebbe servito. Poi ci hanno staccato l’acqua e la luce. Cercavano di ripristinare la rete idrica ed elettrica, ma dopo qualche tempo i russi ci hanno ancora bombardato le infrastrutture energetiche, distruggendo tutto. Ci siamo decisi a partire quando ormai non c’erano più acqua, luce e gas. Si cercava di sfollare le persone sui treni, perché sembrava pericoloso far viaggiare tanta gente in autobus. Tassisti volontari cercavano di assicurare un collegamento con la stazione dalle 6 alle 7 di mattina.
Vi eravate preparati all’eventualità che scoppiasse la guerra?
Leggevamo le notizie, avevamo sentito che al confine c’erano le truppe russe, ma non ci credevamo fino all’ultimo. Pensavamo che si sarebbe combattuto nel Donbas, ma che avrebbero bombardato tutta l’Ucraina, questo no. Io ho parenti a Belgorod [città russa al confine con l’Ucraina, N.d.T.], e anche persone che conosco. Non volevamo crederci, e invece…
E così, alle 4.30 di mattina del 24 febbraio è iniziata la guerra. Mi ricordo i bambini spaventati che piangevano.
Mio genero si è chinato sui figli per fare scudo con il suo corpo, temendo il peggio. Mia nipote gli ha detto: “Papà, non vogliamo morire!”
Non ce la faccio a ripensarci. Quasi tutte le famiglie hanno vissuto questa situazione. Non ero più preoccupata per me, solo per i miei figli e nipoti. Quando senti parlare di guerra in TV è una cosa, ma quando la vivi, quando tutto trema e ti cadono in testa i calcinacci, è davvero terrificante.