(di Mikhail Shishkin, scrittore)
05 dicembre 2022
alle 08:52
Pubblichiamo un’importante riflessione dello scrittore russo Mikhail Shishkin sulla cultura russa oggi tradotta da Emanuela Bonacorsi.
Gli ex prigionieri dei campi di lavoro sovietici hanno affermato che i classici russi hanno salvato loro la vita e che raccontavano i romanzi di Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij agli altri detenuti comuni. La grande letteratura russa non ha potuto impedire i gulag, ma ha aiutato i prigionieri a sopravvivere ad essi. È molto o poco?
Sin dall’invasione dell’Ucraina, la letteratura russa è stata accusata di complicità nella guerra e nelle atrocità commesse dai soldati russi. Alla letteratura russa si muove l’accusa di essere imperialista e post-colonialista, la guerra rappresenterebbe la bancarotta morale e umanitaria della cultura russa. Alcuni scrittori ucraini incitano al boicottaggio della musica, dei film e dei libri russi, dichiarando che il mondo continua erroneamente a considerare la cultura russa europea e umanistica, che i criminali di guerra che hanno violentato le madri e i loro figli sono stati educati a scuola sui classici russi e che la strada per il massacro di Buča passa anche attraverso la letteratura russa.
Essere russi fa male. In nome del mio popolo, in nome del mio Paese, in nome mio vengono commessi crimini atroci. Si vuole amare la patria ed esserne orgogliosi, ma come si può amare la madre che divora i bambini, propri e altrui? La Russia lo fa da secoli e non sa come fermarsi. Questa guerra ha trasformato la lingua di Puškin e Tolstoj nella lingua dei criminali di guerra e degli assassini. La Russia non è associata alla musica e alla letteratura russa, bensì alle bombe che cadono sui reparti maternità e ai cadaveri mutilati nelle strade della periferia di Kiev.
Come russo, cosa posso dire quando sento che in Ucraina viene demolito un monumento a Puškin? Mi limito a tacere e a cospargermi il capo di cenere. E spero che un poeta ucraino dia voce a Puškin.
In tutto il mondo il regime di Putin ha messo la cultura russa sotto tiro, assestando un duro colpo alla cultura russa da parte del suo stesso Stato, come ha fatto tante volte in passato. La Russia di oggi è uno Stato fascista. Non importa quello che dicono al Cremlino, ciò che conta è quello che fanno. E fanno fascismo. Gli artisti sono costretti a intonare canzoni patriottiche o a emigrare. La cultura in Russia non è più libera. Ma questa è una tautologia: la cultura non può che essere libera. Il regime ha “cancellato” la cultura russa nel mio Paese. Dopo una breve pausa, la Russia di Putin ha proseguito l’annientamento della cultura come durante l’Unione Sovietica. Giovani manifestanti sono stati condannati in tribunale per un cartello con una citazione da Tolstoj.
Lo Stato russo è da sempre il principale nemico della cultura russa. Aleksandr Herzen lo ha affermato a chiare lettere: “Lo Stato in Russia si è installato come un esercito di occupazione”. Il potere politico russo ha cambiato pelle per secoli, ma è rimasto lo stesso: una piramide di schiavi che adorano il khan supremo. Così è stato durante il giogo dell’Orda d’Oro, così era ai tempi di Stalin, così è oggi dopo l’annessione della Crimea e l’inizio della guerra in Ucraina.
Il mondo si sorprende del silenzio del popolo russo: solo poche proteste isolate contro la guerra. La celebre battuta finale del dramma “Boris Godunov” di Puškin recita: “Il popolo rimane in silenzio”. Questa è stata una strategia di sopravvivenza per molte generazioni: il silenzio è più sicuro. Non avere una propria opinione è più sicuro. Chi è al potere ha sempre ragione. Il potere non dipende dall’opinione del popolo, è lassù in alto, come il cielo, e bisogna obbedire, qualunque sia l’ordine. Questo conferisce sacralità allo zar russo. E chi non è d’accordo finisce in prigione. Oltretutto, i russi ben sanno dalla loro mostruosa esperienza storica che in Russia anche il potere più riprovevole è meglio di nessun potere. La saggezza popolare dice: “Meglio non augurare la morte a uno zar cattivo”. Il prossimo potrebbe essere ancora peggiore.
Solo le parole possono opporsi a questo silenzio. Ecco perché in Russia la poesia è stata più che poesia. Ecco perché il potere statale ha sempre cercato di soffocare o abusare della cultura. Il potere sovietico ha voluto darsi un’aura di umanità e rettitudine innalzando monumenti vari in omaggio ai classici russi. “Puškin è il nostro tutto!” risuonava nel 1937 dai palchi dove sedevano i boia, tremanti di paura. Quello slogan risuona ancora oggi, sullo sfondo delle città ucraine distrutte. Il regime ha bisogno della cultura come una maschera umana, come una mimetica da combattimento. Ecco perché Stalin aveva bisogno di Dmitrij Šostakovič e Putin di Valerij Gergiev.
La strada che porta al massacro di Buča non passa attraverso la letteratura russa, ma piuttosto attraverso il divieto di pubblicazione di Dostoevskij e Bulgakov, Nabokov e Brodskij, Achmatova e Platonov, l’esecuzione di Nikolaj Gumilёv e Isaak Babel’, la tragedia di Marina Cvetaeva e Perec Markiš, l’omicidio di Osip Mandel’stam e Daniil Charms, la denigrazione e il linciaggio di Pasternak e Solženicyn. La strada che porta a questa guerra passa attraverso secoli di resistenza disperata della cultura russa e delle sue ripetute sconfitte nella lotta contro il potere criminale dello Stato.
Parlando della mentalità “imperialista” dei russi, si rimuove che l’Impero russo, a differenza di quello britannico, era un impero di schiavi in cui il popolo russo era il primo a subire e soffrire. Sicuramente l’idea di impero che hanno gli inglesi è diversa. L’Impero russo non esiste per il popolo russo, ma per se stesso. L’unico scopo dello Stato russo è quello di rimanere al potere. La mentalità “imperialista” dei russi possiede una sua propria natura.
La maggioranza della popolazione vive ancora mentalmente nel passato: si identifica con la tribù e dipende completamente dal capo, dal khan o dallo zar. Gli esseri umani moderni si assumono la responsabilità di decidere per il bene o per il male. E quando il male proviene dal proprio Paese, si oppongono al proprio Stato e al proprio popolo. La maggior parte dei russi vive ancora in un’epoca in cui la propria tribù ha sempre ragione. Per generazioni il potere statale ha inculcato nel cervello della gente il mito del “Russkij mir”: la Santa Patria è un’isola circondata da un oceano di nemici e solo lo Zar al Cremlino può salvare il Paese e il suo popolo e mantenere l’ordine con il pugno di ferro.ù
Il mantenimento del potere esige dei nemici e una guerra infinita. E soldati. Žukov, il Maresciallo della Vittoria, ebbe a dichiarare a proposito delle pesanti perdite: “Non importa, le mogli russe partoriranno nuovi soldati”. Gli schiavi vengono trasformati in soldati grazie a uno strumento ben oliato: il patriottismo. Tutti i dittatori hanno sempre saputo come scambiare l’amor di popolo per la patria con l’amore per il regime. Funziona. La TV russa mostra le stesse orribili immagini di distruzione dell’Ucraina e di bambini morti messe in onda in Occidente, spiegando però che a distruggere le città è l’esercito ucraino, a uccidere e violentare i bambini sono gli “Ucronazisti”. Dicono che l’esercito russo sta difendendo la nostra patria in Ucraina dal fascismo della NATO. La propaganda mente, ma la gente ci crede, sia perché il potere ha sempre ragione (in casa, la TV incarna il potere statale) sia perché “i russi combattono sempre dalla parte del bene contro il male”.
Il divario di civiltà tra l’umanità moderna e la popolazione russa bloccata in un Medioevo mentale può essere colmato solo dalla cultura, e il regime sta facendo tutto il possibile per impedirlo.
Le eterne, “maledette” domande della letteratura russa del XIX secolo “Di chi è la colpa?” e “Che fare?” hanno tormentato solo la sparuta classe istruita. La più importante domanda russa per milioni di contadini analfabeti suonava in modo diverso: “Lo zar è vero o falso?”. Come allora, così oggi. In Russia, a partire dall’era di Stalin, l’istruzione secondaria è stata resa obbligatoria e l’ideologia di Stato ha abusato della letteratura per propinare ai bambini il “patriottismo”. Il potere statale non ha bisogno di persone che facciano domande, ma di “patrioti” tout court.
Solo le vittorie potevano risolvere la questione dello zar vero o falso. Stalin, il vincitore della “Grande Guerra Patriottica” (la Seconda guerra mondiale), era reale ed è tuttora venerato. Gorbačёv ha perso sia la guerra in Afghanistan sia la Guerra Fredda contro l’Occidente. “Gorby” era chiaramente un falso zar ed è tuttora malvisto e odiato in Russia.
Annettendo la Crimea, Putin si è legittimato agli occhi della popolazione come uno zar vero. Ma la mancata vittoria nella campagna ucraina ha drasticamente minato la sua legittimità. La deputinizzazione avverrà quando il regime di Putin imploderà, ma sarà portata avanti da un nuovo Putin con un nome diverso.
Questa non è una guerra tra ucraini e russi. È una guerra tra persone che parlano sia ucraino che russo e persone che eseguono ordini criminali. In questa guerra non ci sono nazionalità: ci sono umani e non-umani. Anche in Russia gli umani scendono in piazza per protestare contro la guerra. I non-umani li picchiano e li arrestano.
La lingua tedesca non apparteneva ai nazisti. Paul Celan ha scritto le sue poesie nella lingua degli assassini di sua madre. Il russo non appartiene a Putin e ai criminali di guerra. La lingua rimane ciò che è sempre stata: l’esistenza extracorporea di umani e non-umani.
Gli schiavi danno vita a una dittatura e la dittatura dà vita a degli schiavi: c’è solo una via d’uscita da questo circolo vizioso ed è la cultura. La letteratura è un antidoto al veleno della mentalità “imperialista”.
La letteratura russa deve ancora al mondo un grande romanzo. Forse sarà scritto da un giovane che ora si trova in trincea e non ha idea di essere proprio lui quello scrittore. E si chiede: “Cosa ci faccio qui? Perché il mio governo mi ha mentito e tradito? Perché dobbiamo uccidere e morire qui? Perché noi russi siamo fascisti e assassini? Di chi è la colpa? Che fare?”.