“I russi che sono andati via ora tacciono? Provo a spiegare perché”

l sociologo russo spiega in questo testo pubblicato il 31 ottobre scorso su Cholod (che ringraziamo per l'autorizzazione a pubblicare la traduzione di Luisa Doplicher) perché i russi all’estero sembrano restii a organizzare manifestazioni di massa contro la guerra.

(di Dmitrij Dubrovskij, sociologo)


06 gennaio 2023 
Aggiornato 08 gennaio 2023 alle 18:12


Nel 2022, secondo varie stime, quasi ottocentomila persone hanno lasciato la Russia. La critica che viene loro rivolta più spesso è la seguente: perché, una volta all’estero e al sicuro, non scendono in piazza a manifestare? Dmitrij Dubrovskij, sociologo ed ex docente della Scuola superiore di economia che ha lasciato il paese ed è attualmente visiting professor all’Università Carolina di Praga, su richiesta di Cholod fornisce una risposta.


Manifestazione contro la guerra dei russi a Praga
Cittadini russi protestano contro l’invasione russa dell’Ucraina a Praga (2022)
(foto di AlexVolter, CC BY-SA 4.0
)

Premessa: il fenomeno dell’attivismo e delle manifestazioni dei russi all’estero meriterebbe una ricerca seria. Tutti i ragionamenti di questo articolo si basano su osservazioni occasionali e su testi che ho raccolto in maniera poco sistematica; tutte le mie conclusioni sono provvisorie e ne rispondo soltanto io.


Spesso ci si chiede: come mai le centinaia di migliaia di persone fuggite dalla Russia non organizzano manifestazioni contro la guerra? Dietro questa domanda c’è la convinzione che le proteste di piazza siano un dovere morale “senza se e senza ma”. Insomma, visto che i russi emigrati sono tanti, altrettanti dovrebbero essere quelli in piazza. Inoltre, simili proteste potrebbero convincere il governo e la popolazione del paese ospite, soprattutto nell’Europa orientale, che i nuovi arrivati non sono a favore della politica aggressiva del loro paese di origine.


Per rispondere alla domanda su come mai le manifestazioni di massa non siano state organizzate, nonostante le aspettative e persino i desideri di molti, dobbiamo analizzare la situazione della politica di strada appunto in Russia.


L’ultimo esempio di una protesta di massa vera e propria da parte dei russi è rappresentato dalle manifestazioni del 2021 a sostegno di Aleksej Naval’nyj. Stando ai media, avevano partecipato grossomodo centomila persone in oltre cento città. Da allora non è più successo niente del genere.


Con l’inizio della guerra le repressioni si sono intensificate: i coraggiosi tentativi di protestare sono stati schiacciati grazie alle leggi sulle «manifestazioni non autorizzate» e alle restrizioni contro il covid (che stranamente si applicavano solo a chi criticava le autorità), ora inasprite dalle sanzioni per il «discredito delle forze armate» e la diffusione di «notizie false».


Stando così le cose ci torna utile la formula dell’economista Albert Hirschman, che proponeva di stimare quanto costi per la gente insoddisfatta intraprendere una qualsivoglia iniziativa confrontando «voci» (le proteste) e «uscite» (i licenziamenti e l’esilio dal paese). Ne consegue che per i russi il costo delle proteste (le «voci») è altissimo: i processi penali e le lunghe pene detentive inflitte agli attivisti dimostrano che il regime è deciso a stroncare la dissidenza. Se si applica la metafora dei «costi», l’emigrazione (o la fuga dalla realtà politica, l’allontanamento da qualunque protesta pubblica) è diventata l’opzione più a buon mercato e, quindi, la scelta più razionale.


A causa della guerra e della mobilitazione, i russi (che, sottolineo, non sono necessariamente tutti attivisti politici, anzi) se ne vanno e si dirigono di preferenza verso paesi dove tradizionalmente esiste già una comunità russofona. Ma molti rappresentanti di queste comunità non condividono l’indignazione per la guerra o, addirittura, sostengono appieno l’aggressione russa. Opinioni di questo tipo possono influenzare il «costo» delle proteste dei russi all’estero. I nuovi arrivati si trovano al centro di un conflitto lungo e complesso, in mezzo a cittadini di altri paesi che non sono politicamente compatti nel loro atteggiamento verso il regime russo. Questa è la situazione in Estonia, in Lettonia e in Germania. Manifestare le proprie opinioni in pubblico equivale a entrare subito in conflitto con il nuovo ambiente.


Le esperienze vissute in Russia hanno inoltre fatto perdere a molti russi ogni illusione sull’efficacia politica delle proteste: «Tanto le manifestazioni non servono, né qui né la». Solo le iniziative intraprese vicino alle ambasciate si possono considerare un messaggio allo Stato che ha scatenato la guerra, ma i diplomatici di quelle sedi non hanno dato nessuna risposta.


Credo però che per i russi all’estero il freno maggiore alle attività politiche pubbliche sia la logica della loro «colpa collettiva», che è diffusa tra i politici e gli attivisti locali e a volte è considerata alla stregua di un «sostegno all’Ucraina». Una moscovita che ha partecipato a proteste contro la guerra ed è scappata in Georgia sostiene di temere semplicemente che la lingua russa possa suscitare reazioni negative nei cittadini di un paese che, di fatto, ha perso [nel 2008, N.d.T.] il 20% del proprio territorio nel conflitto con la Russia.


Sono gli attivisti russi che hanno lasciato il paese già prima del 24 febbraio a sostenere, in genere, le proteste contro la guerra. Queste manifestazioni si svolgono regolarmente a Praga, a Berlino, a Varsavia e in altre città europee, soprattutto vicino alle ambasciate e ai consolati russi. Certo non sono iniziative di massa, benché a Praga, per esempio, la manifestazione contro la guerra di fine marzo abbia assunto proporzioni significative, con circa 3.000 partecipanti (a fronte di una diaspora russa che conta grossomodo 30.000 persone).


Certo, la consistenza della diaspora influenza l’entità delle proteste. Per esempio, in Slovenia, il movimento contro la guerra conta qualche decina di persone; per quanto ne so, la diaspora locale è di circa 9.000 individui. I russi del posto reagiscono in vari modi alle attività pubbliche organizzate da quel gruppetto di compatrioti. Si sentono anche frasi del tipo: «Protestate a casa vostra, sulla Piazza Rossa». Quando su Facebook è apparso l’annuncio della manifestazione contro la guerra, gli organizzatori, nei commenti, si sono visti rinfacciare di tutto: l’aggressione contro l’Ucraina e la Georgia, il sostegno incondizionato a Putin e il ricatto sulla fornitura di gas. Julija Jakšič, attivista slovena di origine russa, mi ha confessato che, nonostante le parole di conforto ricevute da più parti, anche da ucraini, la situazione è davvero «pesantissima»: sono proprio le proteste pubbliche contro la guerra organizzate dai russi all’estero che sono prese di mira da chi sostiene la colpevolezza collettiva di tutti coloro che hanno un passaporto russo. Questo è, a mio parere, il maggior contributo al «costo» delle proteste pubbliche all’estero per i cittadini russi.


Ho partecipato a una manifestazione contro la guerra organizzata a Praga dal comitato dei russi contro la guerra, e mi è saltata agli occhi una piccola contromanifestazione di circa dieci ucraini e cechi che scandivano slogan come «Non esistono russi buoni» e «Voi protestate contro la mobilitazione, non contro la guerra». A proposito di un’altra iniziativa a cui partecipavano alcune associazioni di russi, certi ucraini hanno proclamato che non si volevano «trovare a fianco dei russi», neanche sotto la bandiera bianca-azzurra-bianca.


Marta Lempart, che dirige il movimento femminista polacco «Sciopero delle donne», in una manifestazione contro la guerra, a Varsavia, ha chiesto al pubblico dove fossero i russi; alla risposta: «Siamo qui!», ha reagito invitandoli ad «andarsene affanculo». E tutti i partecipanti alla manifestazione erano d’accordo con lei.


Arriviamo perciò a una conclusione paradossale: uno dei primi fattori che frena le proteste pubbliche dei russi è l’influenza della società locale, la stessa società che richiede ai russi di partecipare in massa alle iniziative contro la guerra. E nello stesso tempo le proteste pubbliche potrebbero suscitare l’ostilità dei cittadini russofoni di altri paesi, che magari le considerano un «tradimento della patria».


È naturale che la reazione a queste minacce sia la strategia dell’«invisibilità»; cioè, non partecipare a proteste pubbliche. I russi optano per un eccesso di cautela per evitare ogni possibile accusa e critica, da qualunque direzione provengano.


Ritengo che le manifestazioni contro la guerra all’estero continueranno, ma che non coinvolgeranno molta gente, proprio per i motivi che ho elencato. Sono un cittadino russo anch’io e forse questo influenza la mia valutazione dei fatti. Penso comunque che l’attivismo contro la guerra possa assumere varie forme, e non necessariamente quella delle manifestazioni di piazza. Si può fornire un sostegno economico all’Ucraina, contribuire ad aiutare i rifugiati, diffondere informazioni corrette tra i russi sia all’estero che in patria, e occuparsi di tante altre cose.


Ogni cittadino russo porta su di sé una parte di responsabilità per i crimini del regime russo; questa ammissione è fondamentalmente diversa dall’idea di colpa collettiva. In Russia c’è una degradazione sistematica delle pratiche e degli istituti politici. Ma proprio il loro sviluppo e il sostegno a qualunque iniziativa contro la guerra potrebbero convincere di nuovo i cittadini russi che ha senso fare dichiarazioni politiche in pubblico e partecipare in massa alle manifestazioni.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Russia. Anatomia di un regime. Dentro la guerra di Putin.

Russia. Anatomia di un regime. Dentro la guerra di Putin. A cura di Memorial Italia con il coordinamento di Marcello Flores (Corriere della Sera, 2022). «Uno Stato che, al suo interno, viola platealmente e in modo sistematico i diritti umani, diventa per forza di cose una minaccia anche per la pace e per la sicurezza internazionali» La deriva violenta della Russia, culminata nell’aggressione militare nei confronti dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 e documentata da tempo sul fronte delle repressioni interne (di cui anche l’associazione Memorial ha fatto le spese), impone una riflessione sempre più urgente su cosa abbia portato il paese a passare dalle speranze democratiche successive al crollo dell’URSS all’odierna autocrazia. Questo volume a più voci, in cui intervengono nel dibattito studiosi italiani e russi che conoscono profondamente la realtà del regime, i metodi, le tecniche di manipolazione del consenso, le curvature ideologiche, il linguaggio politico, affronta la questione da diversi punti di vista, da quello storico a quello culturale e letterario (con implicazioni non solo per la Russia, ma anche per l’Ucraina e i paesi dell’Europa orientale), a quello geopolitico, fino ad arrivare all’attualità, alle proteste e alle forme di dissidenza che continuano eroicamente a esistere per combattere il Moloch putiniano, sempre più assetato di vittime. Nello stallo del conflitto in Ucraina rimane fondamentale il desiderio di comprendere. Non perché non succeda ancora, come scrive Andrea Gullotta nella sua introduzione, richiamandosi ad Anne Applebaum, ma perché “accadrà di nuovo”. Lo testimoniano drammaticamente il protrarsi di una situazione di guerra alle porte dell’Europa, e l’inasprirsi delle persecuzioni, in Russia, contro chi ha cercato e cerca, a rischio della propria vita, di opporsi allo stato di cose e alle terribili conseguenze che può avere su tutti noi. Contributi di Alexis Berelowitch, Marco Buttino, Alessandro Catalano, Aleksandr Čerkasov, Giulia De Florio, Elena Dundovich, Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Andrea Gullotta, Inna Karmanova, Massimo Maurizio, Marusja Papageno, Niccolò Pianciola, Marco Puleri.

Leggi

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria.

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige. A cura di Andrea Gullotta con traduzione di Giulia De Florio (Stilo Editrice, 2022). Il protagonista del libro di Irina Flige è Sandormoch (Carelia), la radura boschiva in cui, negli anni Novanta, Veniamin Iofe, Irina Flige e Jurij Dmitriev scoprirono la fossa comune dove era stata sepolta un’intera tradotta di detenuti del primo lager sovietico, sulle isole Solovki. Sandormoch è un luogo chiave per comprendere il ruolo della memoria storica nella Russia contemporanea e la battaglia ingaggiata dagli attivisti e storici indipendenti contro l’ideologia ufficiale. La scoperta di questa fossa comune e la creazione del cimitero commemorativo sono soltanto due “atti” della tragedia che ruota intorno a Sandormoch e che ha portato all’arresto e alla condanna di Jurij Dmitriev, attualmente detenuto in una colonia penale. Nella peculiare e coinvolgente narrazione di Flige, adatta anche a un pubblico di non specialisti, la memoria si fa vivo organismo, soggetto a interpretazioni, manipolazioni, cancellazioni e riscritture. Il trauma del Gulag si delinea così come il terreno di scontro tra uno Stato autoritario e repressivo e l’individuo libero che vuole conoscere la verità e custodire la memoria del passato. Irina Anatol’evna Flige (1960), attivista per i diritti civili e ricercatrice, collabora da anni con antropologi e storici per condurre ricerche legate alla scoperta e preservazione dei luoghi della memoria del periodo staliniano. Nel 1988 entra a far parte di Memorial, associazione all’epoca non ancora ufficialmente registrata. Ne diventa collaboratrice nel 1991 e dal 2002 ricopre la carica di direttrice di Memorial San Pietroburgo.

Leggi

Proteggi le mie parole

Proteggi le mie parole. A cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio con prefazione di Marcello Flores (Edizioni E/O, 2022). «Due membri di Memorial (l’associazione insignita nel 2022 del Premio Nobel per la Pace) – Sergej Bondarenko, dell’organizzazione russa, e Giulia De Florio, di Memorial Italia (sorta nel 2004) – ci presentano una testimonianza originale e inedita che getta una luce inquietante, ma anche di grande interesse, sul carattere repressivo dello Stato russo, prima e dopo il 24 febbraio 2022, data d’inizio della guerra d’aggressione all’Ucraina. La raccolta che viene presentata comprende le ‘ultime dichiarazioni’ rese in tribunale da persone accusate di vari e diversi reati, tutti attinenti, però, alla critica del potere e alla richiesta di poter manifestare ed esprimere liberamente le proprie opinioni» L’idea del volume nasce da una semplice constatazione: in Russia, negli ultimi vent’anni, corrispondenti al governo di Vladimir Putin, il numero di processi giudiziari è aumentato in maniera preoccupante e significativa. Artisti, giornalisti, studenti, attivisti (uomini e donne) hanno dovuto affrontare e continuano a subire processi ingiusti o fabbricati ad hoc per aver manifestato idee contrarie a quelle del governo in carica. Tali processi, quasi sempre, sfociano in multe salate o, peggio ancora, in condanne e lunghe detenzioni nelle prigioni e colonie penali sparse nel territorio della Federazione Russa. Secondo il sistema giudiziario russo agli imputati è concessa un’“ultima dichiarazione” (poslednee slovo), la possibilità di prendere la parola per sostenere la propria innocenza o corroborare la linea difensiva scelta dall’avvocato/a. Molte tra le persone costrette a pronunciare la propria “ultima dichiarazione” l’hanno trasformata in un atto sì processuale, ma ad alto tasso di letterarietà: per qualcuno essa è diventata la denuncia finale dei crimini del governo russo liberticida, per altri la possibilità di spostare la discussione su un piano esistenziale e non soltanto politico. Il volume presenta 25 testi di prigionieri politici, tutti pronunciati tra il 2017 e il 2022. Sono discorsi molto diversi tra loro e sono la testimonianza di una Russia che, ormai chiusa in un velo di oscurantismo e repressione, resiste e lotta, e fa sentire forte l’eco di una parola che vuole rompere il silenzio della violenza di Stato. Traduzioni di Ester Castelli, Luisa Doplicher, Axel Fruxi, Andrea Gullotta, Sara Polidoro, Francesca Stefanelli, Claudia Zonghetti.

Leggi