Daniil Bejlinson (Ovd-Info): “Abbiamo abbassato la guardia troppo presto. La società russa è destinata al collasso”

Intervista al co-fondatore della piattaforma per la difesa dei diritti civili. "L’importante sarebbe arrivare a quel collasso capendo di aver commesso noi, come società, questo errore gravissimo di non aver capito l’importanza di avere istituzioni funzionanti. Bisogna educare le persone a riflettere su quanto accaduto e su come potrebbe apparire in futuro, in modo da evitare simili disastri".

(di Daniil Bejlinson, co-fondatore di “OVD-info”, e Giulia De Florio, professoressa di lingua e letteratura russa presso l’Università di Parma e membro del Consiglio Direttivo di Memorial Italia)


28 gennaio 2023 
Ore 09:51


Daniil Bejlinson è il co-fondatore, insieme al giornalista Grigorij Ochotin, di “OVD-info”, un progetto creato nel dicembre 2011 dopo le manifestazioni del 5 dicembre 2011 contro i brogli delle elezioni della Duma. “OVD-Info” monitora le persecuzioni a sfondo politico e i casi di abuso di potere da parte degli agenti di sicurezza russi nei confronti dei detenuti. È una delle piattaforme più importanti per la difesa dei diritti civili di coloro che subiscono ogni genere di persecuzione politica nella Russia di Putin. L’intervista, curata da Giulia De Florio (del Comitato direttivo di Memorial Italia), si è svolta a novembre del 2022. Attualmente Daniil Bejlinson non risiede in Russia.


Che cos’è OVD-Info e com’è nata l’idea di crearla? Perché serviva una piattaforma di questo tipo? 


L’idea è nata poco più di 10 anni fa, quando in Russia c’è stato un forte momento di rottura e sono iniziate le prime proteste di massa. Era la fine del 2011, c’erano le elezioni della Duma e, a differenza delle precedenti, era presente una gran quantità di osservatori indipendenti e persone che prima non si erano molto interessate a questo tipo di appuntamenti. Lì, invece, hanno visto coi propri occhi che erano stati presi in giro. Quando sono usciti i risultati delle elezioni, hanno iniziato a intervenire pubblicamente e dal sassolino è partita la valanga. Non che prima non ci fossero state proteste in Russia, sia chiaro, ma le dimensioni erano diverse. Sì, c’erano fermi e inchieste penali, senza dubbio, ma la situazione stava prendendo un’altra piega. Io e il mio collega Grigorij Ochotin avevamo conoscenti e amici fermati dalle forze dell’ordine che passavano giorni e notti nei comandi di polizia senza che i famigliari o gli amici sapessero dove erano finiti. E non c’erano organizzazioni che potessero aiutare queste persone che sembravano scomparse. Così abbiamo pensato di raccogliere informazioni, ma non sapevamo bene dove e da chi. Ed è nato OVD-Info. 


Le proteste intanto aumentavano e di pari passo si intensificava la reazione delle autorità e si inaspriva la violenza con cui l’opposizione veniva soffocata; anche la legislazione vigente diventava sempre più restrittiva. Di fatto, nel corso di dieci anni, questo stato di cose ha portato a quello che abbiamo visto accadere a febbraio di quest’anno: l’ondata di violenza rivolta all’interno della società si è riversata fuori dai confini del paese. Le leggi sono diventate sempre più dure, le persecuzioni sono aumentate e non ci bastava più raccogliere informazioni sui fermi a Mosca. Abbiamo iniziato a documentare gli arresti in altre città della Russia e quelle che chiamiamo persecuzioni politiche. Abbiamo iniziato a fornire supporto legale e pian piano ha preso forma quella serie di attività che svolgiamo ancora oggi e che sostanzialmente si divide in tre parti: prima di tutto la raccolta, la pubblicazione e la diffusione di informazioni che riguardano le persecuzioni politiche. I nostri dati vengono utilizzati da giornalisti di tutto il mondo e da varie istituzioni internazionali. Abbiamo pubblici molto diversi e siamo in contatto con ciascuno di loro per informarli su cosa succede in Russia. Lo facciamo in vario modo, per esempio con la Linea diretta e con il bot di Telegram, al quale sono iscritte alcune centinaia di migliaia di persone che, quando succede qualcosa, si mettono in contatto con noi perché siamo abbastanza conosciuti. 


Il secondo ramo di attività è il supporto legale. Lo forniamo da tempo, ma all’inizio era destinato a coloro a cui veniva tolto il diritto di assemblea, anche se in un modo o nell’altro ha sempre riguardato chi veniva fermato durante le proteste e le manifestazioni, e contro cui venivano aperte inchieste penali. Era chiaro che i motivi erano politici e che esprimere la propria idea era ragione sufficiente per finire nel mirino degli inquirenti. Nel 2017-2018 il numero di casi di questo tipo è spaventosamente aumentato. Oggi ci occupiamo anche di chi è perseguitato per la sua posizione contro la guerra in Ucraina. È un carico di lavoro del tutto nuovo, ma ci sembra importante occuparcene. E non stiamo parlando di persone che hanno espresso pubblicamente, in piazza, la propria posizione contro la guerra, ma di chi ha scritto un commento su un social o cose di questo tipo. Sono sempre di più, queste persone. Pubblichiamo questo tipo di informazioni che riguardano le dichiarazioni contro la guerra. Abbiamo anche creato un dossier che raccoglie materiale sulle persone indagate, ed è interessante notare che spesso vengono accusate nei modi più incredibili: non soltanto attraverso le nuove leggi ad hoc spuntate questa primavera per spaventare le persone, come quelle sulla “diffamazione dell’esercito” o sulle “fake news”. A volte le accuse sono di teppismo, terrorismo telefonico, la scelta è ampia. Il motivo reale rimane sempre lo stesso, questo è chiaro. Cerchiamo di aggiornare regolarmente i dati che riguardano questi casi – che sono centinaia – li traduciamo anche in inglese e forniamo alcune statistiche a riguardo.


Diamo anche assistenza legale diretta, quindi mandiamo gli avvocati per difendere gli imputati a processo e per contestare le sentenze, anche in istanze sovragiudiziarie: da anni, infatti, presentiamo moltissimi ricorsi alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, poiché purtroppo il sistema giudiziario russo è definitivamente compromesso e corrotto. Anche se il risultato non cambia, che ci sia o meno un avvocato, non importa. Per noi è fondamentale fare ricorso e lo facciamo di continuo, si tratta di migliaia e migliaia di casi. Quest’anno, purtroppo, la Russia ha lasciato il Consiglio europeo e la Corte Europea e quindi le cose si sono ancora più complicate. Si può fare ricorso all’ONU, ma è tutto un altro paio di maniche. Oltre a questo supporto giuridico diretto, cerchiamo anche di rafforzare le competenze dei cittadini, anche perché non sempre riusciamo ad aiutare chi ha bisogno, né a mandare gli avvocati, soprattutto nelle zone più remote del paese. Infatti, è importante che i cittadini siano a conoscenza dei propri diritti e per questo diffondiamo delle linee guida, una sorta di vademecum su come ciascuno si può difendere in determinate situazioni. È una parte importante del nostro aiuto “da remoto”.


La terza tipologia di attività è quella più specialistica: raccogliamo dati che riguardano la violazione dei diritti umani, li analizziamo e pubblichiamo materiali di ricerca e statistiche, collaborando anche con organismi internazionali come l’ONU, la Corte Europea e altri. 


Sempre parlando dell’evoluzione dell’opposizione, mi sembra che negli ultimi 10 anni nella società russa si sia sviluppato un doppio processo: da un lato sempre più persone hanno espresso una qualche forma di attivismo, dall’altro hanno avuto un’esperienza più o meno diretta di inchieste e processi a sfondo politico. Hanno visto gli imputati coi loro occhi o lo sono diventati in prima persona. D’altro canto, il sistema repressivo ha aumentato le limitazioni delle libertà individuali, fino alla loro cancellazione totale. Ci sono stati dei momenti di svolta in questa dinamica? 


Sì, questo doppio processo c’è stato. L’esistenza del nostro progetto, in fondo, lo illustra bene. Non siamo soltanto un gruppo, piuttosto grande, di persone che lavorano insieme; siamo in contatto con molte altre comunità: quella dei volontari, che sono migliaia, quella dei donatori privati, e parliamo di centinaia di migliaia di persone che con le loro donazioni ci hanno permesso, l’anno scorso, per esempio, di coprire quasi tutte le spese. 10 anni fa una cosa del genere sarebbe stata impensabile. Se c’era, il fundraising, era soltanto appannaggio di fondazioni ed enti di beneficenza che sopravvivevano grazie a chi in qualche modo si voleva ripulire la coscienza. Negli ultimi dieci, forse quindici anni, la società civile si è trasformata: i progetti in ambito sociale si sono moltiplicati ed è cambiato anche il modo in cui la società stessa li accoglie. 


Per quanto riguarda invece la sua domanda posso dire che, per quanto ho potuto osservare, da sempre sono in atto processi ondivaghi: la società viene colpita e reagisce a un evento preciso, iniziano le proteste di massa e il potere, di contro, risponde, inserendo al contempo nuove regole e aumentando sempre di più il proprio isolazionismo e il divario dalla società. La vicenda degli “agenti stranieri” e delle ONG non gradite non è nata in un giorno, ci è voluto del tempo perché prendesse forza la narrazione dell’Occidente che ci manipola etc. All’inizio veniva soltanto impiegata come pretesto per introdurre nuove leggi, poi qualcuno, a quanto pare, ha iniziato a crederci sul serio. Quest’anno abbiamo potuto constatare con i nostri occhi che non è più una semplice strategia di manipolazione. 


Ci sono stati dei punti di svolta, certo. Ricordo, per esempio, quello che è successo nel 2019, quando il giornalista Ivan Golunov, accusato di traffico di sostanze illegali, era stato prosciolto. Era una storia al limite dell’inverosimile, un chiaro ordine ad personam. Con le elezioni, la reazione è stata di nuovo violentissima e la sensazione era che fossimo arrivati a un punto di non ritorno e che lo Stato avesse scelto la via della violenza. Il 2021, ora lo vediamo, è stato un anno di preparazione a questa guerra: si esercitava già una pressione enorme sui giornalisti, tenuti a rispettare le regole sugli agenti stranieri, la libertà di parola era in grave pericolo, così come lo erano le organizzazioni non governative. Poi c’è stata la persecuzione di Memorial e quella contro di noi. Sono stati momenti precisi intorno ai quali abbiamo anche cercato di costruire una riflessione, con il lancio, quest’estate, del Meccanismo di Mosca nell’ambito dell’OSCE. È un meccanismo secondo il quale un’organizzazione di uno Stato può, in collaborazione con altri paesi, far partire una missione sul proprio territorio o in un altro Paese in merito a problematiche concrete – nel nostro caso, i diritti umani e la pressione sulla società civile. Qualche anno fa c’era stata un’iniziativa simile relativa alla situazione delle comunità LGBT in Cecenia, quando le persone sparivano da un giorno all’altro. Di norma si nomina uno/a specialista che nel giro di qualche settimana deve raccogliere le informazioni e produrre una relazione o un resoconto per tutte le altre istanze coinvolte, proponendo anche alcune raccomandazioni. I rappresentanti del governo russo si sono rifiutati di partecipare alla missione di quest’anno e perciò sono state coinvolte solo le organizzazioni non governative e della società civile. Abbiamo cercato di mettere insieme una gran quantità di materiale recuperato da varie associazioni per mostrare le sempre più gravi violazioni dei diritti umani in svariati ambiti. Il nostro report finale è andato a integrare la relazione dell’esperta nominata, Angelika Nußberger, ex giudice della Corte Europea in Germania, e poi pubblicata sul sito dell’OSCE. Ritengo che possa fornire un’analisi interessante e una riflessione sulla questione dei diritti civili in Russia nell’ultimo decennio.


Con chi lavorate di preciso e come è cambiata la collaborazione in quest’anno di guerra? 


In un modo o nell’altro collaboriamo con chiunque sia attivo nel campo della tutela dei diritti umani. È importante ricordare che non parliamo soltanto di associazioni che si impegnano direttamente nelle battaglie per la libertà di espressione o assemblea, ma di un ampio spettro di organizzazioni che tutelano tutti i diritti civili. Spesso lavoriamo insieme quando si tratta di interagire con istituzioni internazionali. Non si tratta, perciò, soltanto di collaborare con chi offre assistenza legale, anche se è la base del nostro lavoro: collaborare è fondamentale, quantomeno per spartirci bene il lavoro e raggiungere il maggior numero di persone possibile. Quest’anno la situazione è complicata, non lo nego, sia per i volontari che per le organizzazioni. Molte non si trovano più in Russia, così come tanti miei colleghi e io stesso. Per quanto riguarda i volontari, però, posso dire che già prima molti lavoravano fuori dai confini del Paese; pertanto, per molti di loro non c’è stato il trauma dell’emigrazione. D’altro canto, credo che per molte persone sia importante provare a fare qualcosa di sensato in questa situazione e mi piace credere che noi forniamo un’opportunità per farlo. 


Avete un’idea delle persecuzioni politiche che non monitorate direttamente, ovvero di quelle persone che non si rivolgono a voi dopo un fermo o un arresto perché temono di subire conseguenze ancora peggiori?


Ci sono i dati del Dipartimento di giustizia presso la Corte suprema, dove si tiene conto delle inchieste aperte in base ai vari articoli del codice penale e si pubblicano gli esiti delle stesse. È un’ottima fonte per capire le dimensioni del fenomeno, la monitoriamo di continuo. Molti tribunali pubblicano poi informazioni aggiuntive e sono obbligati a tenere dei database sui dossier; in questo modo possiamo farci un’idea abbastanza verosimile di quello che succede. Certo, se l’accusa è, per esempio, di vandalismo, non sempre ne rimane traccia documentale e non è semplice seguire questi casi. È ancora più difficile, invece, riuscire a tracciare un confine netto tra ciò che è persecuzione politica o meno. I problemi nascono anche a seconda del territorio di cui parliamo: non abbiamo bene idea di che cosa succeda in Cecenia, molte persecuzioni avvengono fuori dal sistema giudiziario. Un altro mistero è quello che sta succedendo ora nei territori occupati dall’esercito russo. Quando è in corso un conflitto armato, quando vengono compiuti quotidianamente crimini di guerra, torture e quant’altro, è molto difficile capire quale sia la situazione reale. Per una riflessione seria, quella che cerchiamo di proporre nei nostri report, occorre molta attenzione alla metodologia che si utilizza, perché quel limite di cui parlavo è davvero labile e il concetto di “persecuzione politica” è molto generale. A volte è difficile fare dei distinguo tra la persecuzione politica vera e propria e la comune prassi repressiva del governo russo, rivolta a tutti senza una specifica motivazione ideologica. L’origine di questa sistematica pressione da parte dello Stato non ha sempre radici politiche, è ormai una caratteristica della Russia legata alla mancanza di normali istituti giuridici.


Si sente spesso dire che dopo il crollo dell’URSS, nelle ex repubbliche, le persone che si erano opposte all’ideologia sovietica erano poi entrate in politica, diventando i promotori e i fautori di un cambiamento in senso democratico nei rispettivi paesi. In Russia, invece, qualcosa non ha funzionato. Lo pensa anche Lei e se sì, perché non è successo? 


Probabilmente è vero, ma è la mia opinione personale. Ero un bambino quando è crollata l’Unione Sovietica, quindi, non è facile per me riflettere criticamente su quel periodo. Mi sembra che la Russia non abbia sviluppato una società civile sana, normale, in cui non esistano soltanto organizzazioni impegnate nell’attivismo, ma in cui la società civile stessa sia effettivamente parte integrante del sistema in generale e del sistema legislativo in particolare. La cooperazione tra le istituzioni della società civile e le autorità, a mio avviso, è sempre stata frammentata e spesso fittizia; questo collegamento non c’è stato, il che ha portato, in ultima analisi, alla possibilità che la società civile venisse schiacciata. E questa è certamente una delle cose a cui in Russia, se ci sarà qualche spiraglio di cambiamento, si dovrà subito porre rimedio. Tutt’altra questione è il giudizio sulla perestrojka e sul suo successo reale, ma non vorrei dire banalità a riguardo.


Eppure, se si guarda la questione dal punto di vista della società civile, ecco, mi sembra che in qualche modo abbiamo abbassato la guardia troppo presto e non siamo riusciti a formare una struttura solida e permanente e questo ha portato all’assenza di uno Stato di diritto e a pratiche sempre più repressive: una sorta di legalizzazione dei crimini, non per ultimo anche in questa guerra.


La risposta della società all’aggressione in Ucraina in un Paese con istituzioni della società civile sviluppate sarebbe stata completamente diversa.


Quando la guerra finirà, su quali basi, allora, si potrà ripensare il rapporto tra Stato e società? Come si può innescare un diverso meccanismo di interazione tra i cittadini e il governo, visto che l’attuale dinamica sembra insita nella coscienza della maggioranza dei russi?


Mi sembra che la Russia e la società russa stiano attraversando una catastrofe che non sappiamo dove porterà, ma prima o poi si arriverà a un collasso completo di questo sistema. Le conseguenze potranno essere molto diverse. Ma l’importante sarebbe arrivare a quel collasso capendo di aver commesso noi, come società, questo errore gravissimo, quello di non aver capito l’importanza di avere istituzioni funzionanti. Questo, ovviamente, richiede la presenza del maggior numero possibile di persone istruite che comprendano come tali istituzioni pubbliche possano funzionare e che comprendano, in particolare, ciò che è accaduto in Russia negli ultimi decenni. Lo stesso dovrà accadere anche a livello internazionale e sarà fondamentale perché, qualunque cosa accada, prima o poi le relazioni, al momento totalmente troncate, dovranno essere ripristinate e sarà una sorta di ripristino graduale che sarà accompagnato da diversi cambiamenti. E qui mi sembra che tutti noi dovremmo essere davvero pronti a sfruttare queste situazioni per ottenere un cambiamento reale. Ma finché tutto questo resterà nei desideri di un numero limitato di persone sarà dura. Credo che una delle cose più importanti che dobbiamo fare oggi sia educare le persone a riflettere su quanto accaduto e su come potrebbe apparire in futuro, in modo da evitare simili disastri.


In una recente intervista, Svetlana Alekseevna Gannuškina, direttrice del Comitato di assistenza civica e attivista per i diritti di migranti e rifugiati in Russia, ha parlato di compromessi. Per lavorare nella società civile e aiutare, per esempio, i migranti bisogna pur trovare una lingua comune con le istituzioni e i rappresentanti ufficiali dello Stato.  C’è invece chi pensa che dopo il 24 febbraio non abbia più senso dialogare con un governo che si macchia di crimini atroci e che quindi l’opposizione debba essere totale. Qual è la sua opinione a riguardo e, se i compromessi sono inevitabili, quando ci si deve fermare?  


Bella domanda. Credo di capire bene perché Svetlana Alekseevna dica così: lavora con i rifugiati, e per lei è impossibile evitare il contatto con lo Stato. Per svolgere il suo lavoro non può farne a meno, ma credo che il compromesso sia, in parte, il motivo per cui ci troviamo in questa situazione oggi. Perché tutti noi, non solo come insieme di organizzazioni per i diritti civili, ma come costruzione complessiva della società civile e di tutte le organizzazioni che ne fanno parte, abbiamo permesso che venisse creata una cosa come l’“agente straniero” o le “organizzazioni non grate”? Credo che se avessimo reagito tutti senza paura e senza fare concessioni, la situazione sarebbe stata diversa. Per questo motivo, tutti noi dobbiamo trarre le debite conclusioni e, probabilmente, allargare lo sguardo al quadro generale, senza fermarci alla soluzione di alcuni compiti specifici. Non abbiamo pensato abbastanza alla società come a un costrutto, nella sua globalità, e ci siamo ritrovati nell’abisso più nero. Siamo certamente colpevoli anche di questo, perché siamo stati noi ad averlo permesso. E parte di quella responsabilità ricade su di noi. Per questo motivo cospargerci il capo di cenere non basta, dobbiamo trarre qualche conclusione sensata da tutto questo.

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