Voci dalla guerra: Iryna Olijnyk, abitante di Borodjanka: “Mio marito e mio figlio sono stati feriti durante un bombardamento aereo”.
Nell’ambito del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”) pubblichiamo la trascrizione della traduzione italiana dell’intervista a Iryna Olijnyk realizzata da Oleksandr Vasyl’jev. La donna, che abita a Borodjanka, racconta del panico all’arrivo degli invasori russi e dell’angoscia per il ferimento del marito e del figlio. Il video dell’intervista, in lingua originale sottotitolato in italiano, si può guardare nel canale YouTube di Memorial Italia.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
27.12.2022
Oleksandr Vasyl’jev
— Mi chiamo Iryna Petrivna Olijnyk, ho 49 anni. Vivo nel piccolo centro di Borodjanka, nella regione di Kyiv. Prima della guerra ero in congedo di maternità, mio figlio ha due anni e mezzo.
— Com’è stato il “giorno uno” dell’arrivo dei russi?
— Non ho capito subito che cosa stava succedendo. Niente tv, niente notiziari: avevo mio figlio a cui badare. Poi mia madre mi ha detto che era scoppiata la guerra. Non credevo comunque che sarebbe stata una cosa su vasta scala. Per qualche motivo non ho avuto paura. Non mi sono spaventata neppure il terzo giorno di guerra, quando a Borodjanka sono arrivati i carri armati russi e li vedevo anche dal balcone. Non sapevo ancora cosa fosse la paura vera, la paura per un figlio. L’orrore è cominciato il primo marzo.
— Cos’è successo il primo marzo?
— La notte prima i carri armati passavano di continuo. Ma noi non avevamo un posto dove poterci rifugiare. Quelli passavano e sparavano: prendevano di mira le case, puntavano alle finestre, lo facevano apposta. Un’amica che abita all’altro capo di Borodjanka aveva accettato di ospitarci. Ma non abbiamo avuto il coraggio di uscire sotto le pallottole. Eravamo spaventati. Ho pensato che magari la mattina dopo si sarebbero calmati e ci saremmo potuti muovere. Ma non è andata così. Ci hanno bombardati. Il primo marzo, mentre portavo il bambino a prendere un po’ d’aria, il passaggio di aerei ed elicotteri era continuo. Molte case vicino a noi erano già state distrutte dai bombardamenti. Uno che conosco ci ha offerto di stare da lui, ma abbiamo rifiutato.
Nel pomeriggio siamo saliti a casa [abitiamo al quarto piano], abbiamo mangiato e abbiamo messo Jehor a letto. Alle 18 siamo scesi in cantina. Abbiamo aspettato lì che i carri armati se ne andassero; a un certo punto abbiamo teso l’orecchio e ci sembrava di non sentirli più. Né aerei né carri armati, niente. Mia mamma è andata a preparare la cena. Dopo venti-trenta minuti c’è stata un’esplosione fortissima, poi un’altra e un’altra ancora. Mio figlio e mio marito sono stati feriti gravemente. Poi è arrivato un uomo della Difesa territoriale e ci ha portati all’ospedale. Ricordo che il medico ci ha visitato alle 22.
— Che ferite hanno riportato suo marito e suo figlio?
— Mio figlio, una lesione cerebrale traumatica. È svenuto, e anche mentre andavamo all’ospedale era un continuo svenire e rinvenire… I tre mesi seguenti, quando già eravamo sfollati, aveva sempre la nausea. Alcuni cibi gli davano il voltastomaco: gli bastava vederli. Ma quando siamo tornati a Borodjanka l’appetito è ricomparso subito. Mio marito ha avuto quattro costole rotte e i polmoni perforati.
— Come sono stati feriti suo marito e suo figlio?
— Eravamo appena saliti su dalla cantina, eravamo nell’androne, quando c’è stato il boato. Chi era rimasto in cantina non si è fatto niente. Noi eravamo tornati su perché io pensavo che non sarebbero cadute altre bombe. Se avessimo fatto in tempo a uscire in cortile, a quest’ora non ci saremmo più. Sarebbero bastati altri due o tre passi… Dicono che nel palazzo accanto siano morte dieci persone. Quando sono uscita ho visto che era distrutto per metà. Ho saputo dopo che c’erano state diverse vittime.
— Come siete riusciti a raggiungere l’ospedale, dopo che suo marito e suo figlio sono stati feriti?
— Siamo andati a piedi, evitando le vie principali. All’ospedale ci hanno visitato e abbiamo trascorso la notte lì, nel seminterrato. Il due marzo è iniziato lo sfollamento, siamo stati portati via tra gli ultimi.
— Come siete stati sfollati esattamente?
— Di mattina siamo usciti dal seminterrato dell’ospedale; fuori aspettavano alcuni pulmini. Non avevamo preso niente con noi: solo i vestiti che avevamo addosso in quel momento. Un autista ci ha detto di sbrigarci a salire, perché col buio non sarebbero stati organizzati altri trasferimenti. Per prima cosa ci hanno portato a Zahal’ci, un paesino nel distretto di Borodjanka. Là ci hanno dato da mangiare e dei vestiti per mio figlio, che li aveva a brandelli. Poi ci hanno portato a Piskivka, nel distretto di Buča. Ci siamo rimasti due giorni; dormivamo in una scuola. Dopodiché siamo andati a Horodnycja, nella regione di Žytomyr.
— Adesso come stanno suo marito e suo figlio?
— Mio marito ha dolori alla cassa toracica, se fa respiri profondi. Quanto al bambino, l’ho portato dal neurologo perché lo visitasse uno specialista. Hanno detto che bisogna tenerlo sotto osservazione e che se ha la nausea bisogna sentire un medico.
— Prima del 24 febbraio 2022 credeva che potesse scoppiare una guerra?
— Sicuramente no! Se l’avessi immaginato, me ne sarei andata subito il 24. Alcuni l’hanno capito, che sarebbe successo, e se ne sono andati il primo giorno. A me, purtroppo, ha fatto difetto l’intuito.
— Perché non siete andati via neanche all’arrivo dei russi?
— Avevamo paura. Avevo letto su internet che i russi sparavano alle auto. Non sapevamo dove andare, né sapevamo dove stavano loro… gli aerei ci giravano sopra. Eravamo terrorizzati. Io neanche mettevo piede fuori di casa, avevo paura anche ad avvicinarmi al centro di Borodjanka.
— È a conoscenza di crimini perpetrati dai soldati russi ai danni dei civili?
— Quando stavamo a Horodnycja ho sentito dire che a Borodjanka i russi avevano fatto cose tremende… Hanno violentato ragazze e bambine, le hanno impiccate e fucilate. Quando sono tornata qui, però, su queste cose era già sceso il silenzio.
— E le vostre proprietà?
— Non è rimasto un mobile sano. Si è salvata solo la lavatrice in bagno, ma non sappiamo se funziona. Dobbiamo ricomprare tutto da zero. Con mio marito eravamo andati a lavorare in Polonia per mettere qualche soldo da parte, e abbiamo speso tanto per l’appartamento: è stato tutto inutile…
— Adesso dove abitate?
— Stiamo in un container a Borodjanka. C’è l’acqua calda e una cucina più o meno attrezzata, 8 fornelli per 22 camere. La camera è stretta e lunga, sono sei metri, con i letti a castello. Non va bene per un bambino piccolo. È scomodissima, non ti senti a casa. Quando passo vicino a casa nostra mi viene da piangere. Voglio tornarci!
— Lo stato vi aiuta?
— Ci hanno detto di metterci in lista d’attesa per un appartamento. Forse ci daranno qualcosa nelle nuove palazzine della regione di Kyiv. Ma io voglio restare qui, a Borodjanka. Oppure, se dev’essere altrove, che non sia lontano da Kyiv. Quando la guerra finisce voglio andare all’estero. Almeno per un po’, per mettere da parte soldi per comprare un appartamento. Voglio che mio figlio ce l’abbia, una casa. L’abbiamo avuto tardi, e doveva capitare una roba così…
— Il suo atteggiamento nei confronti dei russi è cambiato?
— Certo! Ne ho un’opinione molto peggiore. Ho parenti in Russia, ma non ci parliamo più. Neanche ci chiedono come stiamo, noi quaggiù. Sono parenti stretti, mica lontani… Non guardo più neanche i film russi. Né faccio più vedere i loro cartoni animati a mio figlio: basta.
— Adesso che progetti ha?
— Non lo so. Prima vinciamo, poi si vedrà.