Voci dalla guerra: Oleh Toporkov, vicedirettore di una fabbrica di Vovčans’k
Continua la serie di interviste della rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”) per il progetto “Voci dalla guerra”, che mira a far risuonare in nove lingue le testimonianze delle vittime della guerra della Russia contro l’Ucraina.
A raccontare la sua storia è Oleh Toporkov, vicedirettore di una fabbrica nella regione di Charkiv, requisita dai russi e adibita a luogo di detenzione per tutti i soggetti da loro considerati sgraditi.
L’intervista originale è stata realizzata da Denys Volocha. Il video coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.
Denys Volocha
08.11.2022
In una fabbrica a Vovčans’k i russi “hanno torturato con la corrente perfino un sacerdote” – il vicedirettore della fabbrica.
A Vovčans’k, a nord-est di Charkiv, una fabbrica di macchinari è finita al centro dell’attenzione dopo che alcuni funzionari ucraini hanno sostenuto che i russi ne avrebbero fatto un lager. Abbiamo parlato con Oleh Toporkov, il vicedirettore, che fa politica a livello locale e che per diversi mesi ha vissuto nella città occupata nascondendosi dai russi.
– Cos’è successo nella fabbrica di Vovčans’k?
– Dopo aver stabilito una propria base, [i russi] sono passati ai fatti. Hanno cominciato a cercare con maggiore attenzione i patrioti filoucraini, quelli che sostengono l’Ucraina al 100%. Erano molti, e gli spazi che avevano [sequestrato] in un primo momento, tipo quelli del comando distrettuale [della polizia], non bastavano più. Portarli oltre il confine era un bel rischio, e anche una spesa notevole, a quanto ne so. E cosa c’era di meglio della fabbrica? Con un sacco di spazio, e con delle parti isolate che sono diventate le prigioni. Altri locali sono stati usati per gli interrogatori.
Accanto alla fabbrica c’è un ponte: hanno piazzato lì il posto di blocco per il filtraggio. Se qualcuno non gli andava a genio, lo prendevano e lo portavano dentro per interrogarlo, indipendentemente dall’età o dal sesso. Non c’era nemmeno bisogno di un motivo, a volte. “Non mi piaci” e via, dentro.
Alcuni restavano solo in cella, altri venivano portati ogni giorno, sistematicamente, nella stanza degli interrogatori, e lì li torturavano per avere le informazioni. Chiedevano di dov’erano, se avevano parenti tra i militari, i politici locali o le truppe ATO [ATO – Antyterorystyčna operacija na schodi Ukrajiny, cioè Operazione antiterroristica nell’est dell’Ucraina; gli ucraini e alcuni enti stranieri definiscono “Zona ATO” il territorio ucraino delle regioni di Donec’k e Luhans’k sotto il controllo militare russo].
È a tutti gli effetti un campo di concentramento. Con tutte le conseguenze del caso. Da quel che mi dicono, c’è chi ci è rimasto un giorno solo, chi per diversi giorni e chi non ne è uscito. Li tengono lì dai primi giorni. E se sappiamo qualcosa è, a spizzichi e bocconi, da chi è uscito o ne ha avuto notizia da altre persone o parenti.
– Chi sono quelli che non liberano?
– Dipende. Prima di tutto, sicuramente i soldati ATO, i più nazionalisti; poi ex membri delle forze dell’ordine, politici e funzionari del governo locale, gli insegnanti. Per darle un’idea delle loro liste, hanno preso anche un sacerdote e lo hanno torturato per tre giorni con l’elettricità.
E poi ragazze, ragazzi, donne, uomini… Chiunque. Di qualunque ceto, senza fare nessuna distinzione. È tabù tutto ciò che è ucraino. E basta. Affermazioni, azioni pratiche, partecipazione a qualcosa. Fermano qualcuno per strada e gli trovano una foto nel cellulare. Oppure vedono che ha condiviso qualche notizia. Basta quello.
Non abbiamo prove certe di eventuali morti. Ma ci sono persone di cui non si sa nulla da un bel po’. Si sa che li hanno presi, ma non si sa che fine hanno fatto. Non vengono fornite informazioni e non c’è nessuno con cui reclamare. La legge non esiste, lì dentro. Esiste il caos più assoluto. Nemmeno l’etica militare esiste, lì dentro, lo capisce? Perché non sono esseri umani, quelli. Non sono umani. Si sperava che mostrassero un barlume di umanità almeno con certe categorie, che rispondessero o mostrassero un po’ di pietà con le donne che cercavano i mariti o i figli. Invece no. Non c’è pietà, lì dentro. Anzi, magari le donne che vanno a chiedere informazioni sui mariti rischiano di restarci anche loro.
– È corsa voce che la fabbrica fosse stata trasferita in Russia. È vero o no?
– Guardi, personalmente, da membro della direzione della fabbrica, il suo stato e la sua integrità sono importantissimi per me. Per quanto mi è dato saperne, ci stavano pensando. Anche noi sapevamo bene che qualcuno poteva facilmente portarsi via le strutture e gli impianti.
Il 7 aprile è saltata la corrente. Ed è mancata a lungo. E senza elettricità è un problema anche smontarli, gli impianti delle varie officine. Per smontare attrezzature e macchine utensili servono le gru a ponte che scorrono sui soffitti. Non si può prendere e smontare le macchine, così. Si rischia di far crollare l’edificio e di danneggiare i macchinari. Per questo era ancora tutto lì.
Potrebbe anche essere che alcuni materiali di primaria importanza siano stati portati via, ma un trasferimento deliberato degli impianti non c’è stato. Insomma, al momento attuale la fabbrica è integra al 99%. Al momento attuale. L’hanno bombardata più volte [sorride – N.d.R.]. Sono saltate giusto le finestre. Ma non ci sono danni rilevanti. Grazie a Dio è intatta.