(di Anton Dolin, critico cinematografico)
21 ottobre 2022
Ore 08:16
Il cinema russo si “emancipa” dall’accademia cinematografica americana, ma questa difficilmente se ne accorgerà, secondo il critico cinematografico Anton Dolin. Per gentile concessione di Meduza. Traduzione a cura di Memorial Italia.
Il 26 settembre la Russia annuncia che non candiderà un suo film agli Oscar che si terranno nel febbraio 2023. Peraltro, solo tre giorni prima, il comitato russo degli Oscar aveva comunicato che il film da nominare sarebbe stato scelto tra 122 pellicole. Eppure secondo il presidente dell’Associazione cinematografi della Federazione Russa Nikita Michalkov, lui stesso premio Oscar, questa sarebbe stata una “mossa insensata”. Successivamente il direttore del comitato russo degli Oscar Pavel Čuchraj ha lasciato l’incarico, assieme ai registi Nikolaj Dostal’ e Andrej Zvjagincev, membri organizzativi. Il critico cinematografico di Meduza Anton Dolin ricorda le relazioni tra l’Oscar e l’industria cinematografica sovietica prima e quella russa poi.
La Russia quest’anno non candiderà nessun film agli Oscar. Cosa comporta questa decisione? Per l’Academy assolutamente niente. La categoria “Film straniero” in cui rientrano le pellicole che non sono in lingua inglese non è una categoria fondamentale, anche se al di fuori degli Stati Uniti, per ovvi motivi, è seguita con molta attenzione. Hanno già abbastanza candidati e ogni novità – come il Bhutan, lo scorso anno – risulta talvolta più interessante e importante dei partecipanti storici della competizione. L’inclusione di nuovi partecipanti è la riprova della crescente autorevolezza di questo premio che non perde lustro/prestigio.
Per la Russia questa è la fine della sua lunga storia negli Oscar, almeno per il momento – un momento, questo, che si spera non duri in eterno.
In epoca sovietica il premio Oscar rappresentava un qualcosa di lontano, esotico, imperscrutabile. Era certamente importante per il prestigio del paese, e non tanto per coloro che ne erano stati insigniti, come Sergej Bondarčuk (Guerra e pace del 1969), o Vladimir Men’šov (Mosca non crede alle lacrime del 1981). Solo Akira Kurosawa con la sua statuetta del 1976 per Dersu Uzala, girato in coproduzione tra Giappone e URSS, aveva percepito il trionfo come una vittoria personale.
Nel periodo postsovietico il rapporto con gli Oscar iniziò a cambiare. Negli anni Novanta la cinematografia russa era giovane e molto promettente, e questa sensazione si materializza nel 1995 con la vittoria di Nikita Michalkov e il suo Sole ingannatore.
Più volte i film russi sono stati nominati nella categoria miglior film straniero. L’ultimo fortunato è stato Andrej Zvjagincev, peraltro doppiamente, con Leviathan (2014) e Loveless (2017). Parallelamente agli Oscar, nella categoria “Miglior cortometraggio di animazione”, erano stati nominati autori di film di animazione sovietici, in particolare Konstantin Bronzit. Nel 2000 Aleksandr Petrov aveva ricevuto l’Oscar per il cortometraggio d’animazione della storia di Ernest Hemingway Il vecchio e il mare.
Dopo il 2000 si alternavano aspre critiche all’Academy, accusata ripetutamente di non prendere in considerazione il cinema russo, fino a ignorarlo – di sicuro per motivi politici, secondo gli addetti ai lavori nostrani, che rispondevano con snobbismo: a cosa serve l’approvazione degli americani?
Rifiutarsi di presentare un film agli Oscar nel 2022 sembra dunque l’epilogo naturale di questa storia, rifiuto peraltro che viene dall’unico regista russo che in epoca post-sovietica aveva ottenuto questo premio tanto agognato, ovvero Nikita Michalkov. L’ineffabile, lenta morte dell’industria cinematografica russa avviene sullo sfondo dell’esodo di studi, film e distributori hollywoodiani che hanno lasciato la Russia. Un esodo che ben si intona con quest’ultimo gesto del cinema nostrano.
Simbolicamente questa decisione è un gesto di “emancipazione” dall’influenza americana. Almeno così sembra.
L’industria cinematografica russa contemporanea e il sistema di distribuzione sono molto cresciuti grazie all’interesse del pubblico, sempre in aumento, per il cinema americano di intrattenimento – e questo interesse rimane alto, nonostante i “record” dei blockbuster nazionali (comunque ancora classificati come “non peggio di Hollywood”).
Il pubblico russo sarà anche orgoglioso dei registi nazionali – come Nikita Michalkov i cui film recenti, però, sono stati un flop al botteghino – ma più di tutto vuole poter vedere i film di Hollywood. Gli spettatori russi, ora come ora, sono molto più delusi dalla sparizione dei film americani dagli schermi nazionali piuttosto che dalla perdita di premi prestigiosi per gli autori russi.
Era proprio il caso di provocare un’altra divisione, sia pure locale, in ambito professionale? È una domanda retorica. La decisione del comitato russo degli Oscar – che ha fama di essere un’organizzazione estremamente opaca e i cui membri cambiano periodicamente o vengono rinnovati in base a criteri non meglio definiti – è stata presa sopra la testa di alcuni suoi membri. E già ora quattro di loro, tutti registi, hanno lasciato il comitato: Nikolaj Dostal, Pavel Čuchraj (che fra l’altro ne è il presidente, tanto per rendere la situazione anche più assurda…), Andrej Zvjagincev e Vladimir Kott.
Certo, nel 2022, per un film russo le possibilità di essere candidato ad un premio Oscar erano davvero scarse. Dobbiamo anche prendere atto che i film girati in questa stagione non soddisfano i requisiti dell’Accademia americana, eccetto, forse, La moglie di Čajkovskij di Kirill Serebrennikov. Ma escludo che la commissione russa per gli Oscar possa nominare il film di un regista che ha la reputazione di essere un dissidente.
Ma davvero il problema era il rischio di non essere selezionati? È una situazione da Volpe e l’uva o da Joe il latitante di epoca sovietica, che, come è risaputo, non fu mai catturato perché “di lui non frega niente a nessuno”.
Piccola città nel deserto americano, un saloon con due cowboy, uno del posto e uno che viene da fuori, sono seduti a un tavolo e bevono del whisky. D’improvviso, un uomo si precipita in strada di corsa, sparando all’impazzata. Nessuno nel saloon ci fa caso. Il visitatore chiede all’“indigeno”:
– Bill?
– Sì, Harry?
– Cos’è stato, Bill?
– Quello era Joe il latitante, Harry.
– Perché lo chiamano Joe il latitante, Bill?
– Perché nessuno l’ha ancora catturato, Harry.
– Perché nessuno l’ha ancora catturato, Bill?
– Perché di lui non frega niente a nessuno, Harry.
A posteriori ci possiamo domandare se l’Accademia degli Oscar abbia in qualche modo trascurato la Russia. La risposta sorge spontanea: no, al contrario. L’URSS e la Russia sono stati tra i dieci paesi più “decorati” della storia degli Oscar. Un Oscar a Michalkov a tre Oscar sovietici: sono quattro statuette. Per non contare le sedici nomination.
È un risultato di tutto rispetto, non è confrontabile, certo, coi premi delle due punte di diamante, Italia e Francia, ma è comunque paragonabile ai risultati del Giappone (cinque vittorie, diciassette nomination) o della Danimarca (quattro vittorie, quattordici nomination). E questo nonostante l’ultimo Oscar, l’anno scorso, sia stato assegnato al Giappone per Drive My Car, e alla Danimarca due anni fa per One More at a Time – tanto per dire che fino a due anni fa la nostra posizione in classifica era anche migliore. Ma ora questo discorso non conta più.
Vorrei solo tornare indietro al momento in cui il Primo Canale della tv russa ha praticamente rifiutato di trasmettere in diretta la cerimonia degli Oscar: è stato nel 2015, subito dopo l’annessione della Crimea. In quell’anno Leviathan era candidato alla vittoria. Si diceva che la direzione del canale avesse paura: che cosa sarebbe successo se Zvjagincev avesse vinto il premio, chissà che cosa avrebbe detto al microfono. Così la Russia ha iniziato a voltare le spalle agli Oscar, senza che l’American Awards gliene desse motivo. E fin dall’inizio si è trattato di politica e di censura. Ma non di certo da parte dell’America.