Il filosofo Boris Groys: “Un regime non può sopravvivere a una guerra persa. E la guerra russa è già persa”

Riflessioni del celebre docente di Slavistica della Nyu sull’arte in guerra tra Russia e Occidente, tra nazionalismo e globalizzazione, condivise con lo storico Sergej Bondarenko.

(di Boris Groys, professore di Slavistica della New York University, e Sergej Bondarenko, storico; traduzione di Giulio Novazio e Serena Ventura; foto di Valerij Ledenev, CC BY-SA 3.0)


10 febbraio 2023 
Aggiornato 13 febbraio 2023 alle 12:36


Boris Groys è forse il maggiore esperto al mondo della cultura nei regimi totalitari ed è professore di Slavistica alla New York University, filosofo e culturologo. Tra i più celebri studiosi del legame tra arte e politica, Groys, con il libro Gesamtkunstwerk Stalin (Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti), pubblicato trentacinque anni fa, ha gettato nuova luce sulle avanguardie russe e sul loro rapporto con il regime, definendo lo stato sovietico come un’opera d’arte costruita sul sangue. Ecco le sue riflessioni sulla Russia contemporanea – sull’impatto che la guerra in Ucraina avrà sull’arte e sull’opinione pubblica, nonché le prospettive della Russia dopo la sconfitta – condivise con lo storico Sergej Bondarenko (di Memorial e coautore, insieme a Giulia De Florio del recente Proteggi le mie parole, edizioni e/o). Il testo originale è apparso il 12 dicembre 2022 sulla testata indipendente Cholod che ringraziamo per l’autorizzazione a pubblicare la traduzione italiana a cura di Giulio Novazio e Serena Ventura.


Il filosofo Boris Groys
Il filosofo Boris Groys (foto di Valerij Ledenev via Flickr, CC BY-SA 2.0)


In che stato è l’arte in Russia da quando è scoppiata la guerra? Sta emergendo un movimento artistico di opposizione?


La storia insegna che di solito nei paesi belligeranti l’arte è profondamente influenzata dal patriottismo, e ne sono una prova sia la Prima che la Seconda guerra mondiale. L’arte come strumento di opposizione alla guerra esiste invece solo nei Paesi neutrali: ad esempio, in Svizzera, dove durante le due guerre, dalla Francia e dalla Germania, sono emigrati scrittori come Herman Hesse, ma anche dadaisti ed esponenti di altri movimenti d’avanguardia. Nei paesi belligeranti ritroviamo opere d’arte contro la guerra solo al termine del conflitto: tanta letteratura e soprattutto poesia. Pensiamo ai romanzi di Hemingway, Remarque, Céline, all’espressionismo tedesco, o anche al celebre Guernica, che Picasso ha dipinto dopo essere emigrato in Francia. In tempi di guerra, per artisti e artiste l’emigrazione continua a essere una buona soluzione. Chi emigra non deve scegliere se essere “pro o contro”, contrapposizione che nei Paesi belligeranti non può che inasprirsi.


Verrebbe da dire che le strade delle città stiano diventando un palcoscenico per chi contesta la guerra con l’arte: murales, sticker, performance, picchetti.


Anche qui non vedo niente di sostanzialmente nuovo. Lo stesso Malevič dipinse il Quadrato Nero per la realizzazione scenica dell’opera futurista La vittoria sul sole [di Aleksej Kručënych, in collaborazione con Michail Matjušin, Velimir Chlebnikov e Kazimir Malevič, 1913, N.d.R.], concepita come la celebrazione di un mistero sulla Neva. L’autore del prologo, il poeta e drammaturgo Velimir Chlebnikov, si rammaricava che il sole non si fosse spento e sosteneva che alla Neva mancasse probabilmente la sacralità necessaria; con il Nilo avrebbe forse funzionato. Sulla prospettiva Nevskij si susseguivano performance e manifestazioni futuriste, mentre a Zurigo il “Cabaret Voltaire” di Hugo Ball, culla del dadaismo, era uno spazio aperto a chiunque. Chi poi pensasse che classicisti e formalisti avessero un altro approccio sbaglierebbe: Vasilij Kandinskij sognò tutta la vita di lavorare a teatro e mettere in scena un’opera. Scrisse la drammaturgia della “composizione scenica” Il Suono Giallo e nel 1914 iniziò a lavorare alla messinscena. Il suo assistente era Hugo Ball [poeta tedesco che mandato al fronte disertò e fuggì in Svizzera, dove aprì il leggendario “Cabaret Voltaire”, N.d.R. di Cholod] e solamente la guerra impedì loro di realizzare il progetto. La città è quindi da tempo uno spazio per l’arte. Filippo Tommaso Marinetti valutava l’impatto delle sue performance sulla base di quanto ne parlassero i giornali il giorno dopo. Si è sempre fatto appello allo spazio pubblico. Certo, i mezzi di informazione sono cambiati, ma il principio è rimasto lo stesso; è semplicemente aumentata la loro capacità di diffondere e amplificare le notizie.


Che impatto ha su questi processi la mobilitazione militare imposta in Russia?


Secondo me non stiamo assistendo a una vera e propria mobilitazione psicologica della popolazione. Formalmente la mobilitazione è stata indetta, ma per buona parte dei russi la vita scorre come sempre. La logica della guerra prevede però che la mobilitazione si intensifichi, anche quella psicologica. Tempo fa una signora molto anziana mi ha raccontato che stava viaggiando su un tram nell’allora Pietrogrado (uno di quelli che decenni dopo è capitato di prendere anche a me; le linee tramviarie di San Pietroburgo sono sostanzialmente immutabili), quando all’improvviso vide che qualcuno stava pronunciando un discorso dal balcone di Villa Kšesinskaja. Pensò di scendere dal tram e andare a sentire, ma poi decise che aveva faccende più importanti a cui pensare e proseguì. Ovviamente, la persona sul balcone era Lenin. Solo che all’epoca era talmente poco riconoscibile, che persino chi gli passava accanto in tram non si rendeva conto di chi fosse. Passò un anno, ne passò un altro e la situazione cambiò radicalmente. Col tempo anche la mobilitazione diventerà più visibile.

Accadrà per inerzia?


Quanto Putin ha fatto in Ucraina ci dovrebbe avere insegnato che questa possibilità, benché irrazionale, non sia da scartare del tutto. La premier estone ha formulato le sue paure in modo molto chiaro: l’invasione russa porterebbe all’intervento Nato in base all’articolo 5 del trattato istitutivo dell’alleanza, ma il tempo previsto per liberare un paese del genere dalle truppe russe è di circa sei mesi. Un periodo in cui un paese piccolo come l’Estonia sarebbe completamente devastato, basti pensare al comportamento dei soldati russi a Buča.


Le reazioni delle persone stanno progressivamente cambiando e questo cambiamento verrà senz’altro analizzato in chiave sociologica. A livello psicologico, invece, ne percepiremo gli effetti man mano che si diffonderà. Se vogliamo, è proprio questo il ruolo dell’arte. I processi psicologici sono difficili da descrivere in modo obiettivo, ed è quindi solo quando la guerra finisce che l’arte può svolgere questa funzione: raccontare le reazioni psicologiche della gente, da una prospettiva tanto individuale quanto collettiva. Un ottimo esempio per illustrare come la mobilitazione della popolazione in Urss differisse da quella in Occidente è la crisi dei missili a Cuba. In Unione Sovietica passò in sordina, io me ne accorsi solo perché leggevo regolarmente la stampa estera e ascoltavo la radio occidentale. Negli Stati Uniti, invece, metà della popolazione prese a costruirsi rifugi antiatomici. Da un punto di vista sociopsicologico, tra Oriente e Occidente c’è un abisso. La mentalità occidentale è molto volubile, le persone cedono facilmente alla paura e possono essere mobilitate molto velocemente. Friedrich Nietzsche ha descritto bene questa condizione di terrore perenne, la sensazione che tutto stia per crollare. Tale sentimento non è ancora presente in Russia, che in questo senso sta tuttavia, molto lentamente, diventando un Paese occidentale.


Che cosa significa psicologicamente per un artista lavorare sotto minaccia? Negli anni Settanta lei è stato molto vicino a persone che hanno vissuto questa esperienza. La loro situazione può essere paragonata a quello che adesso subisce chi in Russia contesta la guerra?


Dopo la morte di Stalin molti artisti sovietici credevano di poter introdurre la tradizione del modernismo nella cultura locale, affermando la libertà creativa di chi produce arte. Avevano davanti agli occhi ciò che accadeva in Polonia, Ungheria e Jugoslavia, dove questo approccio era considerato coerente con un certo tipo di regime politico: il socialismo ideale. Quando nei primi anni Settanta cominciai a muovermi in quell’ambiente, le persone intorno a me erano però completamente disilluse, avevano visto le loro speranze infrangersi. Io, che non le avevo mai condivise, davo per scontato che sarebbe successo e non me ne curai. Molti artisti attivi negli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta reagirono invece cominciando a costruirsi uno spazio indipendente. La stampa e la vita pubblica erano controllate dal Partito Comunista, ma lo stesso non valeva per la vita privata. In quel periodo la società sovietica aveva come perso il proprio centro di gravità e c’era dunque posto per produzioni artistiche relativamente indipendenti, una situazione che non credo si ripeterà. La pressione del regime si era attenuata, quella del mercato non era ancora emersa. Già verso la metà degli anni Ottanta si fece più tangibile la differenza tra chi possedeva denaro e chi invece non ne aveva. Questa consapevolezza ha generato una pressione enorme: chi si rifiuta di competere è spacciato. Mentre negli anni Settanta i cittadini sovietici non subivano di fatto alcuna pressione, né ideologica né economica, nella Russia odierna la pressione economica è immensa. All’inizio degli anni Novanta ero qui, in Occidente, e quando sui giornali russi leggevo che l’avvento del capitalismo avrebbe portato a maggiore libertà, rimanevo a dir poco sorpreso. Con l’affermarsi del capitalismo la gente ha cominciato a temere per il proprio denaro: se vai contro corrente perderai i tuoi soldi, non c’è scampo.


Per come la vedo io, questa relazione tra conformismo e benessere economico è diventata il motore che permette alla società russa di andare avanti.

Boris Groys


Costruire strutture alternative in questo contesto è possibile, ma meno probabile che negli anni Settanta, quando esisteva una cultura diversa da quella ufficiale e soprattutto un’economia parallela, che consentiva alla gente di sopravvivere. Purtroppo, temo che col passare del tempo quest’ultima non possa che indebolirsi, mentre il meccanismo che lega benessere economico e lealtà al regime continuerà a rafforzarsi.


In estate lei diceva e scriveva che lo scopo della guerra per la Russia è isolarsi, separarsi dall’Occidente. Cosa succederà alla cultura e alle istituzioni culturali? Riusciranno in qualche modo a ripristinare legami informali con il resto del mondo o ci sarà una vera e propria spaccatura, una vera e propria ristrutturazione interna?


È molto difficile prevederlo. Mettiamola così: già all’inizio degli anni Novanta, quando andavo in Russia per partecipare alle conferenze, negli ambienti progressisti locali mi sentivo spesso dire: “Cosa ce ne facciamo di quest’arte occidentale? Noi abbiamo il nostro contesto”. Già allora, quando si parlava di Occidente, si ponevano sulla difensiva. L’Occidente veniva visto come una forza coloniale intenta a imporre i propri criteri e sistema di valori. Emerse subito questo meccanismo di difesa, che peraltro era già evidente nell’ultimo periodo dell’Unione Sovietica, durante la Perestrojka. Per questo nutro sentimenti contrastanti verso la situazione attuale. Certo, è un peccato che i rapporti si lacerino, ma a mio avviso si lacerano non tanto per volontà del governo; si tratta di meccanismi di difesa che in teoria ci sono sempre stati e che si sono semplicemente rafforzati. Da quel che vedo, non faranno che rafforzarsi ulteriormente. Per molto tempo, i tanti che consciamente, inconsciamente o in maniera parzialmente consapevole si compiacciono di questa sensazione di isolamento, erano infastiditi dal pensiero che per riscuotere successo in Russia si dovesse essenzialmente avere successo in Occidente. In questa logica si avvertiva il carattere coloniale della cultura russa, ma questa logica adesso non ha più presa. Non è possibile avere successo in Occidente. L’unico criterio rimasto è il successo in Russia, e penso che in molti se ne rallegrino. Anche se non lo ammettono. Capiremo questo periodo della storia russa solo quando sarà finito, tra qualche anno, certo. Non durerà molto, ma quando finirà, vedremo chi (e quanto) sarà riuscito a guadagnare dalla fuga delle aziende occidentali dal Paese. In Occidente questa fuga viene percepita soprattutto come un danno all’economia russa. Ma dall’interno, a mio parere, viene vista come un’opportunità per redistribuire la ricchezza a proprio favore. L’isolamento ha generato molti interessi, e non solo dello Stato, ma anche di privati.


A quanto pare, questo è solo uno dei tanti esempi di come la stessa situazione viene percepita in maniera diversa in Russia e in Occidente.  


In Europa e in Occidente lo scontro principale avviene fondamentalmente tra chi sostiene la globalizzazione e chi il nazionalismo. La società occidentale è divisa tra coloro che considerano la globalizzazione un’opportunità e coloro che la considerano un pericolo. In questo senso anche gli Stati Uniti sono divisi, forse ancora di più degli altri paesi. Questa stessa divisione la vedremo anche in Russia, dove si presenterà in maniera ancora più chiara e netta. Sarà una frattura tra coloro che vogliono la riglobalizzazione della Russia e coloro che vorrebbero a prescindere guadagnare, che sia denaro, o successo, nella Russia deglobalizzata. Ora c’è la guerra, che finirà seguendo una sua logica intrinseca.


Sappiamo che le guerre finiscono quando entrambe le parti sono stremate. Adesso la Russia ritiene che l’Occidente cederà per primo. L’Occidente pensa la stessa cosa della Russia. Con queste premesse la guerra continuerà, ma quando finalmente tutti capiranno che sono allo stremo, la guerra terminerà. In seguito, cambierà il regime in Russia, perché un regime non può sopravvivere a una guerra persa. E la guerra è già persa. È questione di un paio d’anni. 


Cosa pensa della strumentalizzazione della retorica antiglobalizzazione delle autorità russe e della loro ambizione di guidare una qualche coalizione antioccidentale e allo stesso tempo consolidare una sorta di modus vivendi “nazionale”? 


In America questa questione non rientra affatto nel dibattito sulla Russia: la Russia viene vista come un paese debole che arraffa ciò che non le spetta, e in questo senso è pericolosa. Agli americani non interessa come essa giustifica questa appropriazione indebita. Come si fa a spiegare che qualcuno anziché essere realista pecca di pretenziosità? La sua domanda sullo spirito coloniale, invece, ha senso. Ora sto scrivendo un articolo sull’imperialismo russo e ho letto le opere di molti veri eurasisti [esponenti di una corrente politica e spirituale secondo cui gran parte dei valori e della cultura russa avrebbe radici asiatiche, con una contrapposizione tra Occidente e Russia, N.d.T.], dell’inizio del Ventesimo secolo, in particolare Nikolaj Trubeckoj, un autore davvero molto valido, e altri, meno validi. Devo dire che l’idea che “La Russia debba guidare il movimento antimperialistico globale” è già presente in Trubeckoj. Gli eurasisti negli anni Venti erano inoltre contrari alla politica della NEP [Nuova Politica Economica, voluta da Lenin, prevedeva un parziale ritorno all’economia di mercato e alla proprietà privata, N.d.T.]: tutti pensavano che avrebbe comportato il dominio economico dell’Occidente in Russia. Per loro la cosa più importante era l’autonomia politica e culturale. Nel dibattito sulla Sonderweg russa, spesso viene tralasciata la peculiare scelta politica già compiuta dalla Russia: il comunismo. Non bisogna dimenticare che i Paesi occidentali in un modo o nell’altro hanno scelto il fascismo. Se in Occidente stiamo quindi assistendo al superamento del fascismo, in Russia ora osserviamo il superamento del comunismo. Sono due processi completamente diversi.


In Europa il nazionalismo (per la maggioranza liberale) ha una connotazione negativa: è associato al fascismo. In tutta l’Europa orientale il nazionalismo ha una connotazione positiva, perché rappresenta la resistenza al comunismo.


Queste due diverse connotazioni del nazionalismo sono fonte di ambiguità e confusione nella politica dei nostri giorni. Qui, in Occidente, quando si parla di nazionalismo si parla di Hitler. All’est, quando si dice nazionalismo, si ricorda la resistenza eroica agli organi del KGB. 


Un nazionalismo di liberazione.


Sì, ma non solo. È un nazionalismo contro il comunismo, ovvero il nazionalismo contro l’internazionalismo, il cosmopolitismo. Ciò significa che il nazionalismo dell’Europa orientale, in tutte le sue forme, si collocherebbe a destra, secondo il sistema di suddivisione della politica occidentale. Basti pensare che tra i comunisti, i socialisti e i liberali occidentali non c’è nessuna differenza sostanziale, di fatto si sono fusi in un solo partito. In America sono soltanto the Left. Coprono tutto il ventaglio di posizioni favorevoli alla globalizzazione, dai liberali ai comunisti, mentre the Right riunisce di fatto i partiti detrattori della globalizzazione in cui molti rivedono Hitler. In Europa orientale questa suddivisione non c’è. Lì anche il liberalismo a favore della globalizzazione viene considerato una sorta di comunismo da combattere nel nome del nazionalismo. Ciò è ben visibile in Polonia e in Ungheria. In Russia su questo manca un po’ di chiarezza ideologica. La Russia, come lei giustamente dice, cerca sempre di “guidare”. Il desiderio di “guidare” è sempre un desiderio liberal-comunista. L’idea di “guidare” nel mondo contemporaneo spinge fondamentalmente a sinistra. In Russia si scontrano due pulsioni: “distaccarsi” (tendendo verso destra) e “guidare” (verso sinistra).


Forse distaccarsi, dando in questo modo l’esempio, e poi guidare coloro che si separeranno in futuro?


Sì, prima distaccarsi e poi guidare. Come fece Lenin a suo tempo: si distaccò dalla socialdemocrazia e poi guidò la rivoluzione. Il problema sta nel fatto che la prima parte è fatta: la Russia si è distaccata.


Penso che anche in futuro, quando arriverà la pace, non ci sarà modo di tornare indietro. La Russia si è distaccata per sempre. Si potranno riallacciare dei contatti, ma niente di più. Di sicuro non riuscirà a “guidare” nulla. Il mondo è cambiato molto, la Russia non può essere alla guida di nulla.


In futuro, nella politica russa ci sarà una spaccatura netta, come solitamente avviene in questi casi, tra coloro che si compiacciono di essersi distaccati e coloro che nonostante tutto cercano ancora di “guidare” un qualcosa di grande. Questi saranno i due poli della politica culturale russa dopo la guerra, ma ad oggi ne siamo ancora lontani, non siamo ancora arrivati a quel punto. Adesso ne stiamo parlando perché io sono a New York e lei è a Berlino.


Un classico.


Sì, ma che non deve essere sottovalutato. Se guardiamo al passato, al Ventesimo secolo, tra gli emigrati si è parlato, discusso moltissimo, sono emersi molti spunti, fuori dalla Russia stessa. Quindi non saprei. Mi sembra che la situazione adesso sia davvero senza precedenti, e osservandola con gli occhi di un occidentale intimorito, verrebbe da dire che converrebbe starne alla larga.

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