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“Dopo quale Russia?”. Un secolo di poesia dell’emigrazione in musica

Come canta il rapper Vladi in un suo nuovo album del dicembre 2022, che colpisce davvero dritto al cuore, in Russia ci troviamo in una fase storica in cui "il tempo è sospeso" e "febbraio continua".

(di Francesca Lazzarin, assegnista di ricerca in letteratura russa presso l’Università di Udine)


03 febbraio 2023 
ore 11:14


Il 13 gennaio 2023 è uscita la raccolta musicale Posle Rossii (Dopo la Russia, titolo ispirato all’omonima raccolta di Marina Cvetaeva uscita a Parigi nel 1928), disponibile su tutte le principali piattaforme di musica online e anche su uno specifico sito corredato da interessanti ed esaurienti materiali esplicativi sia in russo che in inglese. Chi tra i russi ha lasciato casa negli ultimi 11 mesi si sta gradualmente abituando all’idea di rimanere all’estero. Non possono quindi che scattare, complici le cifre tonde, i paralleli con la cosiddetta ‘prima ondata’ dell’emigrazione russa conclusasi un secolo esatto fa, a cavallo tra il 1922 e il 1923.


Il rapper Oxxxymoron a Berlino nel 2022
Il rapper Oxxxymoron a Berlino nel 2022 (foto: A.Savin, Wikipedia)


Mentre sempre più attivisti, giornalisti e figure del mondo della cultura che hanno lasciato la Russia nel corso del 2022 vengono bollati, in patria, con il marchio di ‘agenti stranieri’, privati di alcune delle onorificenze ufficiali di cui erano stati insigniti, rimossi dalle locandine degli spettacoli a teatro e confinati negli angoli meno in vista delle librerie, quando non multati e arrestati, appare ormai chiaro che la partenza forzata di numerosi cittadini russi contro la guerra e il regime putiniano (e non si tratta, ovviamente, solo di celebrità) non è più un espediente temporaneo per, usando un verbo russo, pereždat’, cioè aspettare la fine della terribile congiuntura iniziata il 24 febbraio e, poi, considerare l’idea di tornare, magari per continuare a perseguire l’onesto tentativo di costruire, a piccoli passi, la famigerata prekrasnaja Rossija buduščego, la ‘splendida Russia del futuro’ – espressione coniata da Aleksej Naval’nyj che ora suona quantomeno beffarda. Infatti, se da un lato il conflitto in Ucraina non accenna a fermarsi e, anzi, promette drammatiche escalation, si susseguono imperterriti anche i giri di vite contro le forme di dissenso interne alla Russia, a maggior ragione in seguito alla ‘mobilitazione parziale’ annunciata lo scorso settembre. Come canta il rapper Vladi in un suo nuovo album del dicembre 2022, che colpisce davvero dritto al cuore, in Russia ci troviamo in una fase storica in cui ‘il tempo è sospeso’ e ‘febbraio continua’.


Chi ha lasciato casa negli ultimi 11 mesi si sta gradualmente abituando all’idea di rimanere all’estero. Non possono quindi che scattare, complici le cifre tonde, i paralleli con la cosiddetta ‘prima ondata’ dell’emigrazione russa conclusasi un secolo esatto fa, a cavallo tra il 1922 e il 1923. Con il termine della devastante guerra civile, che già aveva spinto molti alla fuga, e il consolidamento del potere bolscevico, si assistette a una sorta di esodo dalla Russia, abbandonata (spesso sotto coercizione) anche e soprattutto da accademici, intellettuali, artisti e letterati di diverse età, in quella che passò alla storia come la ‘nave dei filosofi’.


Il regista russo Roman Liberov, già autore di un notevole biopic di animazione sul poeta Osip Mandel’štam (Custodisci la mia parola per sempre, 2015) e promotore, nel 2021, di un album in cui svariati cantanti e gruppi russi (compresi i famosissimi rapper Oxxxymiron e Noize MC) hanno messo in musica poesie sempre di Mandel’štam, ha deciso di dare corpo a un analogo progetto musicale sulla scia del triste centenario 1922-2022. Il 13 gennaio 2023 è dunque uscito Posle Rossii (Dopo la Russia, titolo ispirato all’omonima raccolta di Marina Cvetaeva uscita a Parigi nel 1928), disponibile su tutte le principali piattaforme di musica online (la relativa playlist su YouTube, per esempio, è a questo link) e anche su uno specifico sito corredato da interessanti ed esaurienti materiali esplicativi sia in russo che in inglese.


Questa volta i testi alla base delle 15 canzoni che compongono l’album, intonate da un’eterogenea e brillante compagine di musicisti russi attualmente residenti all’estero, sono di poeti afferenti a quella che, nel secolo scorso, è stata ribattezzata ‘letteratura russa dell’emigrazione’ e di fatto costituisce un oggetto di studio a sé stante rispetto alla coeva letteratura sovietica. Il curatore, però, ha scelto di non rifarsi soltanto ad autori entrati nel canone e presenti nelle antologie e in traduzione, come Georgij Ivanov, ma si è rivolto innanzitutto alle generazioni più giovani, quelle che erano arrivate alla maturità all’altezza della Rivoluzione del 1917, talvolta avevano avuto la possibilità di incontrare i grandi scrittori del modernismo e di formarsi con loro in luoghi come la Casa dei letterati o la Casa delle arti di Pietrogrado (bizzarri punti di convergenza tra Vecchio e Nuovo negli anni babelici del conflitto civile), ma senza debuttare a pieno titolo nella Russia sovietica. Inoltre, una volta abbandonata la propria terra d’origine, non erano riusciti ad affermarsi nel contesto dell’emigrazione – a differenza, poniamo, del loro coetaneo Vladimir Nabokov. Alcuni di loro rimasero a Berlino, Praga o Parigi; altri, alla fine, rientrarono in Unione Sovietica. Le loro biografie furono più o meno fitte di eventi, i loro destini più o meno tragici. Come che sia, la loro parabola creativa rimase bloccata a metà: Liberov li chiama una ‘generazione passata inosservata’, recuperando una definizione fornita proprio da uno dei suoi esponenti, Vladimir Varšavskij.


Nell’album si cerca appunto di far riaffiorare alcune di queste voci sommerse, e il risultato è più incisivo di qualsiasi silloge stampata, grazie al talento dei musicisti coinvolti e alla varietà dei ritmi e della strumentazione che vi si alternano (passiamo infatti dal pop di Monetočka al rap di Noize MC e Naum Blik, dallo ska demenziale dei Nogu Svelo! al folclore a cappella del duo Miša Dymov-Mila Varavina, dal rock acustico dei RSAC al sottofondo elettronico degli AloeVera, fino alle dissonanze pianistiche dei Korolev Popova). Si inizia rendendo comunque omaggio al classico Georgij Ivanov e alle sue spietate strofe antimilitariste (“Sempre più spesso quegli annunci: / i commilitoni e la famiglia / di nuovo esprimono cordoglio… / ‘Oggi a te, domani a me!’”), seguite dai non meno antimilitaristi testi di poeti meno noti, come Jurij Ivask (con il suo flusso paranomastico “cantavamo – bevevamo – campo – pallottole – cademmo morti”, tutte parole fonicamente simili in russo: “peli – pili – pole –puli – pali”). Si arriva poi a pezzi in cui si cantano la solitudine, la nostalgia per i propri cari lontani o scomparsi, le disillusioni: “Silenzio, silenzio, / Tu che ti fai sempre sentire / Tu, la cui chiamata non cessa / Nel fragore delle città” (Raisa Bloch); “Le nostre tracce si disfano nel bosco, / Si disfano nella memoria le misere passioni” (Aleksej Ejsner); “Ma quali poesie, a che servono / quando i giorni si affievoliscono come candele, / quando la tenebra è nel cuore e al di là dei vetri / quando di notte impazzisco” (Vladimir Smolenskij); “A noi, non ci pensano da nessuna parte / Bruceremo nel vuoto” (Michail Gorlin). Talvolta vengono fuse insieme, a mo’ di dialogo, poesie di autori diversi. Particolarmente penetrante è Parnas (Parnaso) di Sergej Bongart, interpretata da Noize MC: uno sgangherato antiquario che vende libri usati impilati tra la polvere e smangiucchiati dai topi diventa un’allegoria della letteratura russa dispersa e dimenticata, spogliata di ogni potere salvifico.


Nell’ultimo pezzo della playlist, il cerchio si chiude: si ritorna ad Ivanov, e in particolare a un testo dai toni apocalittici in cui, però, è presente un noto distico che costituisce una sorta di testamento dei poeti emigrati nel loro complesso, oltre a sintetizzare l’intento principale di Dopo la Russia: “Ma non ho dimenticato che mi è stato promesso / di risorgere. Di ritornare in Russia in forma di poesia”. All’epoca, naturalmente, era ben difficile non solo tornare fisicamente a casa, ma anche far pervenire i propri testi oltreconfine, e d’altro canto, per motivi logistici e non solo, anche le diverse comunità russe (berlinese, praghese, parigina, per citare le più numerose) avevano contatti relativamente sporadici. Oggi, finché Internet e soprattutto il VPN reggono, il pubblico russo, ovunque si trovi, può accedere liberamente ad ogni riga ed ogni nota creata da chi se ne è andato, poesie della ‘generazione passata inosservata’ comprese. Da parte loro, gli emigrati possono comunicare istantaneamente tra di loro in una rete che connette Tel Aviv, Tbilisi, Belgrado, Riga, Istanbul e molte altre latitudini: il dolore della distanza fissato su carta dai due innamorati Michail Gorlin e Raisa Bloch e cantato da Miriam Sechon e Vasilij Zorkij in Dopo la Russia risulta senz’altro alleviato: per gli artisti e, soprattutto, per i loro ascoltatori sparsi in mezzo mondo.


Ivanov, tra l’altro, lasciò ai posteri un altro distico divenuto proverbiale: “La Russia è gioia, la Russia è luce. Ma, forse, la Russia non c’è affatto”. L’impressione che ‘non ci sia affatto’ scaturisce perché sembra esserle appunto subentrato un ‘dopo’ che fa guardare alla ‘gioia’ e alla ‘luce’ solo retrospettivamente. La Russia ‘dopo la quale’ scrivevano i più o meno giovani poeti selezionati da Roman Liberov era ovviamente molto diversa dalla Russia che, da circa un anno, sta subendo forti trasformazioni al suo interno. Chi era emigrato nel 1922, a volte con un certo snobismo aristocratico, non si trovava in sintonia con il violento radicalismo del progetto sovietico, e spesso rimpiangeva ora le vecchie tenute nobiliari dal sapore cechoviano, ora i carnevaleschi cabaret vicino ai canali di Pietroburgo, ora le lunghe liturgie ortodosse davanti all’iconostasi, ora le sterminate distese di betulle, ora i salotti in cui si disquisiva all’infinito sulla palingenesi spirituale dell’umanità. Chi oggi posta su Instagram le più svariate stories dalle sue nuove città di adozione (spesso cangianti e numerose: pochi hanno potuto stabilirsi a un indirizzo preciso) rimpiange le manifestazioni contro i brogli elettorali dell’inverno 2011-2012, le proteste contro l’intervento militare in Donbas nel 2014 (quando era ancora vivo il politico di opposizione Boris Nemcov, morto ammazzato un anno dopo, ed era ancora possibile sventolare sui boulevard di Mosca bandiere ucraine e arcobaleno), le iniziative indipendenti dal basso, concretizzate in gruppi di volontari per la difesa dell’ambiente o per l’assistenza ai malati terminali. Ma anche gli spettacoli sperimentali sul palco del Gogol’ Center, ora riportato sotto il controllo di dirigenti più leali al Cremlino, e i concerti in locali moscoviti come Masterskaja o Deti rajka, poi chiusi sia a causa delle regole disumane del capitalismo che favorisce le grandi catene, sia in seguito a boicottaggio dall’alto; oppure le spensierate maratone di tango o yoga nei parchi, inframmezzate da birre artigianali e cappuccini con latte di soia ai tavolini all’aperto di bar in tutto e per tutto uguali ai loro gemelli berlinesi e newyorchesi. Anche se, ora, tutto ciò sembra velato da un’aura sinistra: nel già citato album del rapper Vladi c’è una canzone in cui una ragazza russa progressista, cosmopolita e creativa si chiede come, nonostante i tanti passi in avanti degli ultimi anni, la società civile sia stata travolta da un militarismo sciovinistico che ha portato a sfregiare con l’inquietante lettera Z molto di quanto era stato pazientemente costruito. Il titolo del pezzo, Kak èto, bljad’, vozmožno? (Com’è possibile, cazzo?), è una domanda cruciale che, ad oggi, non ha ancora trovato una risposta univoca, similmente ai dolorosi interrogativi sulla colpa e la responsabilità collettiva.

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