La guerra di Putin è iniziata molto prima dell’invasione dell’Ucraina

Se in primavera molti pensavano che l’Ucraina avesse i giorni contati, ora quasi tutti concordano che vincerà. A prescindere da che aspetto avrà questa vittoria, ancora molta gente dovrà morire: non è fatalismo, è teoria della probabilità. Per quanto la realtà sia difficile, occorre capirla e accettarla. Parafrasando Churchill, "we shall defend our land whatever the cost may be".

(di Denys Volocha, membro del Gruppo di Charkiv per la Difesa dei Diritti Umani; traduzione di Elena Cantabella; foto: Mvs.gov.ua, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons, con modifiche)


24 febbraio 2023 
Aggiornato alle 14:18


In occasione della ferale ricorrenza del 24 febbraio Memorial Italia ha chiesto a Denys Volocha, membro del Gruppo di Charkiv per la Difesa dei Diritti Umani (KhPG o “Memorial Ucraina”), di raccontare come è cambiato il suo lavoro nel corso di quest’anno. Ne è risultato un testo che, pur essendo molto personale, costituisce una rappresentazione emblematica dell’impatto della guerra su chi già era attivo nella protezione dei diritti umani in Ucraina. Lo scoppio della guerra ha costretto molti attivisti a imbracciare le armi per difendere il Paese, altri ad aiutare chi è al fronte o la popolazione civile, e ha, di conseguenza, determinato uno sforzo senza precedenti per la raccolta di documentazioni sui crimini di guerra, senza però far mai dimenticare ai difensori dei diritti umani le violazioni e i problemi che molte persone incontrano nella loro quotidianità. Per Denys Volocha la guerra ha segnato anche l’inizio della collaborazione a un nuovo progetto, Voices of War, che lo vede impegnato a realizzare interviste alle vittime delle atrocità commesse dall’esercito russo. Proprio lui ha raccolto alcune delle videotestimonianze che, grazie a un progetto del network internazionale di Memorial, vengono sottotitolate in nove lingue (la versione coi sottotitoli in italiano è pubblicata nel canale YouTube di Memorial Italia e la trascrizione appare nel sito di Memorial Italia). La traduzione del testo è di Elena Cantabella.


Gennaio 2023. Quasi un anno dall’inizio della guerra. Il discorso di Dunkerque di Churchill descrive alla perfezione il mio stato d’animo. L’ho riletto così tante volte che lo conosco a memoria nei minimi dettagli. Ogni volta mi tocca nel profondo, e io sono una persona assai poco emotiva. L’Ucraina odierna e l’Inghilterra di allora hanno davvero parecchio in comune. Pochi, probabilmente, nel 1940 avrebbero definito la situazione incoraggiante: quasi tutta l’Europa continentale era in caduta libera, i sommergibili nazisti continuavano ad affondare le navi cariche di approvvigionamenti provenienti dai domini imperiali d’oltremare, gli USA neppure pensavano di entrare in guerra, e Stalin aveva ancora un patto di non aggressione con Hitler. “We shall prove ourselves once again able to defend our Island home”, disse allora Churchill. Queste stesse parole vorrei pronunciarle anch’io ora. Tuttavia, i ragazzi della mia età non declamano discorsi di fronte al parlamento, piuttosto stanno in trincea con i piedi bagnati, imbracciando un fucile sporco di terra. Del resto, a 23 anni Churchill faceva proprio questo e per di più, dicono, con un coraggio da leone. Io non riesco a smettere di pensare alla guerra, ma di questo parlerò meglio alla fine.


Le prime settimane dell’invasione sembravano un tempo assurdo. Da bambino avevo visto i miei concittadini far fronte unico contro il nemico comune durante la rivoluzione arancione e l’Euromajdan. Ma questa volta stava succedendo qualcosa di diverso: se nei primi due casi la popolazione e la società civile si erano opposte al governo, ora si erano unite nella lotta contro un nemico di gran lunga più crudele e titanico. Pareva l’incarnazione ideale della teoria del contratto sociale: “Se Kant e John Locke fossero vissuti nel nostro secolo, senza dubbio ne avrebbero parlato nei loro importantissimi studi”, ho pensato allora. Avevo sempre associato lo stato di guerra alla più rigida censura e alla limitazione dei diritti civili. Ma qui non c’è stato alcun tipo di censura: il governo non aveva interesse a introdurla, i cittadini non avevano voglia di criticare il governo.


Gli ucraini si sono uniti come mai prima.

Denys Volocha


Persino le irritanti istituzioni burocratiche, che ai vecchi tempi erano messe alla gogna durante le proteste come incarnazione della corruzione e della cupa eredità del passato, per molti sono diventate qualcosa di vicino, familiare, se confrontate a ciò che avanzava assieme ai carri armati russi, fino a sembrare persino un importante baluardo della democrazia.


La popolazione dell’Ucraina si è divisa in due categorie prevalenti: la prima combatte direttamente contro la Russia, la seconda aiuta la prima. Gli attivisti per i diritti umani ucraini hanno dovuto perlopiù unirsi agli uni o agli altri: qualcuno è andato a combattere, qualcuno a espatriare i civili, ad acquistare l’equipaggiamento e così via. Ma le fondamenta della difesa dei diritti umani di oggi le hanno poste i dissidenti sovietici, che sapevano quanto criminale e disumano fosse stato il regime sovietico e prima di tutti avevano iniziato a notare che nel volto della Russia contemporanea stava prendendo forma la sua reincarnazione. Nella fase più attiva della follia comunista, gli attivisti ucraini hanno avuto la possibilità di fare ciò che non era riuscito ai dissidenti dell’epoca: raccogliere prove e incriminare questo impero sanguinario. Imprimervi il marchio di “criminale”, che nemmeno la più copiosa pioggia di bugie e propaganda può lavar via. Mi si corregga se dirò qualcosa di sbagliato ora: i dissidenti sono veramente riusciti nella prima parte, la raccolta delle prove. Tuttavia, nella storia non ha avuto luogo il grande processo che per anni e decenni avrebbe meritato la lunga lista di crimini di Stalin, Lenin, Ežov, Blochin e gli altri.


Il Gruppo per la difesa dei diritti umani di Charkiv, in cui all’inizio dell’invasione lavoravo da quattro anni, aveva già esperienza nella documentazione di crimini di guerra. Avevamo già un database dedicato alla guerra nell’est dell’Ucraina e avevamo già inviato alcuni appelli alla Corte penale internazionale. Presumibilmente, in Ucraina avevamo più esperienza di chiunque altro, benché in precedenza la guerra non fosse stata la nostra priorità. Abbiamo rapidamente perfezionato il database e la metodologia, e da quel momento la raccolta di dati sui crimini di guerra è la nostra missione principale.


Non meno importante è l’aiuto alle categorie più deboli. Nei nostri incontri online passiamo ore a discutere su chi si debba aiutare per primo. Dopo un mese di occupazione russa anche in un paesino possono esserci già centinaia di famiglie sfollate. Fornire aiuto, anche solo a tutti i casi più gravi, è impossibile. Al momento abbiamo elaborato un meccanismo di sostegno integrato: riteniamo che registrare i crimini di per sé non abbia molto senso senza un’azione legale e un aiuto psicologico e materiale alle vittime.


Condurre a giudizio i crimini e lenire le sofferenze della gente: forse possiamo descrivere proprio così le nostre principali missioni attuali.


Molti potrebbero non sopravvivere nemmeno fino al processo contro i loro carnefici, e il pensiero di un risarcimento futuro offre loro scarso conforto. Come ci ha detto un medico di Mariupol’, andatosene dal teatro cittadino un giorno prima che fosse bombardato: “Non voglio vederli a processo. Voglio vederli morti”.


***


Sempre più spesso io e i miei colleghi riceviamo domande sui problemi interni dell’Ucraina. Riteniamo nostro dovere aiutare il governo in questo momento difficile e abbiamo avviato collaborazioni con le istituzioni a cui ci eravamo sempre opposti. Ma questo non significa che abbiamo smesso di opporci al male. Il male può essere o non essere intenzionale, ma sempre male resta. Qual è, però, il modo corretto di parlarne? Molte note organizzazioni per la difesa dei diritti umani ritengono che le violazioni delle convenzioni di Ginevra si possano comunicare come fa l’arbitro che annuncia il punteggio durante una partita di pallavolo. Alcuni ritengono persino proprio dovere denunciare i crimini dell’“altra parte”, sottolineando in questo modo la propria imparzialità. Io sono in totale disaccordo con questo approccio. Putin e il suo seguito sono criminali: pensano da criminali, gravitano attorno ad altri criminali. Nell’agosto 2021 il ministro della difesa russo Sergej Šojgu ha persino affermato di aver avuto “la fortuna” di lavorare con Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Ratko Mladić. Tutti e tre sono noti criminali di guerra, la cui responsabilità per i massacri compiuti è stata dimostrata.


Ma la guerra di Putin è iniziata molto prima dell’invasione dell’Ucraina: alcuni lo chiamano “hybrid warfare”. Questo dittatore russo possiede qualcosa che farebbe invidia a Stalin, Goebbels e Félicien Kabuga. E non si tratta dei missili nucleari, ma di una sofisticata macchina della menzogna.


Benché io sia convinto che la verità è più forte della menzogna, sono altrettanto certo che qualunque organo di stampa occidentale è più debole della propaganda russa.


La BBC o il “New York Times” perdono nettamente il confronto: più di una volta sono cascati nei suoi astuti sotterfugi. Questa propaganda continua a essere forte in Ucraina, anche se molte delle sue illusioni sono state distrutte proprio dall’esercito russo regolare: a credere nelle buone intenzioni della Russia, quando questa lancia nella tua città decine di missili in un giorno, può riuscirci solo il pazzo più disperato, benché non manchino nemmeno casi del genere.


Se la Russia avesse condotto la guerra convenzionale in modo altrettanto efficace di quella ibrida, non avremmo avuto chance. È una forza invisibile all’occhio umano, analisi accurate ne stanno evidenziando l’impatto. E in effetti vi si investono miliardi di dollari. La propaganda è in grado di portare all’assurdo anche i fatti più banali ed evidenti. Come contrastarla, mantenendo al contempo salda la libertà di parola, ancora non lo so. Ma come minimo ciascuno può seguire il classico principio del “non nuocere”, soppesando danni e benefici del divulgare un’informazione.


Il trattamento che il governo ucraino ha riservato e riserva ancora ai suoi cittadini talvolta è davvero terribile. Non che si possa paragonare da vicino ai regimi dittatoriali del tipo cinese, russo, bielorusso, ma sempre più spesso mi chiedo: “Si può definire legittimo un governo che agisce in questo modo?”. Potrei già elencare decine di ragioni per una simile domanda. Inoltre, in Ucraina storicamente c’è un forte potere presidenziale. Ora questo si è trasformato a tutti gli effetti in un monopolio: non esistono validi tribunali indipendenti, e il potere legislativo ed esecutivo esistono prettamente come anteprima e rituale per l’attuazione del volere dell’ufficio presidenziale. Sotto molti aspetti il governo è semplicemente infantile: non capisce che sta facendo sciocchezze. Del resto, sono gli stessi problemi che c’erano anche prima, ma quando scoppia una guerra, c’è sempre la speranza che quei problemi spariscano, e puntualmente non è così. Ora non c’è verso di cambiare le cose, ma non ce ne stiamo con le mani in mano. Se però il governo con le sue azioni ci rende simili a chi combattiamo, allontanando così la vittoria e moltiplicando le vittime sacrificate per il suo raggiungimento, parlarne è dovere di chiunque si batta per i diritti umani.


***


Il 6 agosto era il mio compleanno. Quel giorno sono stato in un ospedale militare, dove sono finalmente riuscito a rivedere il mio coinquilino. Nel cellulare avevo ancora un video del 21 febbraio, quando dopo il discorso di Putin era corso a casa e si era messo a sistemare il giubbotto antiproiettile e tutta la roba mimetica che tenevamo nella nostra piccola stanza allo studentato.


Per me, e forse anche per lui, rimane tuttora un mistero cosa l’abbia portato a studiare legge. Quando dovevano darmi la stanza, il direttore dello studentato aveva iniziato a grattarsi la testa, dicendo: “Dove possiamo metterti? Forse, con Roma? Ma quello è malato, esalta Hitler!”. “Mi va bene”, avevo detto. Alla fine, la storia di Hitler si è rivelata falsa, ma Roma faceva parte di un’organizzazione di quelle che solitamente si definiscono “radicali”, “di estrema destra” o cose del genere. Di fatto, non so ancora se prima della guerra questa organizzazione avesse mai fatto qualcosa oltre a perseguitare gli attivisti LGBT. È possibile, tra i nostri clienti c’erano persone che erano state loro vittime. Ma Roma non somigliava a un nazista matricolato; casomai, pareva un ragazzino che voleva sentirsi parte di qualcosa e contrapporsi a qualcuno, per di più in modo piuttosto schietto e onesto. Era al secondo anno, io al quarto e già alla seconda laurea. Mi sentivo una specie di fratello maggiore. Gli avevo pure “prestato” dei soldi per andare nel Donbas nell’autunno del 2021. Simpatizzavo senza dubbio di più per gli emarginati come lui che per tutti gli altri attivisti universitari, involontari seguaci dei pionieri sovietici che mi davano il voltastomaco. Forse, vedevo in lui una versione alternativa di me stesso.


Dopo il 24 febbraio, i “prestiti” erano finiti per sempre. Me ne sono andato dalla città con uno zaino vuoto, senza entrare nello studentato, poco distante dal quale già si vedevano passare i carri armati russi. Ho chiesto di mandare tutte le mie cose e i miei soldi al fronte, ho ordinato l’equipaggiamento all’estero, avevo racimolato i soldi per prenderne uno più costoso. Dicono che il battaglione dell’organizzazione “Frajkor” si sia comportato molto bene negli scontri. Ha ricevuto l’aiuto di gente che in tempo di pace vi si sarebbe opposta. Nei primi mesi è stato ucciso il loro comandante. Roma è stato ferito in estate, si è salvato con un laccio emostatico, ma in agosto l’ho visto già senza una gamba. Avevo in mente l’immagine di un allegrone che in quella stessa stanza si prova un elmetto probabilmente dei tempi dell’Iraq, ma di fronte agli occhi avevo un ragazzo di quaranta chili, che faticava anche a parlare. Perdere una gamba fino all’inguine a 19 anni non è la migliore delle sorti.


Se le reclute visitassero gli ospedali militari prima, e non solo dopo, organizzare una guerra di aggressione sarebbe chiaramente più difficile. Questo è il posto in cui è meno probabile che qualcuno ti consigli di andare a combattere, anche se per una buona causa. Non è facile pensare di poter perdere un arto o un senso, di poter perdere per sempre una parte di sé. O prendere in considerazione il suicidio per non finire prigionieri. Circa sei mesi fa ho deciso che prima o dopo toccherà comunque combattere; perciò, per ora non serve aver fretta. Ma tocca pensarci ogni giorno. Gli stessi dialoghi dei film sulla Seconda guerra mondiale ora si possono sentire nei notiziari dal fronte; occorre essere pronti, sempre.


In quest’anno ho avuto modo di frequentare e intervistare molte persone che hanno vissuto l’inferno. Qualcuno ha dovuto seppellire i vicini in giardino, ad altri i russi hanno applicato gli elettrodi ai genitali, un soldato ferito è stato evacuato dall’Azovstal’ in una delle incredibili spedizioni in elicottero dell’intelligence ucraina. I ricordi degli abitanti fuggiti dalla città di solito si concludono allo stesso modo: lacrime di felicità all’arrivo al primo posto di blocco ucraino della regione di Zaporižžja. Benché la popolazione di questa città sia quasi interamente russofona, un improvviso “Buongiorno!” in ucraino da parte dei soldati commuove chiunque. In fondo, non è un segreto che le azioni della Russia per “salvare i russi dall’oppressione” causino particolare sofferenza proprio alla popolazione russofona dell’Ucraina.


È trascorso un anno di guerra. In quest’anno sono morte centinaia di migliaia di persone. Alcune città sono state cancellate dalla faccia della Terra. Se in primavera molti pensavano che l’Ucraina avesse i giorni contati, ora quasi tutti concordano che vincerà. A prescindere da che aspetto avrà questa vittoria, ancora molta gente dovrà morire: non è fatalismo, è teoria della probabilità.


Per quanto la realtà sia difficile, occorre capirla e accettarla. We shall defend our land whatever the cost may be.

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