Voci dalla guerra: Hanna Janko, abitante di Černihiv: “Ci hanno permesso di fare un salto a casa per l’8 marzo”.
Andrij Didenko ha raccolto la testimonianza di Hanna Janko, che è stata detenuta coi genitori e la nonna in un seminterrato per un mese intero in condizioni disumane. I soldati della Federazione Russa hanno violentato sua madre. L’intervista coi sottotitoli in italiano si può vedere italiano nel canale YouTube di Memorial Italia. Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti, e sono realizzate nell’ambito del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).
“Ci hanno permesso di fare un salto a casa per l’8 marzo”. Nella regione di Černihiv, i russi hanno tenuto alcuni abitanti rinchiusi in un seminterrato per un mese
Andrij Didenko
26.01.2023
Hanna Janko è tra le persone che i russi hanno rinchiuso per un mese nel seminterrato della scuola di Jahidne, un paesino della regione di Černihiv. Il Gruppo per i diritti umani di Charkiv (Memorial Ucraina) ha fornito assistenza giuridica e umanitaria a lei e ad altre vittime.
Il 24 febbraio siamo partiti da Černihiv per raggiungere mia nonna a Jahidne. Il 3 marzo sono arrivati i soldati russi. I telefoni hanno smesso di funzionare subito. E sull’autostrada tra Černihiv e Kyiv è arrivata una colonna di blindati. Poi sono iniziati gli scontri e gli spari per strada. I soldati russi volevano che scendessimo nel seminterrato della scuola, ma noi abbiamo deciso di rimanere in casa. Il giorno dopo ne sono arrivati alcuni che sembravano kazachi. Di nuovo ci hanno permesso di rimanere in casa nostra: “In cantina, però” hanno detto.
Poi sono venuti dei buriati ubriachi. Sono scesi nella nostra cantina e hanno cominciato a ricaricare i mitra. Gli abbiamo chiesto di smetterla. Ci hanno dato cinque minuti per raccogliere le nostre cose e spostarci nella scuola.
Ho chiesto di passare a casa per prendere alcune cose e del cibo. Me l’hanno impedito: bisognava prepararsi in fretta e andar via. E così abbiamo fatto. All’inizio non volevano accompagnarci. Gliel’avevamo chiesto perché non sapevamo se fosse sicuro andare in giro da soli. Alla fine hanno acconsentito. Ci spintonavano per farci sbrigare, ci puntavano addosso i mitra. Una volta arrivati al seminterrato della scuola ci hanno preso i telefoni e li hanno spaccati. Siamo entrati, ma non si riusciva a passare, c’erano già diverse persone che dormivano per terra.
Mia nonna era già lì, così siamo andati nella minuscola stanzetta dove stava lei, e dove c’erano già diciotto persone. La mattina dopo ci hanno permesso di uscire e le donne hanno potuto fare un salto a casa. Siccome era l’8 marzo, ci hanno dato il permesso di prendere alcune cose e del cibo. Ma cosa vuole che trovassimo, dopo che c’erano passati loro! Non era rimasto quasi nulla. Ci siamo rimasti un mese, nel seminterrato della scuola. A volte ci facevano uscire all’aperto, altre rimanevamo chiusi sottoterra. Se volevamo andare in bagno, bussavamo perché ci aprissero la porta. Quando ci aprivano, spesso gli scappavano un bel po’ di parolacce.
— In pratica siete stati prigionieri per un mese. Ci dica, ha subito maltrattamenti o torture? O forse ha assistito a simili violenze ai danni di altre persone?
— A me non hanno fatto nulla. I miei genitori, invece… Avevano chiesto di tornare a casa perché mia nonna non può stare seduta, ha problemi alle articolazioni, e nel seminterrato si dormiva seduti. Li hanno lasciati andare. Poi però sono andati dai miei, hanno preso mia madre per i capelli, l’hanno trascinata nella casa accanto e l’hanno violentata. Quanto a mio padre, lo picchiavano di continuo con il calcio dei fucili. E quindi sì, i miei hanno subito violenze. Nella scuola cose del genere succedevano spesso. Prendevano qualcuno e lo portavano via.
— Come facevate per il cibo e l’acqua?
— Gli uomini uscivano dal seminterrato e andavano a cercare l’acqua in giro per il paese. All’inizio non c’erano problemi, ma la cosa non stava bene ai buriati che avevano occupato le case. Non volevano. Persino i soldati di etnia russa avevano paura dei buriati, che si ubriacavano e si sparavano a vicenda. Poi qualcuno ha trovato un pozzo, e prendevamo l’acqua da lì. A volte, quando ricevevano il cibo, i soldati russi ne davano un po’ anche noi.
La gente del paese aveva messo su una cucina da campo e la utilizzava sotto il fuoco dell’artiglieria, se trovava qualcosa da cucinare. Preparava il semolino per i bambini. Finché c’erano le mucche, qualcuno andava a mungerle e portava il latte. Poi le hanno ammazzate, oppure alcune sono saltate sulle mine. A quel punto per il semolino dei bambini chiedevamo il latte condensato ai russi.
Una volta ci hanno dato della pasta, ma era sporca di gasolio, immangiabile. O dei fiocchi d’avena talmente cattivi che è venuta la diarrea a tutti.
Comunque, non volevano mai farci uscire. Noi attaccavamo a bussare dalle sei di mattina, perché ci aprissero. Per i bisogni usavamo un secchio, ne avevamo tre per trecentosessanta persone. Bussavamo talmente tanto che alla fine ci aprivano.
— Durante quel mese di prigionia, è successo che qualcuno venisse ucciso o picchiato?
— Sì, è successo. Una volta hanno portato un uomo che se non sbaglio veniva da Zolotynka. Era pieno di lividi. All’inizio sparavano. Hanno ucciso un uomo che conosco perché quando sono arrivati era uscito di casa gridando: “Che siete venuti a fare? Gloria all’Ucraina!”. Gli hanno sparato su due piedi. Nel seminterrato, invece, morivano gli anziani.
— Ricorda il nome delle vittime e il luogo dove sono successe tutte queste cose?
— È successo sempre nel seminterrato. Non si respirava. Di notte i cadaveri restavano dov’erano, accanto a noi, poi li portavamo nel locale della caldaia. Li ammassavamo lì, e chiedevamo ai soldati russi di poterli seppellirli nel cimitero. All’inizio ci hanno autorizzato, ma poi hanno bombardato il cimitero. Proprio mentre qualcuno dei nostri ci portava i morti.
—Ricorda quand’è successo?
— Purtroppo no. Sarà stato verso metà marzo.
— Qualcuno dei suoi parenti e amici è rimasto ferito – o peggio – durante l’occupazione?
— Hanno ucciso Tolik, un mio amico. E hanno ferito un ragazzo, Serhij Sorokopud. L’hanno portato in Belarus’ per farlo operare, perché la ferita era grave e gli usciva sangue dalla bocca. La scapola era distrutta. Questo è un esempio. Di solito la gente moriva per le ferite o per le malattie. A quelli che volevano uccidere, i russi hanno sparato subito, appena arrivati in paese. Hanno portato nel seminterrato varie persone, che poi sparivano. Non lo sappiamo, però, se sono state uccise o gli è successo qualcos’altro.