(di Giulia De Florio, professoressa di letteratura russa presso l’università di Parma e membro del consiglio direttivo di Memorial Italia, e Sara Polidoro, dottoranda presso l’Università di Bologna, interprete-traduttrice di lingua russa e serba e socia di Memorial Italia)
17 novembre 2022
ore 13:05
Memorial Italia ha intervistato Ekaterina Martynova, giornalista russa residente a Berlino e collaboratrice della rivista studentesca Doxa, fondata nel 2017 allo scopo di dar voce agli studenti universitari, sempre più spesso vittime di intimidazioni da parte dei vertici degli atenei. Nel 2021 Armen Aramjan, Alla Gutnikova, Natalia Tyshkevich e Vladimir Metelkin, i quattro redattori della rivista, sono stati accusati di aver incitato dei minori a partecipare alle proteste con un video in cui esortavano le autorità di smetterla di minacciare gli studenti che manifestavano a sostegno di Naval’nyj. Nell’aprile scorso per molti di loro è arrivata la condanna ai lavori forzati. Nelle settimane successive erano riusciti a fuggire dalla Russia, trovando rifugio in Germania. La stessa Ekaterina Martynova, complice l’impossibilità di ottenere un visto umanitario, dopo un periodo trascorso in Italia si è rifugiata nella capitale tedesca.
Katya, di cosa ti occupi adesso?
Sono una giornalista, lavoro con “Doxa” ormai da 4 anni. Ho iniziato da studentessa, anzi da matricola: era la mia prima settimana alla Higher School of Economics di Mosca. Non avevo mai pensato di fare la giornalista, né ambivo a diventare reporter o attivista. Le scienze sociali però mi avevano sempre attirato: il problema delle disuguaglianze, la discriminazione, la questione del gender etc.. Leggevo “Doxa” sin dai tempi della scuola, e avevo pensato che sarebbe stato interessante conoscerli, fare qualcosa con loro. All’epoca “Doxa” non era neppure un vero e proprio progetto giornalistico. Quando sono arrivata in redazione all’inizio scrivevo brevi articoli a carattere informativo. Quando poi sono partite le proteste di massa, alle quali prendevano parte tanti studenti, ho pensato che mi stavo davvero avvicinando al giornalismo, all’attivismo, e che per me tutto questo era importantissimo; non sarei più riuscita a vivere senza. Allora sono entrata nella redazione di “Novaya Gazeta” [la rivista guidata da Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace 2021 N.d.C] e ci ho lavorato per un anno e mezzo, pur non lasciando “Doxa.” Poi ho capito che era difficile combinare studio e lavoro: in piena pandemia, seguivo le notizie sul Covid, era pesante dal punto di vista emotivo, e ho pensato che se non mi fossi fermata sarei andata in burn out. Così ho deciso di venire in Italia per sei mesi con un progetto Erasmus, per riposarmi e… fare la studentessa! Mi sono licenziata da “Novaya Gazeta”, pur restando in “Doxa”, nell’autunno 2020. Ho fatto domanda Erasmus e dovevo venire nell’inverno 2021. Poi è arrivata la seconda ondata di Covid e ho deciso di rimandare di nuovo. Solo che le cose avevano iniziato a girare in modo diverso, proseguivo la collaborazione con “Doxa” e sentivo che dovevo in qualche modo portare avanti questa mia missione.
A giugno ero stata convocata per un interrogatorio nel processo a “Doxa” [gli imputati erano quattro redattori e redattrici della rivista N.d.C.], ero tra i testimoni, e non era stata un’esperienza molto piacevole, anzi… direi estrema. Subito dopo l’interrogatorio ho deciso di partire e sono stata tutta l’estate in Georgia. Poi è iniziato il mio scambio in Italia che mi ha aiutato molto, perché non potevo restare in Russia, anche se sentivo che il mio posto era lì, dovevo restare’, a fare la giornalista… ma comunque l’esperienza in Italia mi ha fatto bene, ho approfondito molti contatti… Quando poi è iniziata la guerra ho deciso di restare in Italia e dedicarmi a “Doxa”. Il problema è che ottenere i documenti per restare qui da voi è difficile, non esiste la possibilità di avere il visto umanitario, ad esempio. C’è un programma di protezione internazionale, pensavo di fare domanda ma sono stata dissuasa. Mi hanno fatto un’offerta in Germania, ho accettato, e sono partita.
Che cos’è “Doxa”, e perché Doxa? C’era un vuoto che era importante colmare?
“Doxa” è innanzitutto un media indipendente indirizzato ai giovani che ogni giorno devono affrontare in Russia la distruzione della realtà politica. È molto difficile informarsi, trovare modi per scambiarsi riflessioni, cambiare insieme il nostro paese, sbarazzarsi di questo orrore totalitario che si manifesta davanti ai nostri occhi… e trovare un terreno sul quale costruire un futuro comune. “Doxa” è nata proprio per reagire all’assenza di partecipazione dei giovani alla politica. Dal 24 febbraio cerchiamo di dare ai giovani russi gli strumenti per resistere, per opporsi alla guerra e a questo meccanismo repressivo. Inoltre sosteniamo gli attivisti e i movimenti contro la guerra, gli forniamo degli spazi in cui esprimersi…
I giovani russi li definiresti apatici o politicizzati? Qual era la situazione prima che nascesse “Doxa” e adesso a che punto siamo?
Quando abbiamo fondato “Doxa”, nel 2017, la militanza dei giovani e l’attivismo si stavano pian piano facendo strada. Nel 2019 ci sono state a Mosca molte manifestazioni. Il 60% dei partecipanti erano giovani studenti con i loro professori. I movimenti contro la guerra, come Vesna, erano composti da studenti che ora sono cresciuti. Altri movimenti come FAS [Feministskoe Antivoennoe Soprotivlenie, letteralmente “Resistenza femminista contro la guerra”, associazione di femministe russe nata nel febbraio 2022 e di supporto al movimento contro la guerra, N.d.T], è composto da giovani ragazze, donne, che manifestavano. Non sono movimenti nati dal nulla, per carità, c’è sempre stata questa resistenza… ma i giovani come me, che dalla nascita non hanno visto che Putin al potere, non hanno un’altra realtà con cui paragonarsi. Per noi quello che succede è un vero e proprio orrore, è una tragedia con cui dobbiamo fare i conti. La generazione precedente alla nostra ha sempre rifiutato di esporsi politicamente e ha preferito accettare tutto quello che le veniva propinato al solo scopo di conservare quello che era riuscita a ottenere, i cosiddetti “sazi anni 2000” [i primi anni Duemila, che corrispondono ai primi due mandati di Putin, caratterizzati da relativo benessere rispetto ai “selvaggi anni Novanta”, in russo lichie devjanosty, N.d.T]. Le generazioni più giovani non hanno fatto questo tipo di esperienza. Gli studenti hanno un maggiore accesso alle informazioni, hanno una posizione più privilegiata, e questo li spinge a manifestare.
Come si manifesta tutto ciò nelle scuole e nelle università? Negli ultimi anni è cambiato qualcosa?
Le scuole sono istituzioni gerarchiche i cui docenti sono sempre stati marionette alla mercé dello stato. Pensiamo alle lezioni di storia. La storia in Russia è controllata dallo stato che cerca di usarla come strumento di propaganda. Le lezioni di storia sono le “lezioni di vita” [in russo “uroki o važnom”, N.d.T.]: raccontano ai ragazzi perché serve la guerra e che è normale occupare territori ucraini. È un meccanismo spaventoso, totalitario, è palese l’intervento dello stato. Quando ti dicono che così è giusto, non c’è dialogo, non hai possibilità di agire. Prima della guerra nelle università era tutto più semplice, erano indipendenti, c’era una certa libertà, un’etica, come nella Higher School of Economics. Non si correva sempre il rischio di finire dal rettore o di essere espulsi. Adesso è diverso, il rettore Nikita Anisimov si è recato nella Repubblica popolare di Luhansk [annessa alla Federazione Russa il 30 settembre 2022 è stata dopo un referendum, NdA] per “trovare contatti”, “aprire una filiale”, “sviluppare la mobilità”. Scusate, ma di che mobilità stiamo parlando…/
Credi di appartenere a una minoranza o credi che ci sia un certo livello di politicizzazione della società?
Sicuramente è presto per affermare che esista una maggioranza coesa e organizzata contro la guerra. Sono molti, secondo i sondaggi il 30% dei giovani. Ma come si fa a capire se le persone approvano o disapprovano la guerra? In uno stato autoritario le persone non si espongono, e non tanto perché hanno paura, ma perché c’è questa sorta di democrazia plebiscitaria in cui quando ti viene chiesto qualcosa, fornisci la risposta che l’interlocutore, lo Stato, vuole sentire. E poi magari nel tuo piccolo, di nascosto, porti avanti una tua minima protesta, incollando adesivi con messaggi contro la guerra o raccogliendo aiuti per i profughi ucraini. Ci sono forme di resistenza contro la guerra molto celate, difficili da cogliere. C’è sicuramente un movimento contro la guerra destinato a crescere, ma è difficile prevedere quando si svilupperà una vera e propria massa critica. D’altro canto con la mobilizzazione e la legge marziale nelle regioni confinanti, le persone hanno capito che la guerra non è lontana da casa, ma è già arrivata a bussare alle loro porte, e continuerà ad arrivare dai loro figli e parenti, nessuno ne sarà indenne. È un lento processo di risveglio dal letargo politico.
Possiamo parlare di conflitto generazionale in Russia? O di conflitti all’interno delle famiglie? Penso ad esempio al film Legami spezzati di Andrej Lošak [disponibile su YouTube con sottotitoli in italiano realizzati da Memorial Italia N.d.T.]
Non parlerei di conflitto generazionale, ma direi che ci sono casi di intere famiglie distrutte… è una tragedia enorme: la propaganda fa sì che le persone sacrifichino le proprie relazioni pur di restare in questa finta realtà, in cui si crede che tutto andrà bene… perché uscendone arriverà l’America con la bomba atomica, e farà saltare in aria tutti! Sono state scritte tante guide su come parlare in famiglia, come rispondere a certe domande. Certo è che molti hanno esaurito tutte le strategie per far capire ai propri parenti quale sia la situazione reale.
Come possiamo curare questa società, o perlomeno aiutare i russi che vorrebbero lasciare la Russia ma che non possono farlo?
È una domanda alla quale non è semplice rispondere. Chi è rimasto in Russia spesso porta avanti attività che non hanno una gran visibilità, come raccogliere aiuti, organizzare incontri in cui qualcuno racconta cosa ha visto in Ucraina. Questa guerra ha risvegliato i russi, ci sono persone che stanno perdendo figli, fratelli, mariti: è una popolazione silenziosa che inizia a farsi sentire, come nel caso dell’Unione delle madri. Si tratta però di un meccanismo che va sostenuto. In molti neppure sanno cosa sia il VPN [acronimo di Virtual Private Network, ossia “rete privata virtuale”, un servizio che protegge la connessione internet e la privacy online N.d.C.], o non possono o sanno comprarlo, oppure permetterselo. Noi di Doxa abbiamo distribuito 30.000 VPN di durata semestrale o annuale. Bisogna investire su questi strumenti di resistenza digitale. Bisogna far capire alle persone, ad esempio, come si possono eludere i blocchi dei siti. Molti dei miei contatti sono ancora in Russia, ma forse prima o poi anche loro andranno via. L’importante è non isolarli. C’è questa idea secondo cui chi ha lasciato la Russia vuole dire a chi resta come deve vivere e cosa deve fare. C’è una sorta di tensione, di conflitto tra chi è dentro e chi è fuori. Sono d’accordo sul fatto che noi, che non siamo in Russia, non possiamo dire loro cosa debbano fare. Credo però che si possa condividere soprattutto la resistenza digitale. C’è molto spazio per lavorare insieme, è importante essere solidali e trovare i modi migliori per farlo.
Qual è la tua idea dell’URSS?
Ho studiato molto public history, e ho un forte senso della giustizia sin da quando ero bambina… le storie sul terrore, sul gulag, su Sandormoch mi hanno da sempre atterrita. La generazione postsovietica non ha elaborato questo trauma, non ne ha parlato pubblicamente, perché negli anni Novanta c’erano tanti altri problemi e lo stato ha pensato bene di dare un giro di vita e non affrontare la questione. Il contributo di Memorial è stato ed è fondamentale: lavorare direttamente con la società civile per superare questo trauma. Quando penso all’URSS mi viene in mente un passato oscuro e traumatico… l’ennesimo problema con cui la mia generazione dovrà fare i conti.
“Doxa” non è ancora entrata nella lista degli agenti stranieri, credi che toccherà anche a voi questo destino?
È paradossale che non siamo ancora in quella lista, ogni venerdì inseriscono dei nuovi nomi, prima o poi potrebbe succedere… ma ormai, che dire, se ci rientreremo, pazienza, doveva succedere, anzi, è quasi un peccato che non ci siamo ancora. Se invece saremo etichettati come organizzazione non grata o estremista, questo sì che sarà un fardello del quale sarà difficile disfarsi, perché potrebbe essere un problema anche per i nostri lettori in Russia. Come dire, essere “agente straniero” è come avere un raffreddore, l’infezione vera e propria non è ancora arrivata.
Quando tornerai in Russia?
Quando le cose cambieranno davvero. Quando Putin sarà morto, forse tra dieci, o vent’anni, chi lo sa.