(di Dmitrij Dubrovskij, sociologo)
06 gennaio 2023
Aggiornato 08 gennaio 2023 alle 18:12
Nel 2022, secondo varie stime, quasi ottocentomila persone hanno lasciato la Russia. La critica che viene loro rivolta più spesso è la seguente: perché, una volta all’estero e al sicuro, non scendono in piazza a manifestare? Dmitrij Dubrovskij, sociologo ed ex docente della Scuola superiore di economia che ha lasciato il paese ed è attualmente visiting professor all’Università Carolina di Praga, su richiesta di Cholod fornisce una risposta.
Premessa: il fenomeno dell’attivismo e delle manifestazioni dei russi all’estero meriterebbe una ricerca seria. Tutti i ragionamenti di questo articolo si basano su osservazioni occasionali e su testi che ho raccolto in maniera poco sistematica; tutte le mie conclusioni sono provvisorie e ne rispondo soltanto io.
Spesso ci si chiede: come mai le centinaia di migliaia di persone fuggite dalla Russia non organizzano manifestazioni contro la guerra? Dietro questa domanda c’è la convinzione che le proteste di piazza siano un dovere morale “senza se e senza ma”. Insomma, visto che i russi emigrati sono tanti, altrettanti dovrebbero essere quelli in piazza. Inoltre, simili proteste potrebbero convincere il governo e la popolazione del paese ospite, soprattutto nell’Europa orientale, che i nuovi arrivati non sono a favore della politica aggressiva del loro paese di origine.
Per rispondere alla domanda su come mai le manifestazioni di massa non siano state organizzate, nonostante le aspettative e persino i desideri di molti, dobbiamo analizzare la situazione della politica di strada appunto in Russia.
L’ultimo esempio di una protesta di massa vera e propria da parte dei russi è rappresentato dalle manifestazioni del 2021 a sostegno di Aleksej Naval’nyj. Stando ai media, avevano partecipato grossomodo centomila persone in oltre cento città. Da allora non è più successo niente del genere.
Con l’inizio della guerra le repressioni si sono intensificate: i coraggiosi tentativi di protestare sono stati schiacciati grazie alle leggi sulle «manifestazioni non autorizzate» e alle restrizioni contro il covid (che stranamente si applicavano solo a chi criticava le autorità), ora inasprite dalle sanzioni per il «discredito delle forze armate» e la diffusione di «notizie false».
Stando così le cose ci torna utile la formula dell’economista Albert Hirschman, che proponeva di stimare quanto costi per la gente insoddisfatta intraprendere una qualsivoglia iniziativa confrontando «voci» (le proteste) e «uscite» (i licenziamenti e l’esilio dal paese). Ne consegue che per i russi il costo delle proteste (le «voci») è altissimo: i processi penali e le lunghe pene detentive inflitte agli attivisti dimostrano che il regime è deciso a stroncare la dissidenza. Se si applica la metafora dei «costi», l’emigrazione (o la fuga dalla realtà politica, l’allontanamento da qualunque protesta pubblica) è diventata l’opzione più a buon mercato e, quindi, la scelta più razionale.
A causa della guerra e della mobilitazione, i russi (che, sottolineo, non sono necessariamente tutti attivisti politici, anzi) se ne vanno e si dirigono di preferenza verso paesi dove tradizionalmente esiste già una comunità russofona. Ma molti rappresentanti di queste comunità non condividono l’indignazione per la guerra o, addirittura, sostengono appieno l’aggressione russa. Opinioni di questo tipo possono influenzare il «costo» delle proteste dei russi all’estero. I nuovi arrivati si trovano al centro di un conflitto lungo e complesso, in mezzo a cittadini di altri paesi che non sono politicamente compatti nel loro atteggiamento verso il regime russo. Questa è la situazione in Estonia, in Lettonia e in Germania. Manifestare le proprie opinioni in pubblico equivale a entrare subito in conflitto con il nuovo ambiente.
Le esperienze vissute in Russia hanno inoltre fatto perdere a molti russi ogni illusione sull’efficacia politica delle proteste: «Tanto le manifestazioni non servono, né qui né la». Solo le iniziative intraprese vicino alle ambasciate si possono considerare un messaggio allo Stato che ha scatenato la guerra, ma i diplomatici di quelle sedi non hanno dato nessuna risposta.
Credo però che per i russi all’estero il freno maggiore alle attività politiche pubbliche sia la logica della loro «colpa collettiva», che è diffusa tra i politici e gli attivisti locali e a volte è considerata alla stregua di un «sostegno all’Ucraina». Una moscovita che ha partecipato a proteste contro la guerra ed è scappata in Georgia sostiene di temere semplicemente che la lingua russa possa suscitare reazioni negative nei cittadini di un paese che, di fatto, ha perso [nel 2008, N.d.T.] il 20% del proprio territorio nel conflitto con la Russia.
Sono gli attivisti russi che hanno lasciato il paese già prima del 24 febbraio a sostenere, in genere, le proteste contro la guerra. Queste manifestazioni si svolgono regolarmente a Praga, a Berlino, a Varsavia e in altre città europee, soprattutto vicino alle ambasciate e ai consolati russi. Certo non sono iniziative di massa, benché a Praga, per esempio, la manifestazione contro la guerra di fine marzo abbia assunto proporzioni significative, con circa 3.000 partecipanti (a fronte di una diaspora russa che conta grossomodo 30.000 persone).
Certo, la consistenza della diaspora influenza l’entità delle proteste. Per esempio, in Slovenia, il movimento contro la guerra conta qualche decina di persone; per quanto ne so, la diaspora locale è di circa 9.000 individui. I russi del posto reagiscono in vari modi alle attività pubbliche organizzate da quel gruppetto di compatrioti. Si sentono anche frasi del tipo: «Protestate a casa vostra, sulla Piazza Rossa». Quando su Facebook è apparso l’annuncio della manifestazione contro la guerra, gli organizzatori, nei commenti, si sono visti rinfacciare di tutto: l’aggressione contro l’Ucraina e la Georgia, il sostegno incondizionato a Putin e il ricatto sulla fornitura di gas. Julija Jakšič, attivista slovena di origine russa, mi ha confessato che, nonostante le parole di conforto ricevute da più parti, anche da ucraini, la situazione è davvero «pesantissima»: sono proprio le proteste pubbliche contro la guerra organizzate dai russi all’estero che sono prese di mira da chi sostiene la colpevolezza collettiva di tutti coloro che hanno un passaporto russo. Questo è, a mio parere, il maggior contributo al «costo» delle proteste pubbliche all’estero per i cittadini russi.
Ho partecipato a una manifestazione contro la guerra organizzata a Praga dal comitato dei russi contro la guerra, e mi è saltata agli occhi una piccola contromanifestazione di circa dieci ucraini e cechi che scandivano slogan come «Non esistono russi buoni» e «Voi protestate contro la mobilitazione, non contro la guerra». A proposito di un’altra iniziativa a cui partecipavano alcune associazioni di russi, certi ucraini hanno proclamato che non si volevano «trovare a fianco dei russi», neanche sotto la bandiera bianca-azzurra-bianca.
Marta Lempart, che dirige il movimento femminista polacco «Sciopero delle donne», in una manifestazione contro la guerra, a Varsavia, ha chiesto al pubblico dove fossero i russi; alla risposta: «Siamo qui!», ha reagito invitandoli ad «andarsene affanculo». E tutti i partecipanti alla manifestazione erano d’accordo con lei.
Arriviamo perciò a una conclusione paradossale: uno dei primi fattori che frena le proteste pubbliche dei russi è l’influenza della società locale, la stessa società che richiede ai russi di partecipare in massa alle iniziative contro la guerra. E nello stesso tempo le proteste pubbliche potrebbero suscitare l’ostilità dei cittadini russofoni di altri paesi, che magari le considerano un «tradimento della patria».
È naturale che la reazione a queste minacce sia la strategia dell’«invisibilità»; cioè, non partecipare a proteste pubbliche. I russi optano per un eccesso di cautela per evitare ogni possibile accusa e critica, da qualunque direzione provengano.
Ritengo che le manifestazioni contro la guerra all’estero continueranno, ma che non coinvolgeranno molta gente, proprio per i motivi che ho elencato. Sono un cittadino russo anch’io e forse questo influenza la mia valutazione dei fatti. Penso comunque che l’attivismo contro la guerra possa assumere varie forme, e non necessariamente quella delle manifestazioni di piazza. Si può fornire un sostegno economico all’Ucraina, contribuire ad aiutare i rifugiati, diffondere informazioni corrette tra i russi sia all’estero che in patria, e occuparsi di tante altre cose.
Ogni cittadino russo porta su di sé una parte di responsabilità per i crimini del regime russo; questa ammissione è fondamentalmente diversa dall’idea di colpa collettiva. In Russia c’è una degradazione sistematica delle pratiche e degli istituti politici. Ma proprio il loro sviluppo e il sostegno a qualunque iniziativa contro la guerra potrebbero convincere di nuovo i cittadini russi che ha senso fare dichiarazioni politiche in pubblico e partecipare in massa alle manifestazioni.