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I buriati nella guerra in Ucraina: né col Cremlino, né con Kiev

Intervista al vicepresidente della fondazione Svobodnaja buriatija (Buriazia libera), Viktorija Maladaeva sull’imperialismo russo nei confronti delle minoranze e sulla nascita di un mito della propaganda russa: i “combattenti buriati di Putin”.

(di Farisa Duradova, giornalista)


03 novembre 2022 
ore 10:10


L’intervista originale di Farisa Duradova a Viktorija Maladaeva è stata pubblicata sul sito di Novaya Gazeta. Europa, Memorial Italia ringrazia la redazione per averne autorizzato la traduzione in italiano. Per conoscere tutte le novità della testata in lingua inglese si può seguire l’account Twitter o iscriversi alla newsletter. Traduzione di Ester Castelli e FV.


La Buriazia all'interno della Federazione Russa
La Buriazia all’interno della Federazione Russa (TUBS, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)



“Noi, buriati di tutto il mondo, crediamo nei valori umanistici e della democrazia, e ci siamo uniti per rendere la Buriazia libera e prospera. Ci opponiamo al razzismo in qualsiasi sua forma e riteniamo xenofoba la guerra con l’Ucraina”. Queste parole accolgono chi finisce nel sito della fondazione Svobodnaja Buriatja, che dall’inizio della guerra in Ucraina cerca di rimpatriare i soldati russi e di spiegare loro che sono coinvolti in un’operazione criminale. La corrispondente di Novaja gazeta. Europa ha intervistato il vicepresidente della fondazione contro la guerra Viktorija Maladaeva riguardo al suo lavoro, all’attivismo, e all’imperialismo russo nei confronti delle minoranze, e anche riguardo alla nascita di un mito della propaganda russa: i “combattenti buriati di Putin”.


Ulan Ude, capitale della Buriazia (foto di Rita Willaert, CC BY-NC-SA 2.0)



Da dove è nata l’idea della fondazione?


L’abbiamo creata sulla base del movimento “Buriati contro la guerra” quasi a ridosso del 24 febbraio. I familiari dei soldati ci chiedevano di aiutarli a trovare i dispersi, di salvarli dalla prigionia, di riportarli a casa. Ci siamo resi conto che mai avremmo potuto fermare la guerra o influenzare Putin, ma abbiamo trovato un modo per contrastarla, la guerra: rescindendo i contratti dei soldati. Siamo 11 persone in squadra, ognuna con una sua forma mentis. La fondazione racconta le storie dei soldati, tiene le statistiche sui morti, sfata le fake news sui crimini commessi dai buriati. Nessuno degli 11 componenti della squadra si trova in Russia, siamo tutti all’estero e lavoriamo tutti quanti. Nessuno di noi, però, voleva stare a guardare quando è iniziata la guerra; tutti volevamo smontare la propaganda perché i nostri connazionali non morissero in questa guerra criminale. Siamo molto dispiaciuti che tutto questo stia accadendo all’Ucraina. Vorremmo che la guerra finisse al più presto. Dopo i fatti di Vinnycja, il declino morale è stato tale e tanto, che di questo orrore, di questo incubo non si vede la fine. Noi però resistiamo: stiamo facendo qualcosa di buono, noi ce ne rendiamo conto e le persone ne hanno bisogno, ed è questo che ci fa andare avanti. Inoltre, abbiamo un sacco di sostegno da parte degli stessi ucraini, che ci ringraziano per quanto facciamo. E questo è molto importante per noi.


Siete stati fra i primi a raccontare dei soldati russi che si rifiutano di combattere e vengono mandati in campi speciali (e illegali) di “rieducazione”. Come ne siete venuti a conoscenza?


Oksana Pljusnina ha un figlio in Ucraina (il soldato Il’ja Kaminskij, buriato) e, ci ha contattati attraverso i social network chiedendoci aiuto: il figlio aveva già scritto più di 20 richieste per lasciare l’esercito, che però venivano strappate ogni volta senza che lui potesse tornare a casa. Insieme a lui volevano tornare altri 78 commilitoni, cioè la brigata paracadutisti d’assalto n. 11. Abbiamo consigliato alla madre e alla moglie di Kaminskij di registrare le videochiamate, dato che avevano già bussato a tutte le porte senza ottenere risposta. È una lamentela standard di tutti quelli che ci contattano: le autorità non rispondono a chi chiede di trovare i dispersi e di restituire i prigionieri. Fanno promesse che non mantengono, e per questo i familiari si rivolgono a noi.


Eppure, ci sono stati casi in cui la rescissione del contratto è andata a buon fine. Perché in alcuni casi è stato possibile e in quello di Kaminskij e dei suoi colleghi no?


Direi che dipenda dal comando e da dove si trovano i militari, in quale parte dei territori occupati, che sono comunque una grande zona grigia, dove la legge non esiste e dove un qualche comandante di basso rango si sente onnipotente. Inoltre, molti dei nostri successi sono precedenti alla grande visibilità che abbiamo avuto. Siamo stati comunque noi a chiedere ai familiari di Kaminskij di rendere nota la sua storia. In generale, diciamo a tutti di registrare le videochiamate, così da non essere accusati di falso, così da dire: “Eccolo, è una persona reale”. Diciamo loro: “È vostro figlio, se vi è caro il suo destino, registrate le videochiamate, difendetelo come potete, con tutte le vostre forze, e rendetele pubbliche: è l’unico modo, nessuno vi firmerà mai niente”. Ai soldati nemmeno davano la carta per scrivere la richiesta. Il’ja, per esempio, era talmente disperato che aveva sempre il telefono in mano e lo passava anche ai colleghi, perché registrassero quello che avevano da dire: “Io, tal dei tali, voglio lasciare l’esercito”. Il’ja ha raccontato che li avevano divisi in gruppi di 8-10 persone, perché se gli scontenti sono 80 ci può facilmente scappare una rivolta. Lo sanno benissimo. Per questo li hanno divisi in piccoli gruppi. Un gruppo è finito in prigione presumibilmente nel carcere n. 1 di Lugansk. Il comandante ha costretto tutti a firmare un foglio in cui accettavano di tornare a combattere. Li ha minacciati in ogni modo: “guardate che il primo gruppo è già ripartito, hanno accettato tutti di tornare a combattere, e voi farete altrettanto”. Il’ja temeva che li avrebbero mandati in prima linea.


Lei ha scritto sui suoi social media che spesso i militari non potevano andarsene perché gli venivano sottratti i documenti. Succede a tutti o il comando cerca in qualche modo di capire chi è meno affidabile?


È una storia frequente, sì, molti media hanno scritto che a centinaia di militari vengono sottratti i documenti. Questo perché, a quanto pare, essendo a corto di carne da cannone, non vogliono lasciare andare i soldati che hanno. La primavera scorsa in Russia c’è stata una mobilitazione nascosta. Hanno reclutato un sacco di gente, sono andati paese per paese (nei più piccoli, ovvio), hanno radunato volontari, hanno fatto firmare fior di contratti. Con noi che dicevamo a tutti di non firmare niente. Perché la via d’uscita è una sola: una bara di zinco. Abbiamo citato come esempio due militari di Kjachta, una cittadina di confine della Buriazia, da dove in aprile sono partiti in due. A maggio erano già morti. I volontari di maggio – hanno scritto poi – sono morti all’inizio di luglio. A uno sono bastate due settimane per morire al fronte: è morto subito. E pian piano la gente ha iniziato a rendersi conto che prendeva un biglietto di sola andata. Per questo i comandanti non vogliono lasciar andare via la carne da cannone che hanno.


Avete una statistica delle richieste? Cosa vi chiedono i militari che si rivolgono a voi?


Di solito sono i familiari a rivolgersi a noi. Scrivono: “Aiutatemi, ho un fratello laggiù, vuole andarsene!”. La richiesta è sempre quella. Capiscono che quella non è la loro patria, e che non hanno nulla per cui combattere, laggiù. La sorella di un militare che era da 19 giorni in Ucraina, ha raccontato che il fratello ha scritto immediatamente la richiesta di licenziamento, e con lui anche altri 15 colleghi. Questo è successo in aprile. Quando i suoi superiori hanno iniziato a fargli pressioni con domande tipo “Chi difenderà la patria?”, lui ha risposto che la sua Patria era altrove: “Se attaccheranno la mia casa, io la difenderò, ma in Ucraina non ho nulla da fare”. Li hanno trattenuti a lungo, ma alla fine li hanno lasciati andare tutti e sono tornati a Ulan-Ude.


Con richieste simili, qual è la gamma di opportunità che offrite come associazione per i diritti umani? Cosa potete fare di preciso e come potete aiutare i militari?


I movimenti di opposizione, le associazioni sono molte, ma si concentrano principalmente sui raduni e sull’assistenza ai detenuti. Noi abbiamo deciso di aiutare chi vuole lasciare l’esercito. Sono casi in cui il sostegno psicologico è più necessario di quello legale. La richiesta è sempre la stessa, l’iter e i consigli pure: mettere su un pezzo di carta la richiesta e consegnarla al comandante; se non viene presa in considerazione entro 10 giorni, presentarsi a un comando militare e, una volta lì, ripetere la richiesta. Ancora meglio, mandare la richiesta tramite raccomandata. Avrete una prova in più della richiesta presentata. In questi casi è importantissimo sostenere sia i familiari sia i militari, perché spesso non conoscono le leggi, e i comandanti se ne approfittano. Noi compiliamo delle schede, mandiamo sempre materiali a tutti e diciamo che in Russia non esiste un singolo procedimento penale contro qualcuno che si è rifiutato di partecipare alla guerra. Il 70% dell’assistenza che forniamo è questo tipo di sostegno. Potremmo definirlo una sorta di accompagnamento individuale di ciascun richiedente.


Secondo lei, dopo quasi 6 mesi di guerra, è cresciuto il numero di militari a contratto che vogliono rescinderlo?


Non abbiamo statistiche al riguardo perché semplicemente non teniamo il conto. Molto spesso è proprio impossibile: un militare che si rivolge a noi ne porta con sé altri 10–15. Una volta un soldato ci ha scritto insieme ad altri 100 commilitoni. È difficile dire se siano aumentati. Concretamente, a oggi 500 militari sono passati attraverso la nostra fondazione.


Aiutate solo i soldati della Buriazia?


Nelle ultime settimane è aumentato il numero di famiglie che ci hanno scritto da altre regioni della Russia. Ci tengo a sottolineare che siamo una fondazione antifascista e che non aiutiamo solo i buriati. C’è, comunque, l’associazione della Baschiria Akbuzat, a Tuva c’è l’associazione Novaja Tuva, che consultiamo in ogni modo possibile, con cui condividiamo le informazioni in modo che in ogni regione ci sia qualcuno che tenga traccia dei morti, che combatta la propaganda, che dica alle persone di non mandare i loro connazionali a combattere in quei posti. Anche perché chi sta nella provincia più profonda si fiderà più di un connazionale che delle organizzazioni federali di Mosca o San Pietroburgo. È una questione di mentalità: si capiscono meglio.


Prima ha detto che non ci sono procedimenti penali a carico di chi lascia l’esercito. Quali sono, allora, le conseguenze che devono affrontare i militari che tornano a casa?


Le pressioni. Toccano non solo a chi rescinde il contratto, ma anche a chi torna a casa con una ferita superficiale: “spicciati a rimetterti in sesto e torna al fronte”, gli dicono. Li distruggono psicologicamente.


Come reagiscono i militari buriati quando tornano a casa e scoprono che la propaganda russa li ha quasi resi il volto della guerra in Ucraina? Mosca vuole far credere che a uccidere gli ucraini non siano i russi, ma i ceceni, i daghestani, i buriati…


Male, ovvio. Sono cose che hanno visto coi loro occhi, sanno benissimo come stavano. In primavera, hanno raccolto kit medici per i militari al fronte diramando appelli ovunque, e nel frattempo il nostro Ministero della Difesa spendeva decine di trilioni di dollari per il proprio “sostentamento”. Il tutto mentre la Buriazia deve raccogliere di continuo donazioni per l’acquisto di termocamere, giubbotti antiproiettile, kit di pronto soccorso, calze, pantaloni… Di tutto in pratica… È proprio un’indecenza… Al fronte i soldati hanno visto tutto, e hanno visto come proprio lo Stato, l’esercito di cui sono parte li ha abbandonati. Per questo nessuno vuole ritornare al fronte. L’ho già detto: i soldati buriati hanno capito che questa non è la loro guerra, che questa non è la loro patria. E poi, perché proprio i buriati dovrebbero combattere per la grande Russia? L’idea stessa della denazificazione dell’Ucraina suscita rabbia e perplessità in tutte le minoranze etniche che per una ragione o per l’altra hanno sempre subito discriminazioni. Ho vissuto a San Pietroburgo per nove anni, e la mia famiglia non è mai riuscita ad affittare un appartamento perché affittavano solo agli “slavi”. Abbiamo dovuto trovare una sistemazione tramite conoscenti. O un altro caso. Ho partecipato a un concorso di bellezza, e tutti, nei commenti, hanno scritto: “Ma perché una ragazza buriata partecipa a un concorso di bellezza a San Pietroburgo? Che c’entra? Che se ne torni a Ulan-Ude”. Un giorno fermarono mia madre in metropolitana. La polizia la trattenne per cinque ore solo perché non aveva con sé un documento d’identità. In tempo di pace i buriati dovevano dimostrare di essere cittadini russi a tutti gli effetti. In tempo di guerra, invece, la musica cambia: “Buriati cari, forza, che c’è da lavorare” da un lato e “i buriati, soldati di Putin” dall’altro. Ormai lo vedono tutti: l’impero, la Russia sta semplicemente usando delle minoranze etniche per conquistarne delle altre.


Però, lo stigma dei “buriati, soldati di Putin” è tutto nostro, nostra la colpa di tutti i saccheggi, le uccisioni, la violenza… All’interno dell’esercito russo i buriati sono solo il 2% del totale. L’etnia buriat è lo 0,3% della popolazione totale. Il nostro gruppo etnico è una minoranza in tutte le regioni dove viviamo: nello Zabajkal’skij Krai, in Buriazia e nella regione di Irkutsk. Lo stesso vale nell’esercito. Abbiamo tre gruppi militari e anche lì i buriati sono una minoranza. Lo dicono anche le statistiche dei caduti. Stando ai dati più recenti, dei 281 morti della Buriazia 92 erano di etnia buriata. Per i russi, tutti gli asiatici sono buriati. Lo abbiamo detto anche agli ucraini: i russi definiscono buriati tutti gli asiatici. Non sono in grado di distinguere, ad esempio, un tuvino da un buriat, o un kazako da un buriat. E infatti i morti kazaki sono di più dei nostri. E comunque, poco ma sicuro, qualche kazako ucciso è stato scambiato per buriato… Grazie a Putin, dobbiamo occuparci anche di questo. Ci additano come se fossimo noi i razziatori più agguerriti. Noi rispondiamo che, di fatto, i pacchi rubati in Ucraina hanno come principale destinazione la regione di Sverdlovsk, quella di Kemerovo, Mosca, San Pietroburgo e Sebastopoli, cioè di sicuro non le regioni più povere della Russia e, di certo, non le repubbliche nazionali. La Buriazia è in fondo alla lista. Lo confermano anche i dati raccolti da un’indagine di Mediazona [media indipendente russo fondato da Marija Alechina e Nadežda Tolokonnikova, co-fondatrici delle Pussy Riot, NdT]. La propaganda si adopera in ogni modo per fare di noi i cattivi, gli assassini più spietati di questa guerra, e invece guardando la trasmissione Cerca i tuoi cari o il video dei prigionieri che ha girato il noto giornalista ucraino Zolkin, su mille interviste, una sola è a un prigioniero buriato.


Prima rescindere i contratti era più facile. Da dopo l’estate tutti i soldati erano di fatto trattenuti nei territori occupati. Mancava la carne da cannone: parecchi soldati lasciavano e non ne arrivavano di nuovi. È a quel punto che hanno deciso di fare dei buriati il volto della guerra: per dimostrare che il “popolo multietnico della Russia” era contro i “nazisti ucraini”. In secondo luogo, i crimini di guerra erano da scaricare sui “selvaggi ai confini dell’impero”. Perché un soldato russo non può commettere delle atrocità, un soldato russo può giusto salvare gattini. E poco importa che in Russia i russi siano la maggioranza assoluta, mentre i buriati rappresentano meno dell’1%. Con questa mistificazione, il Cremlino ha preso due piccioni con una fava, anche l’indignazione degli ucraini nei confronti dei “barbari buriati” come ulteriore prova del loro essere “nazisti”.


Ma com’è nata questa storia? È dal 2014, da quando Putin ha iniziato a mandare soldati nel Donbass, che per qualche motivo si è iniziato a parlare dei buriati.


Mosca ha ogni interesse a fingere che a combattere non sia la maggioranza etnica slava, ma qualche “barbaro ignorante”, o l’“orda”, come ci chiamano ogni tanto. Nel 2015, quando c’è stato il primo ingresso di truppe in Ucraina, si è combattuto nei pressi di Debal’tscevo, nel Donbass, e il Cremlino ha deciso di inviare sul posto anche i buriati, facendoli passare per minatori del Donbass. All’epoca la gente del posto diceva: “Questi sono i nostri indiani-buriati”. All’epoca, Elena Kostjučenko, una giornalista di Novaja Gazeta, intervistò un soldato che guidava un carro armato russo e che era finito ustionato, Dorži Batomonkuev, della Transbajkal’ja (l’unica intervista mai fatta a un militare russo). Per curare le ustioni di Batomonkuev la sua repubblica dovette fare una colletta: lo Stato lo abbandonò completamente. Si diceva già allora che questa brigata di carristi aveva subito molte perdite, e a quanto pare ne subisce parecchie anche ora. Perché i buriati si sono dovuti bagnare due volte nello stesso fiume? Dorži Batomonkuev aveva un comandante russo, all’epoca, ma tutti parlavano dei buriati e basta: come se fossero stati loro a conquistare il Donbass. Quando è iniziata l’“operazione speciale”, sul Primo Canale Šejnin [il presentatore del programma di propaganda Vremja Pokažet (Chi vivrà vedrà), NdT] ha fatto questa osservazione: “Conquisteremo Kiev e l’Ucraina. Forza, dateci sotto fratelli buriati”. E ha ripetuto questa frase in buriat: “Ažalaa Hegty, Burjaad Kubuduud”. Perché concentrarsi sui buriati? Che cosa abbiamo fatto? In fin dei conti siamo una minoranza. Lo scopo della nostra Fondazione è esattamente questo: indagare, stilare statistiche…


Purtroppo, la televisione ucraina ha riproposto la narrazione del Cremlino: i buriati sono saccheggiatori e assassini. Il giornalista e blogger ucraino Anatolij Anatolič ha pubblicato un video in cui sostiene che i buriati sono i soldati più violenti, e che ce n’erano anche a Buča. Abbiamo approfondito anche questo: a “distinguersi” a Buča è stata la 64ª brigata della regione di Chabarovsk, sono stati i paracadutisti di Pskov, loro hanno subito le perdite maggiori. La brigata constava di 1.500 soldati circa e i nomi buriat sono giusto 30. È inconcepibile che 30 buriati abbiano devastato tutte queste città violentando a destra e a manca… Il giornalista ha pubblicato il video di Zorigto Žigžitov, trovato nell’elenco dei militari della 64ª Brigata. In realtà Marija Votjuškova, la direttrice del dipartimento analitico della Fondazione, ha scoperto che si tratta di un elenco del 2018. Cosa che, tra l’altro, salta subito all’occhio, visto che gli attuali comandanti non sono nell’elenco e che Zorigto Žigžitov ha lasciato l’esercito nel 2019. Anatolij Anatolič ha pubblicato comunque il video e su di noi si è riversato altro odio. Lo abbiamo invitato nella nostra trasmissione, abbiamo trovato Zorigto Žigžitov che ora vive in Buriazia, e tre suoi colleghi dell’Altaj anche loro nell’elenco. Erano stati tutti minacciati. Abbiamo parlato con loro. Hanno confermato che Zorigto aveva lasciato l’esercito da tempo. Ad Anatolij Anatolič l’abbiamo chiesto in diretta perché, di tutti i mille e passa uomini della 64ª brigata, aveva scelto solo un soldato, un buriato, e oltretutto senza nessuna prova. Ha confessato di aver giusto guardato la sua pagina su Odnoklassniki [un social network russo, NdT] e di avere deciso che Zorigto aveva il physique du role giusto: ha una cicatrice sul viso, è a torso nudo in tutte le foto… È il perfetto buriat da temere. Il cattivo per antonomasia, ha detto. Ma come si può? Come si può prendere qualcuno che per di più non era nemmeno soldato… A proposito di Buča abbiamo anche detto che i principali accusati erano i paracadutisti di Pskov. Anche Arestovič [giornalista e blogger ucraino, NdT] e il Conflict Intelligence team – un gruppo di giornalisti investigativi – hanno condotto un’indagine e hanno affermato che i buriati e i tuvini non erano lì, e che i veri responsabili sono “gli slavi duri e puri”.


Ma tutto questo che impatto ha sull’umore della Repubblica?


Dopo quanto è successo, Zorigto Žigžitov avrebbe voluto partire volontario, anche perché avevano pubblicato la foto di sua figlia e lui era stato minacciato. Come può una persona tollerare di essere coinvolta in questo schifo? Lo ha fermato la sua famiglia. Molti buriati sono contrari alla propaganda anti-buriata, è ovvio. Fare delle minoranze etniche il nemico è razzismo puro. Per questo non stiamo né col Cremlino né con gli ucraini, né con gli pseudo-oppositori – i cosiddetti “russi buoni”. Anche il pubblicista Piontkovskij ha parlato male di noi; e Aleksander Nevzorov, ex fiduciario di Vladimir Putin, ha detto che un buriato stupra chiunque senza distinzione. A cui noi rispondiamo: “Scusate, ma dei russi non vogliamo dire proprio nulla? Perché ce l’avete tanto con i buriati?”. C’è un detto: “Se un razzista guarda in una stanza con sei persone, di cui due asiatici, dirà che la stanza è piena zeppa di asiatici”. È quello che accade. Basta la foto di un asiatico e il titolo a caratteri cubitali sarà sui buriati che stuprano. Noi ci difendiamo come meglio possiamo: con le indagini. A oggi, del resto, nessun buriato è stato incriminato. Com’è ovvio noi non difendiamo i criminali di guerra, tutt’altro. Durante un’indagine un buriato è stato identificato da una foto, ma senza che gli venissero mosse delle accuse: era lì, hanno detto, sparava altrove. Siamo stati noi a trovare due testimoni che lo hanno identificato. Ora siamo in attesa di approfondimenti. Perché quando Anatolij Anatol’ič dice che Žigžitov è colpevole degli omicidi e accusa un uomo innocente, vuol dire che il vero assassino è ancora là fuori. E dov’è, la giustizia?

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