(di Jan Račinskij)
14 dicembre 2022
ore 10:10
Memorial Italia ha ricevuto l’autorizzazione a pubblicare il discorso integrale pronunciato da Jan Račinskij in occasione della cerimonia del conferimento del premio Nobel a Memorial. Tradotto da Claudia Zonghetti.
Vostra Maestà, Vostre Altezze Reali, Signore e Signori, Amici!
Mi sia innanzitutto permesso di ringraziare a nome di Memorial la commissione norvegese che, quest’anno, ha deciso di assegnarci il Premio Nobel per la Pace.
Siamo particolarmente riconoscenti di poter condividere questo grande onore con il Centro ucraino per le libertà civili e con Ales’ Bjaljacki, coraggioso difensore bielorusso dei diritti umani. Una simile decisione ha un significato simbolico importante: sottolinea che i confini degli Stati non possono e non devono dividere la società civile. Per noi essere insieme è un premio ulteriore.
Memorial esiste da 35 anni. Oggi le sue varie declinazioni operano in molte regioni della Russia, in Ucraina e in alcuni Paesi dell’Europa occidentale. Il premio Nobel che ci viene assegnato si deve a ciascuna di queste organizzazioni, a tutte le migliaia di persone che vi lavorano, ai soci di Memorial, ai collaboratori, ai volontari, ai manifestanti. E si deve anche a chi non è più tra noi. Soprattutto a coloro che hanno fondato Memorial e l’hanno resa ciò che è oggi: Andrej Sacharov, Arsenij Roginskij, Sergej Kovalëv e molti altri. Questo premio è anche loro.
Il nostro lavoro va in due direzioni fondamentali e paritarie.
La prima è il recupero della memoria storica sul terrore di Stato. Studiamo gli archivi, cerchiamo i luoghi di fucilazioni e sepolture, abbiamo un nostro archivio, e biblioteche, e anche reperti e musei, pubblichiamo libri e organizziamo commemorazioni pubbliche. E anche mostre, conferenze e seminari. Lavoriamo con i giovani. Creiamo i database delle vittime del terrore e di coloro che lo hanno perpetrato. Raccontiamo dei dissidenti perseguitati e della resistenza intellettuale, civile e politica al totalitarismo.
La seconda è la lotta per i diritti umani nella nuova era post-sovietica. Per questo raccogliamo, analizziamo e pubblichiamo informazioni sui diritti umani violati nelle “zone calde” di oggi: in Nagorno-Karabach, Transnistria, Tadžikistan, Ossezia e Inguscezia, Cecenia, Donbass. Cerchiamo chi è scomparso, indaghiamo sui massacri e sulle cosiddette “sparizioni”. Aiutiamo i profughi e chi è costretto a scappare. Monitoriamo le persecuzioni politiche e ai prigionieri politici offriamo assistenza legale: oggi in Russia hanno ormai raggiunto il numero dei loro omologhi sovietici agli albori della perestrojka. In un certo senso, si continua a lottare per la libertà come si faceva in epoca sovietica, tenendo insieme passato e presente.
In questo mio discorso vorrei affrontare alcune questioni generali.
La prima riguarda il rapporto tra la difesa dei diritti umani e il lavoro che Memorial svolge sulla memoria storica.
Duecento anni fa Puškin vedeva le basi del “rigore umano”, di dignità e libertà dell’uomo, nel suo senso di appartenenza al passato, nell’amore per le “ceneri degli avi” e per “le tombe dei padri”. Anche il lavoro di Memorial si fonda sul legame indissolubile tra memoria e libertà.
Non ci limitiamo a indagare e documentare le tragedie del passato e le collisioni sociali del presente. Noi indaghiamo e documentiamo i crimini. È questa la nostra peculiarità. Crimini contro i singoli esseri umani e contro l’umanità in genere che il potere costituito ha commesso o sta commettendo. La prima ragione di questi crimini è la sacralità di un potere statale assurto a valore supremo, è la priorità assoluta di quanto questo stesso potere dichiara “interesse di Stato” sull’individuo, la sua libertà, la sua dignità e i suoi diritti. Per settant’anni il nostro Paese ha avuto un sistema di valori capovolto, in cui gli esseri umani erano materiale utile giusto ad attuare gli scopi che il governo si poneva.
La rinascita di ambizioni imperialistiche è una delle conseguenze evidenti della sacralizzazione dello Stato. Prova ne sono stati, all’inizio della Seconda guerra mondiale, gli attacchi a Polonia e Finlandia, l’occupazione delle Repubbliche baltiche, l’annessione della Bessarabia e della Bucovina del Nord. Esternazione di ambizioni simili a quelle odierne sono state ancora, nel dopoguerra, i diktat ai paesi dell’Europa dell’Est, l’invasione dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968, e la guerra in Afghanistan.
Un’altra conseguenza è l’impunità; non solo di chi prende decisioni politiche criminali, ma anche di coloro che le mettono in atto, compiendo altri crimini. Impunite restano le esecuzioni sommarie, le uccisioni dei civili, le torture e le razzie. Lo abbiamo visto nelle guerre in Cecenia, lo vediamo anche oggi nei territori occupati dell’Ucraina. Dopo i bombardamenti su Groznyj, Mariupol’ rasa al suolo non è nulla di nuovo.
La catena dei crimini senza castigo non si ferma, né si spezzerà da sola. È un problema per cui il compromesso non è una soluzione.
Purtroppo, la società russa non ha trovato le forze per interrompere una lunga tradizione di violenza di Stato.
Per settant’anni, il potere costituito ha eroso e distrutto ogni forma di solidarietà tra le persone, ha atomizzato la società, sradicando qualsiasi espressione di solidarietà civile e trasformandola in un “gregge-popolazione” docile e senza voce. Il triste stato in cui versa oggi la società civile russa è la conseguenza diretta di un passato con cui non si sono fatti i conti.
Per noi di Memorial la priorità assoluta è l’individuo, la sua vita, la sua libertà e la sua dignità. “Lo Stato è tutto, l’individuo è niente” è uno slogan che rigettiamo con decisione. Noi non ci concentriamo su eventi storici epocali o sui massimi sistemi della politica (anche se ce ne dobbiamo occupare, com’è ovvio, per capire il contesto dei destini umani che indaghiamo). Per noi sono più importanti i nomi e i destini di persone reali, concrete, delle vittime della politica criminale di ieri e di oggi. Nomi e destini sono il fondamento, la base su cui lavoriamo, ciò che documentiamo o ricostruiamo.
Il secondo punto in questione è il carattere sovranazionale e universale dei problemi che Memorial affronta.
L’umanità ha capito da tempo che i diritti e le libertà dell’uomo non dipendono dai confini delle nazioni. È un assunto lampante, ormai, e la scelta del Comitato per il Nobel lo conferma chiaramente. Il primato, l’universalità e l’indivisibilità dei diritti umani sono fattori chiave della convivenza umana, sono garanzia di pace e progresso su questa Terra. Un’idea, questa, a cui ha contribuito anche il pensiero russo, dal filosofo Vladimir Solov’ëv (nell’Ottocento) ad Andrej Sacharov, Jurij Orlov e altri dissidenti sovietici.
Con la memoria storica le cose si complicano. Ogni Paese, ogni società sviluppa una propria narrazione della storia, una propria “immagine del passato”, che non di rado contraddice quella dei Paesi vicini. Motivo di controversia, di norma, diventano non i singoli fatti, ma le diverse interpretazioni di uno stesso avvenimento. È inevitabile che popoli diversi diano un’interpretazione diversa e una diversa valutazione degli stessi eventi storici, nascendo come nascono essi nel contesto di storie nazionali differenti. Bisogna solo imparare a riconoscere le ragioni per cui questo accade e bisogna rispettare il diritto di ogni popolo a una propria interpretazione del passato.
Non ha senso ignorare la memoria “altrui”, fingere che essa non esista. Né ha senso – anzi, è estremamente pericoloso – negare la validità di questa memoria, bollando arbitrariamente come false le interpretazioni della realtà storica che ne costituiscono la base. E pericoloso, se non fatale, è usare la storia come strumento politico, è scatenare una “guerra della memoria”.
Nell’impero sovietico, le lotte dei vari popoli per la propria indipendenza nazionale, così come più blande manifestazioni di coscienza nazionale che non si incasellavano nel dogma dell’ideologia, si guadagnavano il marchio di “nazionalismo borghese” e venivano represse brutalmente. Dopo il crollo dell’URSS, i nuovi Stati sorti sul suo territorio si sono dati nuove narrazioni storiche che non coincidevano affatto con la mitologia storica ufficiale sovietica. Ragion per cui, subito dopo l’ascesa al potere di Vladimir Putin, la nuova leadership russa e i servitori della sua ideologia hanno scatenato furiose, aggressive “guerre della memoria” contro gli Stati vicini – Estonia, Lettonia e Ucraina – attingendo a mani basse a stereotipi e cliché sovietici. Ovviamente non in nome della “verità”, ma solo per il proprio tornaconto politico. Sta di fatto che la lotta contro il “nazionalismo” e il “banderismo” è assurta a fondamento ideologico e giustificazione propagandistica per una folle guerra di aggressione criminale contro l’Ucraina.
Tra le prime vittime di questa follia c’è la memoria storica della Russia stessa. Perché l’aggressione a un Paese vicino passasse per “lotta al fascismo” è stato necessario plasmare le menti dei cittadini russi invertendo i concetti di “fascismo” e “antifascismo”. “Antifascismo” per i mass media russi è ora l’invasione armata di un Paese confinante che nulla ha fatto per provocarla, è l’annessione dei territori conquistati e il terrore ai danni dei civili nelle aree occupate, sono i crimini di guerra. I mass media fomentano l’odio contro l’Ucraina, dichiarano “inferiori” la sua cultura e la sua lingua, sostengono che il popolo ucraino non esiste. “Fascismo”, per contro, è la resistenza all’aggressione. Tutto questo contraddice apertamente l’esperienza storica della Russia, svaluta e distorce la memoria della guerra antifascista del 1941-1945, l’unica vera, oltre che la memoria dei soldati sovietici che hanno combattuto contro Hitler. D’ora in avanti per molte persone i “soldati russi” non saranno più loro, ma quelli che stanno seminando morte e distruzione sul suolo ucraino.
C’è poi, un’ultima questione che vorrei affrontare, ed è quella della colpa e della responsabilità.
Una domanda ci tormenta: Memorial meritava davvero il Premio Nobel per la Pace?
Sì. Abbiamo cercato di opporci all’erosione della memoria storica e della legalità, abbiamo documentato i crimini del passato e del presente. Bando alla modestia: abbiamo fatto davvero molto e molto abbiamo risolto. Ma il nostro lavoro ha impedito la tragedia del 24 febbraio? No.
La notizia del conferimento del premio non ha alleggerito minimamente il mostruoso fardello che ci è caduto addosso quel giorno, anzi se possibile lo ha reso più pesante.
Attenzione, non è il fardello di una cosiddetta “colpa nazionale”. No. Di “colpa nazionale” o collettiva non si può parlare, anche solo perché la giurisprudenza ne rifiuta con forza il concetto. Il lavoro dei soci del nostro movimento si basa su una visione del mondo completamente diversa, vale a dire sulla comprensione della nostra responsabilità civile quanto al passato e al presente.
E come già osservava Karl Jaspers, la responsabilità del singolo per quanto accade nel suo Paese e, di fatto, all’umanità nel suo insieme, si basa su una solidarietà civile e umana diffusa. Lo stesso vale per la responsabilità quanto a eventi del passato. Essa nasce da un senso di unità tra l’individuo e le cinque generazioni che lo hanno preceduto, dalla capacità di riconoscersi quale anello della catena formata dalle generazioni suddette, e cioè dalla consapevolezza di appartenere a una comunità che non è nata ieri e, si spera, non scomparirà domani. Assumersi questa responsabilità è una scelta esclusivamente individuale: ogni singola persona sceglie volontariamente di sentirsi responsabile per qualcosa che è accaduto in passato o che sta accadendo ora, e in cui non è direttamente coinvolto. Lo sceglie lui, nessun altro può caricargli quel peso sulle spalle. E soprattutto: diversamente dal senso di colpa, che chiede “pentimento”, la responsabilità civile esige che ci si rimbocchi le maniche. Il suo vettore punta al futuro, non al passato.
Questa è Memorial: un’alleanza di persone che si sono fatte carico loro sponte della responsabilità civile del passato e del presente e che lavorano in nome del futuro.
Dunque, forse, dovremo accettare questo premio non solo quale ricompensa per quanto siamo riusciti a fare in trentacinque anni, ma come caparra sui generis per quello che faremo. Perché noi non ci arrendiamo e continuiamo a lavorare.
Grazie per l’attenzione.
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