Vakulenko e gli altri. Siamo davvero compartecipi del lutto che vive la cultura ucraina?

Alla tragedia delle vite umane spezzate si aggiunge il danno ai beni culturali. In Italia la percezione delle perdite culturali causate dalla guerra è solo parziale.

(di Viviana Nosilia, docente presso l’Università di Padova e socia di Memorial Italia)


16 gennaio 2023 
ore 12:30


La conferma è arrivata il 28 novembre 2022: non ci sono più speranze di trovare in vita lo scrittore Volodymyr Vakulenko, poiché l’analisi del DNA delle spoglie ritrovate in una fossa comune a Izjum – inventariate sotto il numero 319 – ha dissipato ogni dubbio sulla loro attribuzione. Vakulenko era stato prelevato nella propria abitazione il 24 marzo e da allora se n’erano perse le tracce, malgrado gli strenui tentativi dei familiari di ottenere sue notizie. Questa informazione è stata diffusa anche nella stampa italiana. Da questo tragico episodio hanno preso l’abbrivio le riflessioni che espongo di seguito, pensieri che si erano affacciati alla mente già da tempo, ma che si sono raddensati e cristallizzati attorno a questo evento.



Lo scrittore Volodymyr Vakulenko
Lo scrittore ucraino Volodymyr Vakulenko (1972-2022)
(foto di Marija Lysyc’ka-Beskorsa, CC BY-SA 4.0)


Vakulenko (1972-2022) era autore di poesie per l’infanzia molto apprezzate (come la raccolta Tatuseva knyha, ‘Il libro del papà’, del 2014), curava libri per bambine e bambini con difficoltà visive. Non è l’unico intellettuale e artista ucraino ucciso nel corso della guerra. Il PEN Club ucraino pubblica, aggiornandolo periodicamente, un elenco dei rappresentanti culturali morti durante il conflitto. Si tratta di uomini che avevano abbandonato le loro attività per arruolarsi: Serhij Puščenko (1960-2022) e Oleksandr Tarasenko (1960-2022), molto noti e attivi nel campo delle arti figurative, l’attore Pavlo Li (1988-2022), morto difendendo Irpin’, il ballerino Oleksandr Šapoval (1975-2022), noto anche ai mass media italiani, il regista cinematografico Oleh Bobalo-Jaremčuk (1978-2022), morto in battaglia il 20 dicembre. Accanto a loro figurano coloro che sono comunque periti a causa di colpi d’artiglieria o perché travolti dai combattimenti: il ballerino Artem Dacyšyn (1979-2022), la scrittrice Nadija Ahafonova (1978-2022), l’attrice Oksana Švec’ (1955-2022). L’artista Ljubov Pančenko (1938-2022), di anni 84, non è sopravvissuta alle conseguenze dell’assedio di Buča: è morta di stenti e di fame, dopo che per un mese era rimasta sola nella città occupata.


Ci sono poi quelli che sono stati “giustiziati”, uccisi a sangue freddo dagli occupanti. Ha destato particolare scalpore anche in Italia il caso del direttore d’orchestra Jurij Kerpatenko (1976-2022), ucciso brutalmente a Cherson per aver rifiutato di collaborare con gli occupanti. Anche Volodymyr Vakulenko era stato prima perseguitato e poi freddato impietosamente.


Si può continuare a leggere questo triste elenco nel sito del PEN Club ucraino.


Naturalmente ogni vita umana è preziosa, ma nello specifico vorrei concentrare questa riflessione sulla vita culturale di un Paese, al cui sviluppo questi artisti partecipavano attivamente. Al dolore per la perdita di esseri umani si aggiunge quello derivante dalla consapevolezza del venir meno di contributi insostituibili allo sviluppo dell’arte e della cultura ucraine. In Ucraina i tempi non sono ancora maturi per un bilancio di queste perdite (ripetiamo questa parola volutamente). La lotta per la sopravvivenza è un’evidente priorità. Ma quando – speriamo il prima possibile – la guerra sarà finita e si penserà a ricostruire, le loro assenze sul palco, nella buca dell’orchestra, negli atelier rinnoveranno il lutto. Sarà il funereo artiglio della guerra conficcato nella nuova normalità.


Alla perdita di vite umane si accompagnano le distruzioni dei beni culturali. Hanno destato clamore alcuni casi in particolare, come quello del Museo di Archip Kuïndži a Mariupol’, distrutto dalle bombe russe il 20 marzo, o l’incendio del Museo di Storia Locale di Ivankiv, che conteneva una significativa collezione di opere di Marija Pryjmačenko. L’UNESCO sta monitorando, per quanto possibile mentre i combattimenti sono ancora in corso, i danni al patrimonio culturale ucraino. Alla data del 9 gennaio 2023 risultavano danneggiamenti a 234 siti. A questi si aggiungono i saccheggi di opere d’arte da parte dei soldati russi.


Di recente, ha suscitato un moto di unanime orrore il caso del Teatro d’arte drammatica di Mariupol’: bombardato in marzo malgrado la scritta “bambini”, che evidenziava la presenza di civili, è tornato ad attirare l’attenzione verso la fine dell’anno. Le rovine, infatti, sono state delimitate dai russi con una recinzione che recava le effigie di scrittori russi, rappresentanti di una presunta “vera” cultura e in segno di disprezzo per quella ucraina. Successivamente i resti sono stati demoliti.


La comunità internazionale cerca di venire in aiuto dell’Ucraina anche nella sfera della cultura. Sono nate diverse iniziative per il sostegno degli artisti ucraini, come i progetti dell’UNESCO che mirano a consentire la prosecuzione, per quanto possibile, della vita culturale e a sostenere finanziariamente i lavoratori del mondo della cultura che a causa della guerra si sono trovati sprovvisti di mezzi. Anche l’Italia si è impegnata ad aiutare a proteggere le opere d’arte e a ricostruire le sedi danneggiate.


La percezione dell’importanza per la cultura, l’identità, la coesione sociale, l’autoconsapevolezza di una popolazione è diffusa e comprensibile; tutto questo ha suscitato empatia e portato, di conseguenza, a molte – encomiabili – manifestazioni di solidarietà. Ma, nonostante ciò, siamo davvero capaci di essere compartecipi del lutto che sta vivendo il mondo della cultura ucraina? Il lutto scaturisce dalla fondamentale esperienza di una perdita, a partire da quella di una persona cara, ma non solo. Affinché si possa sperimentare una perdita, tuttavia, è necessaria la percezione di un’assenza, di un vuoto. È necessario vivere l’esperienza di una presenza che improvvisamente viene a mancare. Queste considerazioni, forse banali, portano a interrogarsi sul contesto italiano e sul dibattito pubblico che in esso si svolge a proposito della cultura in relazione alla guerra della Federazione Russa contro l’Ucraina.


Se in Italia le notizie riguardanti le uccisione di artisti e la distruzione dei beni ucraini vengono riportate, mentre le riflessioni complessive sono decisamente meno e vengono, a volte comprensibilmente, sovrastate dagli aggiornamenti sul fronte e da resoconti delle tragiche condizioni della popolazione. Eppure, di cultura in rapporto alla guerra si è sempre parlato molto e si continua a parlare: il discorso pubblico ospita, infatti, sin dai primi giorni successivi al 24 febbraio, molte animate discussioni sulla cultura russa. Si tratta di discussioni e contributi molto eterogenei sia per temi, sia per toni. In questo stesso blog sono apparsi numerosi articoli dedicati alla fruizione, responsabilità e comprensione della cultura russa, come quello amaro e disincantato di Michail Šiškin, Essere russi fa male. Delitto e castigo della letteratura russa, giusto per menzionarne uno.


Un altro punto che anima il dibattito pubblico riguarda la presunta “cancellazione della cultura russa”. Questa formula non ci piace particolarmente, ma è quella che ricorre maggiormente nei mass media italiani, così come in quelli della Federazione Russa.


Ora, non interessa qui soffermarsi sui contenuti di questi dibattiti, ma sottolineare un’altra cosa: che quando si parla di cultura con riferimento alla guerra, lo si fa sempre in riferimento alla cultura russa. Quello che si percepisce in molti è un sentimento della perdita non di una cultura in sé, ma di un’immagine che ci si era creati di quella cultura. In una parte degli italiani è come se si fosse generato un piccolo lutto: quello della perdita di un’idea. E si compiono allora tentativi di razionalizzazione, utili a superare lo sgomento. Quale che fosse, l’idea di cultura russa si basava su una frequentazione, un contatto, una familiarità, insomma, una presenza: attraverso l’ascolto della musica, la lettura dei classici, sin dalle antologie della scuola, la fruizione degli spettacoli teatrali… Naturalmente la frequentazione con tutto ciò può essere avvenuta in modi disparati: per alcuni con l’ascolto di composizioni russe durante concerti, per altri con le musiche di Čajkovskij martoriate durante i saggi di danza… La rappresentazione della cultura russa in Italia, al di fuori degli ambienti specialistici, è generalmente legata a un canone che è anche quello considerato in Russia come “grande cultura russa”; è una conoscenza frammentaria e del tutto insufficiente, che meriterebbe di essere molto approfondita. In qualche modo, però, la Russia è presente nella mappa mentale della cultura mondiale, anche quando poi, in realtà, si assiste al fenomeno di chi denigra Dostoevskij senza nemmeno averlo letto.


All’Ucraina, invece, non si associa alcun senso di perdita analogo e paragonabile. Ci si rende conto, infatti, solo ora del suo patrimonio culturale, guardando le immagini dei siti distrutti. I sentimenti che percepiamo nei più non sono di perdita. Non c’è un tormento interiore, una messa in discussione di un’idea preesistente… non c’è nessuna idea. Nessuna associazione. Per gli intellettuali periti si prova un senso di cordoglio, certo, d’indignazione, anche, per la fine di una vita umana, per lo più in circostanze così terribili, disumane. Ma non si esperisce il lutto.


Può sembrare molto strano affermare ciò in un momento di bulimia di iniziative culturali riguardanti l’Ucraina, che pare onnipresente nelle fiere librarie, nelle sedi espositive, finanche negli scaffali delle librerie o nelle aule universitarie, dove si organizzano lezioni e seminari. Sono tutte iniziative meritorie e assolutamente necessarie, che però non riescono a nascondere un problema di fondo: sono tutte nate dopo il 24 febbraio 2022. E prima? Prima la storia della cultura ucraina nella mappa mentale del nostro italiano medio era la storia di un’assenza. E non si può provare un senso di lutto, di perdita, per ciò che non si è mai posseduto. Possono nascere sentimenti diversi, come la curiosità, che è quello che sta succedendo ora, ma il lutto no.


Non che l’Ucraina fosse assente dal panorama culturale italiano. Dato però che la sua storia come stato indipendente è relativamente recente, mancava la consapevolezza della specificità di questa cultura all’interno dell’Impero Russo o dell’Unione Sovietica. Quando la Federazione Russa si è presentata come erede di quest’ultima anche sul piano culturale, oltre che su quello dei trattati internazionali, nella percezione comune è stato definito “russo” ogni prodotto artistico di quell’epoca.


Nel campo della letteratura, che è quello più spesso menzionato nel dibattito pubblico, negli ultimi tempi sono uscite diverse traduzioni italiane di scrittori ucraini, ma quanti saprebbero rispondere se fosse chiesto loro di menzionarne uno? Certo, in linea di principio tutti sono disposti a riconoscere che la cultura ucraina va preservata, è importante, ma quanti poi ne conoscono, in concreto, almeno una parte? E quanti sono in grado di comprendere che anche scrittori ucraini che compongono le loro opere in russo, come Aleksej Nikitin, non per questo sono da collocare automaticamente nel novero degli autori russi?


Il fatto è che le possibilità di conoscere la cultura ucraina negli ambienti che creano conoscenza sono veramente poche. Sarebbe interessante verificare quanto si parla di Ucraina nei libri di testo, quanti autori ucraini sono rappresentati nelle antologie scolastiche. E quanto è rappresentata questa cultura nelle università italiane? Al 24 febbraio 2022 l’unica sede universitaria italiana dove, all’interno di un corso di studi avente per oggetto le lingue straniere, fosse possibile, analogamente a quanto avviene per le altre culture, a cominciare da quella russa, completare un corso di studi quinquennale che permettesse di specializzarsi in ucraino, è la Sapienza, dove insegna Oxana Pachlovska; presso l’Università Statale di Milano è possibile inserire un corso di Lingua e letteratura ucraina da 60 ore all’interno del proprio percorso individuale di studi. Questo per l’intera Penisola. Dopo il 24 febbraio nuovi corsi sono stati aperti, ma sempre come singoli esami, perché in definitiva non si ritiene necessario investire troppe risorse per la comprensione di una cultura che oggi è al centro di processi che forse ridefiniranno molti fondamenti dell’ordine mondiale. Ma quante possibilità ci saranno domani per un loro consolidamento?


Ciò comporta una serie di conseguenze non di poco conto. È all’interno dei corsi di laurea in lingue che si formano traduttori e mediatori, figure delle quali si è avvertita drammaticamente la carenza con l’afflusso di profughi dall’Ucraina. La convinzione che non servisse studiare l’ucraino perché comunque conoscere il russo sarebbe stato sufficiente si è sgretolata di fronte alla realtà. È sempre all’interno di questi corsi che si fa conoscere la letteratura, non solo in traduzione, ma anche nell’originale. L’accesso alla produzione letteraria di autori ucraini nella maggior parte dei casi era limitato solo agli autori russofoni, dato che il russo è studiato a livello universitario. Ma ciò diffonde la percezione che la produzione scritta in ucraino sia irrilevante, non artisticamente significativa, il che coincide con la narrazione “grande-russa” sulla letteratura ucraina, dai tempi degli zar. Così come esistono anglisti, francesisti o russisti, si formano anche ucrainisti. Solo che questi ultimi sono pochissimi, non trovano opportunità di lavoro nell’accademia, sono talvolta costretti ad adattarsi a insegnare altro. La carenza di voci davvero competenti nella storia e nella cultura di questo paese si è sentita molto nel dibattito pubblico. I pochi specialisti sono stati costretti a tour de force mediatici, nel migliore dei casi; nel peggiore, a parlare sono state persone che di quello Stato non si erano mai interessate prima.


In sostanza, l’Ucraina quasi non ha una sua voce nell’accademia italiana. Ciò equivale ad avvalorare la tesi per cui sull’Ucraina di per sé non sia necessario sapere niente, che tutto ci può venire spiegato da altri soggetti, da altre voci.


Uno dei problemi che hanno portato a ciò è l’orientamento aziendalistico generalizzato dell’università attuale, che si orienta con logiche di mercato verso corsi con grandi numeri di studenti. Il poco spazio dedicato all’Ucraina nel discorso pubblico italiano, nella convinzione dell’irrilevanza economica e politica di questo Stato – convinzione anch’essa crollata dopo il 24 febbraio 2022 –, di certo non incentiva i giovani a scegliere di dedicare tempo ed energie a studiarne la cultura.


Usciamo dall’accademia e prendiamo il caso della presenza di autori ucraini nel mercato editoriale italiano: solo Andrej Kurkov e Jurij Andruchovyč hanno ottenuto una certa celebrità, ma non tutta la loro produzione letteraria è tradotta e le case editrici che hanno le loro opere in catalogo, benché meritorie, non sono fra quelle che dominano il panorama editoriale italiano. Abbiamo potuto apprezzare alcuni romanzi e poesie di Serhij Žadan, grazie agli editori CastelvecchiVoland e Elliot. Solo grazie a Pentagora Edizioni possiamo leggere Il principe giallo di Vasyl’ Barka, un romanzo sconvolgente sullo Holodomor. Ci sono state poi raccolte antologiche, come quella di racconti di scrittrici ucraine contemporanee pubblicata da Besa Muci. Bisognava però aspettare lo scoppio della guerra perché una delle case editrici più grandi, Mondadori, commissionasse un’antologia di poesia ucraina da pubblicare a tempo di record (se ne è già parlato anche in questa sede). Si sono susseguite diverse pubblicazioni di letteratura ucraina o dedicate all’Ucraina, di natura e qualità molto varie, ma questa sovrabbondanza concentrata in un periodo così breve non rende la cultura ucraina una presenza costante, non può in alcun modo compensare anni di esistenza ai margini.


Di fronte a questa situazione, non meraviglia, quindi, che il senso di perdita, di lutto, non sia un concetto adeguato a descrivere il discorso pubblico italiano nei confronti della distruzione del patrimonio culturale ucraino. Semplicemente manca la consapevolezza che ci fosse qualcosa da perdere. Si dirà che non è il caso di drammatizzare, che si tratta solo del cruccio di uno sparuto gruppuscolo di intellettuali ipersensibili. Peccato che non sia del tutto così. Questa pressoché totale assenza della cultura ucraina prima del 24 febbraio ha aiutato moltissimo la diffusione e l’accettazione di narrazioni scritte da altri, false, senza che ci fossero “anticorpi” per poterle contrastare. L’efficiente propaganda di Mosca ha avuto vita facile, se si considera l’accettazione delle tesi del Cremlino sulla Rivoluzione della Dignità e sulla Crimea negli anni 2013-2014. Ha fatto comodo allora credere che nel Donbas non ci fosse nulla da difendere, che si stesse ricostituendo una sorta di “ordine naturale”. Ma le conoscenze che si possiedono sono importanti anche nel guidare le nostre scelte, dall’ambito personale a quello politico. In altre parole, se qualcosa non esiste nel mio orizzonte mentale, allora non è significativo, tutto ciò che ne sento raccontare è vero e se ne può fare ciò che si vuole.


Tuttavia, nel dibattito sulla cultura in relazione alla guerra, questa “storia di un’assenza”, questa mancata conoscenza del contesto ucraino non suscita interrogativi, non porta nessuno a farsi domande sulle ragioni del fenomeno. Non ci s’interroga sui motivi di una tale sconvolgente vulnerabilità rispetto alle narrazioni fabbricate al Cremlino, l’accettazione delle quali, in alcuni casi, si possono spiegare con orientamenti ideologici, ma non in tutti. Silenzio. Nel dibattito sulla cultura la voce dell’Ucraina viene riportata – con un certo fastidio – solo quando il discorso verte… sulla cultura russa, con la preoccupazione principale di tutelare la cultura russa, che è l’unica ad avere diritto di cittadinanza nel nostro orizzonte mentale. L’unica di cui potremmo avvertire la mancanza. E non stiamo facendo nulla perché in futuro la situazione non si ripeta, non ci stiamo interrogando sulle nostre responsabilità, per la nostra visione orientalizzante di tutta una parte d’Europa che ha scelto l’indipendenza (il riferimento è non solo all’Ucraina, ma a tutta quella che ancora viene definita “Europa dell’Est”). Non ci sembra un problema se il mondo 30 anni fa è cambiato e noi continuiamo ad applicare schemi interpretativi risalenti a mezzo secolo fa. Al di là di una reazione di solidarietà umana, di fatto rischiamo di condannare l’Ucraina di nuovo al silenzio sul piano della vita culturale e accademica, pronti a relegarla a una condizione di quasi totale assenza una volta che sia finita questa sanguinosa guerra. Così potremo tornare tranquillamente ai nostri schemi mentali vetusti, così semplici e rassicuranti, che saremo fieri di avere trasmesso così fedelmente anche alle generazioni future.


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