I Want to Live. Il progetto ucraino per la resa dei militari russi, “4.000 richieste in tre mesi”

Intervista al portavoce Vitalij Matvienko: “Spesso gli uomini hanno paura a chiamare, lo fanno i parenti"... "All’inizio erano ben equipaggiati, ora si lamentano delle dotazioni scarse"... "Il trattamento dei prigionieri in Ucraina è abbastanza umano, nonostante siano venuti a uccidere i nostri figli e le nostre donne”.


14 gennaio 2023 
ore 15:35


Vitalij Matvienko è il portavoce del progetto ucraino “I Want To Live” (“Voglio vivere”) che aiuta i militari russi ad arrendersi. Ecco come funziona. Il testo originale dell’intervista è stato pubblicato il 25 dicembre scorso da Meduza che ringraziamo per la gentile concessione a pubblicare la traduzione di Elda Garetto ed Ester Castelli.




A metà settembre, subito prima che in Russia iniziasse la mobilitazione, il governo ucraino lanciò il progetto “Voglio vivere. Centro unico di raccolta delle dichiarazioni di resa dei soldati russi in territorio ucraino”. Stando alle parole del Centro, i militari russi in Ucraina possono chiamare un call center e arrendersi spontaneamente. Il sito di informazione bielorusso “Zerkalo” [Specchio] ha chiesto al portavoce del progetto, Vitalij Matvienko, notizie sui russi che si arrendono, su come vengono trattati e la loro sorte; ha inoltre autorizzato Meduza a pubblicare l’intervista.


Descriva la tipologia di chi vi contatta.


Si tratta di uomini tra i 25 e i 40 anni, con famiglia, una certa esperienza lavorativa o nel commercio, cioè, con una fonte di reddito. Nella maggior parte dei casi hanno fatto il servizio militare, ma non vogliono andare in guerra a uccidere o essere uccisi o restare invalidi. Persone del genere seguono un piano e una logica precise per arrendersi ed evitare di combattere.


Che domande fanno queste persone, che cosa le spaventa di più?


All’inizio chiedevano se non fosse un fake o una trappola dell’FSB. Chiedevano se si trattasse veramente di un programma governativo. Molti erano diffidenti. Adesso queste telefonate sono diminuite perché il progetto è conosciuto e noi disponiamo di risorse governative. Stanno tutti, ovviamente, attenti alla propria sicurezza, temono che le informazioni arrivino ai servizi russi con le conseguenze del caso.


Dopo l’inizio dell’arruolamento è aumentato il numero di richieste?


Sì. Noi abbiamo cominciato a lavorare il 18 settembre, alla vigilia della mobilitazione e abbiamo dovuto aumentare il numero di linee telefoniche e di operatori: il numero di chiamate aumentava, la gente era spaventata, non voleva andare a combattere.


Quante telefonate e richieste ricevete al giorno da parte di russi che vogliono essere fatti prigionieri?


In media, tra tutti i canali (chatbot, Telegram e telefonate), da 50 a 100 richieste al giorno. Nella maggior parte dei casi si tratta, come diciamo noi, di una “resa preventiva”. Cioè sono gli stessi interessati o i loro familiari a telefonare per chiedere come fare e questi casi sono abbastanza numerosi. Alcuni telefonano dalla Bielorussia per chiedere informazioni per conto di figli o nipoti che vivono in Russia e sono soggetti alla mobilitazione. Chiamano anche dall’Ucraina o da altri paesi, sempre per conto di parenti russi. Chiamano dai territori occupati, anche dalla Crimea, dove è in corso una vasta campagna di arruolamento di giovani. Alcuni vogliono solo capire come funziona e non intendono arrendersi. Prima di essere inviati al fronte possono chiamare per registrarsi, poiché dopo si riducono sensibilmente le possibilità di comunicare: sono sorvegliati, vivono in squadre/gruppi militari dove non ci si può fidare e spesso gli requisiscono i cellulari. Per questo consigliamo a tutti di procurarsi delle sim e telefoni a tastiera, che mantengono la carica a lungo, di nasconderli e memorizzare il nostro numero.


Siete già stati contattati da ucraini, arruolati nelle zone occupate, dove sono stati condotti i referendum? In quelle zone la gente è molto preoccupata e dice che periodicamente vengono arruolate persone.


Sappiamo che i russi si preparano ad arruolare ucraini da varie zone occupate, come già avviene nelle regioni di Donec’k e Luhans’k.


Quanto spesso vi chiamano da quelle zone persone già arruolate e mandate al fronte?


Noi le consideriamo chiamate dall’Ucraina. Spesso gli uomini hanno paura a chiamare e sono i parenti a telefonarci: le mogli per i mariti, i genitori per i figli, le zie per i nipoti. Abbiamo delle statistiche, ma non le pubblichiamo. Comunichiamo solo i dati complessivi: dal 18 settembre al 7 dicembre abbiamo ricevuto più di 4000 richieste. 


Considerate traditori i residenti delle repubbliche autoproclamate di Luhans’k e Donec’k che sostenevano la guerra e combattevano ma poi sono stati fatti prigionieri?


Non possiamo commentare. Il coordinamento organizza solo l’attività di scambio e di resa. Poi se ne occupa un’altra giurisdizione.


E i russi come riescono ad avere informazioni su di voi, visto che il vostro sito in Russia è oscurato?


Quando stavamo lanciando il progetto sapevamo che il Roskomnadzor [il Servizio federale per il controllo dei media, N.d.R.] poteva bloccare il sito. Quando è successo non è stata una sorpresa. Sappiamo che ci conoscono e ci considerano una minaccia. Ma abbiamo molte risorse: in Russia si usano le reti VPN, non è un problema. Inoltre, la rete Telegram è accessibile, e lì abbiamo costruito la nostra strategia fin dall’inizio, abbiamo circa 40 mila abbonati e il numero continua ad aumentare. Inoltre, la gente si scambia informazioni, nel caso in cui falliscano tutte le possibilità di evitare l’arruolamento e non si riesca a uscire dalla Russia. Di fatto noi rappresentiamo per loro l’ultima chance di sopravvivenza e loro vi si aggrappano.


Qual è la percentuale di coloro che si arrendono dopo essersi rivolti a voi?


Sono dati riservati, non li diffondiamo.

I russi che si dichiarano prigionieri lo fanno per non essere uccisi o perché non vogliono uccidere?


Sostanzialmente non vogliono morire o restare invalidi: quanti russi vediamo tornare senza braccia o gambe. Saranno invalidi a vita. E questo per qualcuno è anche peggio della morte. Ma quando telefonano non rivelano certo le loro debolezze, sono uomini! Poi dipende dai casi: alcuni piangono, si confidano con gli operatori telefonici e iniziano le consulenze psicologiche. Ma la maggior parte dichiara di non volersi macchiare le mani di sangue.


Si arrendono anche i comandanti?


In alcuni casi ci ha telefonato il comandante dal fronte per dire che intendeva arrendersi insieme a tutto il reparto. È successo anche questo.


E alla fine si sono arresi?


No comment.


Ci sono spie e sabotatori che cercano di infiltrarsi?


Sarebbe uno strano sistema di spionaggio, perché chi si arrende è controllato molto da vicino e non potrebbero acquisire più informazioni rispetto a chiunque si trovi in territorio ucraino.


Ma potrebbero mandare qualcuno che, una volta fatto prigioniero, si metta a sparare ai vostri…


Certo, calcoliamo questi rischi e infatti alle operazioni partecipano dei professionisti. Inoltre, utilizziamo tecnologie innovative. In alcuni casi ci siamo serviti di droni: il drone individua la persona in un luogo prefissato e questa lo segue per raggiungere un luogo più sicuro per le nostre squadre.


Vi sono capitati anche detenuti russi arruolati nelle prigioni?


Cerchiamo di chiarire: soggetti del genere non si rivolgono a noi. Sono arruolati da Prigožin [oligarca e imprenditore russo vicino a Putin e fondatore del gruppo paramilitare russo Wagner, N.d.R.], che propone loro certe condizioni e se accettano firmano un contratto. Però non hanno in mano nessun documento e neppure mezzi di comunicazione. Vengono trasportati vestiti da carcerati nei centri di addestramento, dove ricevono una divisa, le armi e iniziano l’addestramento. Non hanno alcun modo di comunicare e quindi la maggioranza non può contattarci. Vengono mandati nei punti più caldi, con il divieto di arretrare, altrimenti li “annullano” come dicono loro. Se vengono fatti prigionieri succede quasi sempre durante i combattimenti.


Questi detenuti conoscono i piani del comando della Russia su di loro? Da chi prendono ordini?


Ai detenuti arruolati nella Wagner non vengono dati obiettivi strategici. Solo compiti molto semplici e concreti; ad esempio: un gruppo di una decina di persone deve occupare una certa area di foresta o raggiungere un certo punto. Non comprendono gli obiettivi generali e per questo tra loro ci sono molte vittime. Li prendono per buttarli in prima linea, dove muoiono, dopo aver conquistato un pezzetto di territorio. È una macchina per eliminare i detenuti. I militari di professione stanno più indietro, la loro vita è meno in pericolo.


Quanti soldati arruolati con la mobilitazione sono già stati fatti prigionieri?


Per la loro sicurezza non riveliamo questi dati.


Che tipo di equipaggiamento hanno, sono abbastanza preparati, che cosa vi dicono loro?


All’inizio c’erano reparti ben equipaggiati, ora è molto peggio. Si lamentano delle dotazioni scarse. Hanno caschi metallici, vecchie scorte. I nostri soldati si mettono a ridere.


In quali condizioni sono detenuti i prigionieri russi?


L’Ucraina garantisce il trattamento previsto dalla Convenzione di Ginevra, ne rispettiamo tutte le regole. Cosa di cui non può certo vantarsi la Russia. Secondo le norme, il luogo di detenzione deve essere distaccato da quelli di reclusione per reati penali. In Russia questa norma viene spesso violata e i nostri prigionieri vengono detenuti insieme ai criminali comuni. In Ucraina c’è un carcere per i prigionieri di guerra, è aperto dalla scorsa primavera per tutti i prigionieri, non solo per quelli del progetto «Voglio vivere». Facciamo ispezioni periodiche, portiamo i giornalisti, arrivano regolarmente i rappresentanti della Croce Rossa. E insistiamo per ottenere condizioni analoghe anche per gli ucraini prigionieri in Russia. Nel nostro carcere ci sono condizioni ottimali: locali asciutti e riscaldati, un ambulatorio medico ben attrezzato, i prigionieri vengono curati, sono permesse le uscite all’aperto, le telefonate ai familiari, cibo a sufficienza e tre pasti al giorno. È lo stesso cibo dei militari ucraini, che può mangiare anche il personale delle commissioni: non è una messinscena. Nessuno di loro ha una distrofia paragonabile a quella dei soldati ucraini dopo la loro liberazione. E tutti, anche quelli che si sono arresi, vengono registrati come soldati catturati in combattimento. Così, se vogliono far parte di uno scambio di prigionieri e tornare in Russia, nessuno li potrà perseguire. E possono essere scambiati anche coloro che qui potevano essere condannati per qualche reato.



Le condizioni di quelli che si sono consegnati e di quelli che sono stati catturati in combattimento sono diverse?


Bisogna intendersi sul concetto di consegnarsi. Parliamo di persone che ci hanno contattato, ci hanno detto per filo e per segno chi sono, hanno fatto tutta una serie di cose con l’obiettivo di consegnarsi volontariamente. Ad esempio, un soldato ha percorso 40 chilometri a piedi fino al punto in cui è stato prelevato. In poche parole, ha agito consapevolmente, ha seguito un piano d’azione concordato con noi. E volontariamente. Questi prigionieri hanno dei vantaggi. Ad esempio, se non vogliono tornare in Russia in seguito allo scambio, possono rimanere da noi e ottenere asilo in Ucraina o in un paese europeo. Consideriamo invece un’altra situazione. C’è un combattimento, qualcuno finisce le munizioni e si arrende. Oppure lo hanno tirato fuori dal seminterrato dove si nascondeva. E una persona del genere dice: “Mi sono arreso volontariamente”. È falso. Queste persone sono considerate prigionieri di guerra. Sono trattati come soldati che hanno combattuto, ma non possono godere di ulteriori privilegi. Non possiamo rivelare esattamente in che termini, ma comunque il trattamento è diverso. Anche loro stanno al caldo, sono nutriti il giusto e ricevono le cure mediche necessarie, ma, è chiaro, la loro è una situazione diversa. Comunque garantiamo loro, come a tutti i prigionieri di guerra, i diritti della Convenzione di Ginevra.


Sui media russi scrivono che chi è stato tenuto prigioniero in Ucraina si lamenta delle condizioni di detenzione. Alcuni dicono che ci sono le prigioni di “rappresentanza” che si mostrano alla Croce Rossa e ai giornalisti, e ci sono altre carceri dove i detenuti sono nutriti male e subiscono percosse (i media ufficiali russi pubblicano spesso storie così, ma lo fanno anche i media indipendenti, per esempio Sever.realii).


In primo luogo, prima della prigione ci sono dei passaggi intermedi. In secondo luogo, posso testimoniare che la direzione, quando ero stato di persona in una prigione, si era molto offesa nel sentire i prigionieri di guerra, rientrati dopo lo scambio, dichiarare alla TV russa di essere stati derisi e costretti ad accovacciarsi sulle gambe. Da noi parlavano in un modo, alla TV in un altro. Lo constatiamo ogni volta: dopo uno scambio, i prigionieri dicono esattamente quello che il nostro nemico vuole farci sentire. Non ci fidiamo delle loro dichiarazioni. Arrivano di continuo nuovi gruppi di prigionieri e constatiamo che nessuno di loro viene picchiato o, meno che meno, mutilato: hanno ferite da mine dal campo di battaglia. Le organizzazioni internazionali ne sono ben consapevoli.


I prigionieri di guerra lavorano durante la detenzione?


Sì. Stando alla Convenzione di Ginevra, solo gli ufficiali possono rifiutarsi di lavorare. Nel campo di prigionia ci sono laboratori dove i detenuti lavorano il legno e realizzano cose utili, perché l’Ucraina spende soldi per loro e loro, in qualche modo, devono ripagarla. Ricevono un compenso per il loro lavoro. Sì, è poco, ma è garantito: in conformità alle regole della Convenzione di Ginevra, il loro stipendio giornaliero è di circa 10 grivne [circa 25 centesimi di euro, N.d.R.]. Possono spendere questi soldi in sigarette, in generi alimentari o per parlare più a lungo al telefono. La telefonia mobile è a pagamento, se vogliono parlare più a lungo con i loro parenti, pagano per le chiamate a casa. Ma se non hanno i soldi sul conto, paga lo stato.


Con quale frequenza possono chiamare casa?


In teoria possono chiamare ogni giorno per un massimo di 15 minuti per volta. Ma poiché ci sono molte persone e una sola linea, ci sono liste di attesa e dipende dalla gente in coda. Non so dirlo di preciso, ma credo che chiamino casa di sicuro più di una volta al mese.


Abbiamo molte prove delle condizioni pessime degli ucraini detenuti in Russia, di quanto siano deperiti all’uscita dalle carceri, abbiamo sentito le loro storie raccapriccianti. Pensa che qualcosa di simile potrebbe accadere ai prigionieri russi in Ucraina?


L’Ucraina è un Paese democratico e rispetta tutte le convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra. I prigionieri vivono in condizioni normali, cosa che di certo non si può dire dei prigionieri ucraini in Russia.


Quando vedete tutto l’orrore, come i vostri uomini e le vostre donne sono trattati durante la prigionia – come a Elenovka – non vi risulta difficile avere a che fare con i russi vostri prigionieri? Non proiettate su di loro le esperienze dei prigionieri ucraini?


La nostra società è diversa e noi siamo persone diverse. Quando vediamo [i prigionieri di guerra russi] da vicino, ci rendiamo conto subito che sono solo persone intimidite, non consapevoli di sé, che vivono in un sistema totalitario. E a prescindere da quanto siano favorevoli a Putin (e molti di loro mantengono sempre una posizione di sostegno alla guerra perché sono cresciuti con questo input, sono comunque ancora fascisti russi)  ci rendiamo conto che forse non hanno nemmeno avuto l’opportunità di fare una scelta diversa. Quindi non si tratta di sfogare la rabbia. Credo che le forze armate ucraine la sfoghino già molto bene. E quando i russi vengono catturati, la minaccia da parte loro cessa di esistere, non c’è bisogno di “sfogarsi”. Siamo una nazione europea. Otteniamo aiuti internazionali anche perché siamo diversi e dimostriamo la nostra adesione al diritto e alle leggi internazionali. I prigionieri russi vengono trattati in base al loro status e in più occasioni ho osservato che l’atteggiamento verso di loro è abbastanza umano, nonostante siano venuti qui a uccidere le nostre donne, i nostri bambini e a distruggere le nostre case. Scambiamo i nostri ragazzi e le nostre ragazze per loro.


Sono molti i prigionieri di guerra che vogliono rimanere in Ucraina dopo la guerra o anche ora e rifiutano lo scambio con la Russia?


Ce n’è un po’. C’è stato il caso di una telefonata dalla Russia, prima della mobilitazione, una persona si era resa conto che la chiamata alle armi era imminente: i nostri operatori del call center hanno parlato a lungo con lui che piangeva: “Voglio arrendermi. Non voglio tornare indietro, voglio diventare ucraino”. Era un uomo adulto, intelligente e realizzato, eppure questo era il suo desiderio. Non possiamo fornire statistiche sui prigionieri dei campi di prigionia, ma la maggior parte di quelli con cui abbiamo parlato vogliono ritornare a casa perché là hanno la famiglia e un lavoro a cui tengono. La percentuale di quelli che vogliono rimanere qui è molto più bassa.


Che cosa faranno quelli che vogliono rimanere nel vostro Paese se vengono rilasciati? E come pensa che gli ucraini li tratteranno? Sono comunque dei russi che portavano l’uniforme…


Se un russo che vuole restare non è stato coinvolto in crimini di guerra e non ha ucciso, se si è arreso nell’ambito di un programma statale, c’è la possibilità di ottenere asilo in Ucraina e di lavorare. Come verrà trattato? Penso che saranno magnanimi e comprenderanno le sue motivazioni e terranno conto che non si è macchiato di sangue. Gli ucraini sono abbastanza tolleranti nei confronti di quelli che non vengono da noi con le armi e non hanno intenzione di uccidere, stuprare e rapinare. Le persone che ci rispettano, e rispettano i nostri valori, la nostra cultura e la nostra lingua non sono mai sotto minaccia. Credo che non ci sarebbero problemi.


Spesso gli ucraini dicono che non esistono russi buoni.


Questo è un discorso diverso: parliamo di liberali russi, a quanto ne so. Sono situazioni diverse. Ci sono anche russi che si sono trasferiti in Ucraina tempo fa e hanno imparato la lingua. Stiamo parlando di quei “buoni russi” che si limitano a dichiarare le loro differenze, ma che in realtà sono impregnati di imperialismo, che alla fin fine spunta fuori.


Volevo chiederle di Evgenij Nuz̆in [mercenario russo ucciso a martellate dalla Brigata Wagner dopo essere stato prima catturato e poi rilasciato dagli ucraini, N.d.R.], ma dalle sue risposte è chiaro che la domanda non è opportuna.  È un argomento che possiamo toccare?


Nuz̆in non è stato fatto prigioniero attraverso il programma «Voglio vivere». Non si è arreso volontariamente. Di conseguenza, non possiamo fidarci delle sue dichiarazioni in Russia. Sono tutte assolutamente tendenziose. Non possiamo neanche fidarci delle interviste che ha rilasciato qui, perché qui i prigionieri dicono una cosa, ma i media russi la trascrivono diversamente. Sì, dobbiamo capire che cosa sta succedendo. A nostro parere lo hanno ucciso per screditare il programma di resa volontaria che lo stato ucraino sta portando avanti. Hanno cercato di far credere che quest’uomo si fosse arreso volontariamente: vogliono far credere che sia stato rilasciato e rapito successivamente da noi per poterlo punire. In realtà le cose non sono andate così. Certo, ci si chiede come faccia la Russia a uccidere i suoi cittadini senza nemmeno un processo. Quest’uomo aveva accettato lo scambio, quello che gli è successo dopo, è responsabilità della Russia.


Perché l’Ucraina ha consegnato un prigioniero della Wagner alla Russia? Non si rendeva conto che ci sarebbero state rappresaglie per lui, una volta tornato in Russia?


La Russia è membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha un presidente, dei tribunali, delle forze dell’ordine, e questo non sarebbe dovuto accadere. Ma, in Russia, capitano cose indicibili. Chiediamo alla comunità internazionale di tenere sotto controllo il destino dei prigionieri di guerra che vengono restituiti alla Russia come scambio.


Ci sono scambi continui di prigionieri di guerra. È a conoscenza di casi in cui persone che hanno rilasciato interviste in pubblico sono state poi brutalizzate e imprigionate?


No.


La situazione con Nuz̆in ha influito sul numero di telefonate che ricevete da parte dei russi?


Non abbiamo registrato nessun cambiamento.


Nelle interviste precedenti ha detto che i russi hanno smesso di dire che non avevano capito dove stessero andando. Voi lavorate con loro ormai da tempo: credete a quello che vi dicono, alle loro scuse del tipo “avevo paura, non volevo”?


I primi giorni di guerra ci era sembrato plausibile. Ma ora, e l’esperienza lo dimostra, anche chi è stato in carcere è abbastanza informato su quello che sta succedendo. Tutti sono al corrente di tutto. Anche se ora non dicono più cose del genere.


Ci sono ancora storie e video in cui i militari russi si sorprendono della presenza di strade e infrastrutture moderne in Ucraina. C’è ancora questo senso di sorpresa tra i russi che tutto vada bene nei villaggi e nelle città ucraine?


La sfilza di elettrodomestici, che dall’Ucraina passa, tra l’altro, per la Bielorussia, credo abbia dimostrato qualcosa. È chiaro ormai che gli ucraini non vivono peggio, ma anzi vivono spesso molto meglio dei russi, nonostante tutta la propaganda sul paese prospero, ricco di petrolio, di gas… Noi non avremo queste materie prime, ma loro capiscono benissimo, e l’abbiamo intuito dai loro scambi, che: “Vivono meglio di noi, e probabilmente stanno combattendo per questo”.


In questi mesi, qualcuno è capitato qui più di una volta?


È capitato che uno dei nostri prigionieri sia stato scambiato. L’hanno mandato di nuovo a combattere in Ucraina ed è stato ucciso in uno scontro. Ora, nello scambio con la Russia, diamo alle persone anche dei biglietti da visita con il numero della hotline «Voglio vivere». Certo, molti di loro, lo sappiamo, i russi li spingono di nuovo in questo tritacarne. Se vogliono essere “catturati”, sanno già come stanno le cose, possono benissimo contattarci e arrendersi volontariamente una seconda volta.


Vi sono capitati bielorussi? Purtroppo, sappiamo che alcuni sono venuti a combattere a fianco della Russia…


Ci è capitato di ricevere chiamate che provenivano dalla Bielorussia e si trattava perlopiù di russi fuggiti dalla mobilitazione. Per quanto riguarda la sua domanda nello specifico non posso rispondere: sono dati che non abbiamo.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Milano, 16 e 17 novembre 2024. Memorial Italia a BookCity Milano.

Memorial Italia partecipa all’edizione 2024 di BookCity Milano con la presentazione degli ultimi due volumi delle collane curate per Viella Editrice e Guerini e Associati. L’involuzione della Russia putiniana: sabato 16 novembre alle 14:30 presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, sala lettura (viale Pasubio, 5) sarà presentato il volume Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società, opposizione, ultima uscita della collana storica curata da Memorial Italia per Viella Editrice. Intervengono Alberto Masoero, Niccolò Pianciola e Anna Zafesova. Riunendo contributi di storici e scienziati sociali, il volume esplora l’evoluzione della società e del regime russo nell’ultimo decennio, segnato dall’aggressione all’Ucraina iniziata nel 2014 e continuata con la guerra su larga scala a partire dal 2022. I saggi mettono a fuoco la deriva totalitaria del sistema di potere putiniano, analizzando le istituzioni dello stato e le loro relazioni con la società russa, evidenziando come crisi demografica, politiche nataliste e migratorie abbiano ridefinito gli equilibri sociali del paese. Inoltre si concentra sulle sfide che dissidenti, intellettuali, artisti, giornalisti, accademici, minoranze e difensori dei diritti umani affrontano in un contesto sempre più repressivo. Donne nel Gulag. L’universo femminile nel mondo concentrazionario sovietico: domenica 17 novembre alle 15:30 presso Casa della memoria (via Confalonieri 14) sarà presentato il volume La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956, ultima uscita della collana Narrare la memoria curata da Memorial Italia per Guerini e Associati. Intervengono Luca Bernardini, Marta Zagórowska e Barbara Grzywacz. L’esperienza concentrazionaria, raccontata in una prospettiva di genere, offre al lettore una nuova ottica di valutazione della memoria storica. Nella sua intensa, dettagliata testimonianza Anna Szyszko-Grzywacz, detenuta politica, reclusa per undici anni nel terribile campo di Vorkuta, ripercorre il suo vissuto personale, raccontando non solo l’orrore e la brutalità della quotidianità del lager, ma anche momenti di gioia e solidarietà femminile e piccole, coraggiose strategie di resistenza.

Leggi

Verona, 14 novembre 2024. Il caso Sandormoch.

Giovedì 14 novembre alle 16:00 nell’aula co-working del dipartimento di lingue e letterature straniere dell’università di Verona la nostra presidente Giulia De Florio terrà il seminario Riscrivere la storia, proteggere la memoria: il caso di Sandormoch. Giulia De Florio e Andrea Gullotta hanno curato per Stilo Editrice la traduzione italiana del volume Il caso Sandormoch: la Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige, presidente di Memorial San Pietroburgo. Del volume hanno voluto parlare Martina Napolitano, Stefano Savella, Francesco Brusa e Maria Castorani. Nell’immagine il monumento in pietra presente all’ingresso del cimitero di Sandormoch sul quale si legge l’esortazione “Uomini, non uccidetevi”. Foto di Irina Tumakova / Novaja Gazeta.

Leggi

Pisa, 8-29 novembre 2024. Mostra “GULag: storia e immagini dei lager di Stalin”.

Il 9 novembre 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino e nel 2005 il parlamento italiano istituisce il Giorno della Libertà nella ricorrenza di quella data, “simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo”. Per l’occasione, l’assessorato alla Cultura del Comune di Pisa porta a Pisa la mostra GULag: storia e immagini dei lager di Stalin. La mostra, a cura di Memorial Italia, documenta la storia del sistema concentrazionario sovietico illustrata attraverso il materiale documentario e fotografico proveniente dagli archivi sovietici e descrive alcune delle principali “isole” di quello che dopo Aleksandr Solženicyn è ormai conosciuto come “arcipelago Gulag”: le isole Solovki, il cantiere del canale Mar Bianco-Mar Baltico (Belomorkanal), quello della ferrovia Bajkal-Amur, la zona mineraria di Vorkuta e la Kolyma, sterminata zona di lager e miniere d’oro e di stagno nell’estremo nordest dell’Unione Sovietica, dal clima rigidissimo, resa tristemente famosa dai racconti di Varlam Šalamov. Il materiale fotografico, “ufficiale”, scattato per documentare quella che per la propaganda sovietica era una grande opera di rieducazione attraverso il lavoro, mostra gli edifici in cui erano alloggiati i detenuti, la loro vita quotidiana e il loro lavoro. Alcuni pannelli sono dedicati a particolari aspetti della vita dei lager, come l’attività delle sezioni culturali e artistiche, la propaganda, il lavoro delle donne, mentre altri illustrano importanti momenti della storia sovietica come i grandi processi o la collettivizzazione. Non mancano una carta del sistema del GULag e dei grafici con i dati statistici. Una parte della mostra è dedicata alle storie di alcuni di quegli italiani che finirono schiacciati dalla macchina repressiva staliniana: soprattutto antifascisti che erano emigrati in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta per sfuggire alle persecuzioni politiche e per contribuire all’edificazione di una società più giusta. Durante il grande terrore del 1937-38 furono arrestati, condannati per spionaggio, sabotaggio o attività controrivoluzionaria: alcuni furono fucilati, altri scontarono lunghe pene nei lager. La mostra è allestita negli spazi della Biblioteca Comunale SMS Biblio a Pisa (via San Michele degli Scalzi 178) ed è visitabile da venerdì 8 novembre 2024, quando verrà inaugurata, alle ore 17:00, da un incontro pubblico cui partecipano Elena Dundovich (docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Pisa e socia di Memorial Italia), Ettore Cinnella (storico dell’Università di Pisa) e Marco Respinti (direttore del periodico online Bitter Winter). Introdotto dall’assessore alla cultura Filippo Bedini e moderato da Andrea Bartelloni, l’incontro, intitolato Muri di ieri e muri di oggi: dal gulag ai laogai, descriverà il percorso che dalla rievocazione del totalitarismo dell’Unione Sovietica giunge fino all’attualità dei campi di rieducazione ideologica nella Repubblica Popolare Cinese. La mostra resterà a Pisa fino al 28 novembre.

Leggi