“I serbi amano Putin anche più dei russi, mentre l’Ue non fa molto per i Balcani”. Conversazione con Pëtr Nikitin

L'attivista e traduttore di origini russe da tempo residente a Belgrado: "Vogliamo far capire ai serbi che la Russia non è Putin, e che tra russi, ucraini e bielorussi non c’è un conflitto etnico. È un conflitto inventato, politico”.

(di Sara Polidoro, dottoranda presso l’Università di Bologna, interprete-traduttrice di lingua russa e serba e socia di Memorial Italia)


18 ottobre 2022 
Ore 07:41


Memorial Italia ha intervistato Pëtr Nikitin, traduttore di origini russe da tempo residente a Belgrado, attivista e membro fondatore del gruppo “Russi, ucraini, bielorussi e serbi insieme contro la guerra”, per richiamare l’attenzione su come viene percepito l’attuale conflitto tra Russia e Ucraina nel paese balcanico, l’unico in Europa a non aver approvato le sanzioni e ad aver chiuso lo spazio aereo alla Russia. Complice anche la possibilità di entrare nel paese senza un visto, dal 24 febbraio 2022 la Serbia rappresenta una delle destinazioni preferite dai giovani russi in fuga dal regime e dalla chiamata alle armi. Secondo i dati dell’Istat serbo, da gennaio a giugno di quest’anno il numero dei pernottamenti negli hotel serbi è triplicato e i visitatori russi sono al primo posto. Sebbene manchino dati ufficiali sul numero di arrivi, i prezzi degli appartamenti nella capitale sono volati alle stelle per via dell’improvviso aumento della domanda, il che la dice molto lunga sull’entità del fenomeno.



Pëtr Nikitin, di cosa si occupava fino al 24 febbraio scorso e com’è cambiata la sua vita professionale da quella data?


Dopo una lunga carriera nell’arbitrato internazionale, dal 2021 avevo iniziato a lavorare come traduttore giuridico. Dal 24 febbraio la mole di lavoro è scesa significativamente, poiché a causa del conflitto sono stati sospesi molti progetti con la Russia. Altri sono stato invece io a rifiutarli per dedicarmi all’attivismo contro la guerra qui in Serbia, attività che richiede parecchio tempo e impegno.


Come mai ha deciso di diventare attivista?


Premetto che non avevo mai pensato di fare l’attivista, anche se ho sempre seguito l’attualità politica del mio paese di origine, la Russia, e dell’Ucraina, che conosco molto bene. Nel 2021 ho guidato alcune manifestazioni in Serbia a sostegno di Aleksej Naval’nyj. Avevamo organizzato un sit-in davanti l’ambasciata russa a Belgrado, con altri russi. In seguito abbiamo creato un gruppo su Facebook a sostegno delle proteste russe in Serbia per riunire gli esuli russi che non sostengono il regime di Putin. Quando è iniziata la guerra, all’inizio siamo andati spontaneamente presso l’ambasciata ucraina qui a Belgrado a deporre fiori e candele, e poi davanti l’ambasciata russa, dove abbiamo incontrato ucraini, serbi e bielorussi che protestavano contro la guerra. In quell’occasione abbiamo deciso di creare un unico gruppo dal nome “Russi, ucraini, bielorussi e serbi contro la guerra” [in serbo Rusi, Ukrajinci, Belarusi i Srbi zajedno protiv rata, NdA]. Abbiamo iniziato a fornire aiuto ai profughi ucraini, organizzare manifestazioni e proteste e sensibilizzare l’opinione pubblica. È nata anche l’organizzazione umanitaria “Golub miru” [Un colomba per la pace, NdA] che si occupa dell’assistenza ai profughi ucraini in Serbia. L’obiettivo delle nostre attività è di far capire ai serbi che la Russia non è Putin, e che tra russi, ucraini e bielorussi non c’è un conflitto etnico, si tratta di un conflitto inventato, politico: noi siamo in grado di collaborare e stare insieme. Questa era la mia idea quando abbiamo fondato il gruppo. Purtroppo col tempo questa idea si è un po’ spenta, perché più la guerra va avanti, più inizia ad assomigliare a un conflitto etnico. Dopo Bucha, ad esempio, per molti ucraini lavorare a fianco dei russi si è rivelato molto doloroso. Nell’ultimo periodo facciamo molta contropropaganda, cerchiamo di creare occasioni in cui ci si possa esprimere liberamente sull’Ucraina, perché come sappiamo in Serbia regna la retorica filorussa.


Eppure, a differenza della Russia, in Serbia ci sono ancora dei media indipendenti. Questa retorica non è l’unica a prevalere, o sbaglio?


Da comune cittadino, vedo che in Serbia ci sono sia testate dipendenti che indipendenti. La maggior parte dei canali TV è controllata dallo stato, sono canali filogovernativi. In Serbia poi vanno molto i tabloid. Anche se non li leggi, sono sempre ben in vista. Basta andare a comprare le sigarette in un chiosco, ci cade l’occhio; vai a prendere un caffè al bar, e li trovi sul tavolo. I titoli sono del tenore di “L’Ucraina attacca la Russia” – questo ad esempio a ridosso dell’inizio del conflitto sul quotidiano Informer – o “Zelenskij è un drogato”. I media indipendenti invece appartengono ad aziende occidentali, come il quotidiano Danas e il canale N1. Ci sono poi le riviste NIN e Vreme che offrono contenuti di qualità, anche se non hanno moltissimi lettori. Il problema è che in queste testate indipendenti non c’è nessuno che parli ucraino o russo. Né hanno un corrispondente in Ucraina, al momento. In sostanza, le notizie sui media serbi su Russia e Ucraina non sono sufficienti per informare bene l’opinione pubblica. I serbi sanno davvero poco della Russia.



Le autorità serbe non hanno condannato l’intervento militare russo, né hanno approvato le sanzioni. La Serbia è dal 2012 paese candidato per l’adesione all’UE, ma i negoziati procedono a rilento…


A mio avviso, né il governo né la stessa UE sono interessati all’adesione della Serbia. Né lo sono i paesi membri, considerato che l’allargamento dell’unione non è un tema così attuale. Ho vissuto in Inghilterra e ho seguito il processo che ha portato alla Brexit. Ho il passaporto olandese e ricordo bene il referendum del 2016 [referendum consultivo per l’approvazione dell’Accordo di Associazione dell’Ucraina all’UE, al quale vinse il ‘no’, NdA]. L’Europa non mi sembra pronta ad accogliere i paesi dai quali arrivano i migranti, come l’Ucraina o gli stati dei Balcani occidentali. Peraltro c’è anche il timore che alcuni paesi voterebbero ‘no’ all’ingresso della Serbia, il che potrebbe destabilizzare ulteriormente l’UE. Diciamocelo, nessuno ha bisogno di un’altra crisi. Il governo serbo non sembra neppure propenso ad assimilare l’acquis communitaire, perché ciò vorrebbe dire non restare al potere in eterno, limitare la diffusione dei tabloid, lottare contro la corruzione. Al contempo, però, i fondi dell’UE per l’assistenza tecnica alla Serbia fanno comodo. E all’Europa serve una pace, seppur relativa, nei Balcani. Insomma, da entrambe le parti si parla di avvicinamento all’UE, ma nella pratica non vedo nulla di concreto. C’è poi la questione del Kosovo che viene tirata in ballo ogni volta che c’è bisogno di rivendicare qualcosa. Questa situazione mi affligge. Sono filoeuropeo e spero che la Serbia entri in UE. Ricordo nel 1995 il 50° anniversario della vittoria della Seconda guerra mondiale nei Paesi Bassi, quando vivevo lì, e l’atteggiamento di distensione che c’era nei confronti dei tedeschi. Nonostante la guerra e le colpe della Germania nazista, l’Europa ha lavorato sin dalla fine del conflitto per riconciliarsi con i tedeschi. Già 12 anni dopo, alcuni stati europei si erano organizzati per dar vita a quella che dopo qualche decennio sarebbe diventata l’Unione europea. Qui invece sono passati 23 anni dalla fine delle guerre in ex Jugoslavia, e non si è ancora riusciti a superare il trauma. Credo che la colpa sia della propaganda. L’Olanda, la Germania, il Belgio, l’Italia ci sono riusciti nel 1957, e non ce l’avrebbero fatta se le persone e i governi non avessero davvero avuto voglia di superare il conflitto. In questo senso, devo dire che l’Europa non sta facendo molto per i Balcani.


Diceva che i serbi non conoscono poi così tanto bene la Russia, ma c’è comunque un attaccamento, un amore per i “braća Rusi” [fratelli russi, NdA]. Come se lo spiega?


Non ho una risposta precisa a questa domanda. Come cittadino russo ho vissuto molto fuori dalla Russia, in Francia, Inghilterra e nei Paesi Bassi. Posso dire con certezza che la conoscenza che un serbo medio ha sulla Russia non supera quella di un inglese medio. Lo stile di vita serbo è poi molto diverso da quello russo. Le lingue sono simili, ma non proprio uguali. Dico sempre che la fratellanza si definisce in cucina. Se a tavola si mangiano le stesse cose, allora due popoli li puoi definire fratelli. Non credo che ai serbi piacerebbe molto la cucina russa, mentre il cibo ucraino e quello russo sono molto simili! Scherzi a parte, questo amore conclamato per la Russia non lo definirei vero amore: si ama qualcuno che si conosce. Qui parliamo più che altro della percezione che i serbi hanno della Russia, un paese che ha un altro atteggiamento rispetto agli stati occidentali, e del risentimento che sia i serbi che i russi provano nei confronti del cosiddetto “occidente collettivo”. Sarà molto interessante vedere come cambierà tutto questo una volta che Putin non sarà più al potere. Mi sembra quasi che i serbi amino Putin ancora più di quanto non sia amato in Russia, e che qui in Serbia la guerra goda del sostegno di molte più persone rispetto a quanto non ne abbia in Russia. Nonostante tutta la propaganda e le repressioni, in Russia c’è una minoranza abbastanza consistente che non approva la guerra. Qui, se chiedi per strada alle persone cosa pensano della guerra in Ucraina, ti diranno che la approvano.


Mi pare infatti che in Serbia vi siano state anche manifestazioni a favore dell’operazione militare russa. Chi è che le guida?


Se non erro la prima manifestazione di inizio marzo era stata guidata dal gruppo Narodna Patrola [Guardia popolare, movimento di estrema destra, NdA]. La nostra prima grande protesta voleva essere una risposta a questa manifestazione. Eravamo circa un migliaio di persone, ma è purtroppo rimasta nell’ombra perché non l’avevamo pubblicizzata bene: non avevamo avvertito la stampa. Ed era anche brutto tempo.


E i partiti e i movimenti di opposizione, come “Ne da(vi)mo Beograd” partecipano? [NDM è un movimento politico di ispirazione progressista e ambientalista, nato intorno al 2015 come iniziativa civica contro il piano di sviluppo urbanistico della capitale “Belgrade Waterfront”, fortemente voluto dal presidente Aleksandar Vučić e finanziato da una società degli Emirati Arabi. Per la prima volta quest’anno alcuni loro rappresentanti sono entrati in Parlamento e nel governo della capitale. Il nome del movimento – in italiano “Non affon(diamo) Belgrado” e in inglese “Do not let Belgrade d(r)own” – sta a significare di mettere giù le mani da Belgrado, perché appartiene ai cittadini, e che gli stessi non lasceranno stravolgere il suo volto e la sua anima]


Alcuni dei loro leader si sono uniti alle nostre manifestazioni contro la guerra. Che io sappia sono pochi i partiti politici che si sono davvero espressi pubblicamente condannando la guerra. I politici serbi percepiscono questo atteggiamento filorusso generalizzato e a fatica condannerebbero un qualcosa che i propri elettori sostengono. In Russia si era creata una situazione simile con Naval’nyj, all’epoca dell’annessione della Crimea. Stava cercando di entrare in politica e non si era esposto troppo sulla questione. È difficile per un politico andare contro i propri elettori.


Qual è invece la posizione della popolazione serba nei confronti di politici come Orbán?


Posso sicuramente affermare che nella popolazione serba c’è una tendenza a simpatizzare con i dittatori. È paradossale, perché su alcune questioni qui non si discute, come sul diritto a organizzare proteste e manifestazioni, notoriamente negato da regimi dittatoriali. Il livello di repressione delle manifestazioni che vediamo in Russia qui non è assolutamente concepibile. Penso alle grandissime proteste che ci sono state contro Rio Tinto [proteste ambientaliste di massa dei cittadini serbi a inizio 2022 avevano portato al ritiro delle licenze di estrazione del litio della multinazionale mineraria anglo-australiana Rio Tinto Group, NdA], in cui la polizia è intervenuta, ma l’obiettivo dei manifestanti era poi stato raggiunto. In Russia in molti neanche capiscono che il problema della Russia è l’apparato repressivo di Putin. Per i russi è normale che i poliziotti picchino i manifestanti e li portino via nei blindati, perché sono “poliziotti che fanno il loro lavoro”. In Serbia la base per una democrazia più europea c’è, mentre in Russia il discorso è molto più complesso.


Come sono stati accolti in Serbia i russi che sono arrivati in massa dall’inizio della guerra?


Molto bene, hanno trovato molta ospitalità. Assistiamo però anche a storie di soprusi nei confronti dei profughi ucraini. Una coppia ucraino-russa che si è trasferita in una cittadina di provincia si è vista prima disegnare delle “Z” davanti al portone, poi è stata attaccata fisicamente dai vicini. La polizia ha condotto la ragazza, cittadina ucraina, in commissariato, senza darle la possibilità di usufruire un interprete o di avere un avvocato, mentre il ragazzo – forse perché russo? – non è stato coinvolto. Le è stata comminata una multa per “disturbo della quiete pubblica”, sta facendo ricorso e noi attivisti stiamo cercando di aiutarla. C’è poi la storia di una famiglia di Melitopol’ i cui figli vanno a scuola e si sentono dire “Slava Rusiji” [Gloria alla Russia, NdA]. A Belgrado forse la situazione è migliore, ma nei piccoli centri si ragiona ancora con la logica “noi” e “gli altri”…


E i russi sarebbero “noi” e gli ucraini “gli altri”?


Sì, anche se direi che sono molto più simili tra loro i russi e gli ucraini di quanto lo siano i russi e i serbi. È un’assurdità.


Dove vengono ospitati i profughi? Mi pare vi sia un centro a Vranje, nella Serbia meridionale.


Sì, lì c’è un centro con centinaia di profughi, in particolare da Mariupol’. Sono persone che hanno perso tutto. Lo stato gli fornisce vitto e alloggio, nient’altro. L’organizzazione Golub miru, fondata da un russo di Novosibirsk e un’ucraina della regione di Cherson, membri del nostro gruppo e residenti in Serbia da tempo, raccolgono vestiti, medicinali. Abbiamo fatto una raccolta fondi per acquistare ventilatori durante l’estate e l’occorrente per la scuola per i bambini. Altri profughi vivono sparsi per la Serbia, da conoscenti, parenti, o amici. Credo che vi siano circa 10.000 profughi nel paese.


Qualche mese fa è uscito il film Legami spezzati del regista Andrej Lošak sulle famiglie di russi e ucraini divise dalla guerra, di cui Memorial Italia ha preparato anche i titoli italiani e ne ha già parlato qui. Conosce questo film? Nella sua famiglia vive una situazione simile?


Sì, ho dei parenti filoputiniani a Mosca e già dal 2014 avevo ridotto molto i contatti con loro. Adesso non li sento proprio più.


Lei di professione fa il traduttore. Immagino che metta queste sue competenze al servizio del gruppo di attivisti…


Sì, io e altri traduciamo messaggi, articoli, post, video da YouTube, li sottotitoliamo in serbo, intervistiamo chi arriva qui da Russia e Ucraina. È attività di volontariato, facciamo del nostro meglio. Il nostro obiettivo è offrire all’opinione pubblica serba uno sguardo più vicino alla realtà, quello di chi vive la guerra in prima persona.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Russia. Anatomia di un regime. Dentro la guerra di Putin.

Russia. Anatomia di un regime. Dentro la guerra di Putin. A cura di Memorial Italia con il coordinamento di Marcello Flores (Corriere della Sera, 2022). «Uno Stato che, al suo interno, viola platealmente e in modo sistematico i diritti umani, diventa per forza di cose una minaccia anche per la pace e per la sicurezza internazionali» La deriva violenta della Russia, culminata nell’aggressione militare nei confronti dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 e documentata da tempo sul fronte delle repressioni interne (di cui anche l’associazione Memorial ha fatto le spese), impone una riflessione sempre più urgente su cosa abbia portato il paese a passare dalle speranze democratiche successive al crollo dell’URSS all’odierna autocrazia. Questo volume a più voci, in cui intervengono nel dibattito studiosi italiani e russi che conoscono profondamente la realtà del regime, i metodi, le tecniche di manipolazione del consenso, le curvature ideologiche, il linguaggio politico, affronta la questione da diversi punti di vista, da quello storico a quello culturale e letterario (con implicazioni non solo per la Russia, ma anche per l’Ucraina e i paesi dell’Europa orientale), a quello geopolitico, fino ad arrivare all’attualità, alle proteste e alle forme di dissidenza che continuano eroicamente a esistere per combattere il Moloch putiniano, sempre più assetato di vittime. Nello stallo del conflitto in Ucraina rimane fondamentale il desiderio di comprendere. Non perché non succeda ancora, come scrive Andrea Gullotta nella sua introduzione, richiamandosi ad Anne Applebaum, ma perché “accadrà di nuovo”. Lo testimoniano drammaticamente il protrarsi di una situazione di guerra alle porte dell’Europa, e l’inasprirsi delle persecuzioni, in Russia, contro chi ha cercato e cerca, a rischio della propria vita, di opporsi allo stato di cose e alle terribili conseguenze che può avere su tutti noi. Contributi di Alexis Berelowitch, Marco Buttino, Alessandro Catalano, Aleksandr Čerkasov, Giulia De Florio, Elena Dundovich, Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Andrea Gullotta, Inna Karmanova, Massimo Maurizio, Marusja Papageno, Niccolò Pianciola, Marco Puleri.

Leggi

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria.

Il caso Sandormoch. La Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige. A cura di Andrea Gullotta con traduzione di Giulia De Florio (Stilo Editrice, 2022). Il protagonista del libro di Irina Flige è Sandormoch (Carelia), la radura boschiva in cui, negli anni Novanta, Veniamin Iofe, Irina Flige e Jurij Dmitriev scoprirono la fossa comune dove era stata sepolta un’intera tradotta di detenuti del primo lager sovietico, sulle isole Solovki. Sandormoch è un luogo chiave per comprendere il ruolo della memoria storica nella Russia contemporanea e la battaglia ingaggiata dagli attivisti e storici indipendenti contro l’ideologia ufficiale. La scoperta di questa fossa comune e la creazione del cimitero commemorativo sono soltanto due “atti” della tragedia che ruota intorno a Sandormoch e che ha portato all’arresto e alla condanna di Jurij Dmitriev, attualmente detenuto in una colonia penale. Nella peculiare e coinvolgente narrazione di Flige, adatta anche a un pubblico di non specialisti, la memoria si fa vivo organismo, soggetto a interpretazioni, manipolazioni, cancellazioni e riscritture. Il trauma del Gulag si delinea così come il terreno di scontro tra uno Stato autoritario e repressivo e l’individuo libero che vuole conoscere la verità e custodire la memoria del passato. Irina Anatol’evna Flige (1960), attivista per i diritti civili e ricercatrice, collabora da anni con antropologi e storici per condurre ricerche legate alla scoperta e preservazione dei luoghi della memoria del periodo staliniano. Nel 1988 entra a far parte di Memorial, associazione all’epoca non ancora ufficialmente registrata. Ne diventa collaboratrice nel 1991 e dal 2002 ricopre la carica di direttrice di Memorial San Pietroburgo.

Leggi

Proteggi le mie parole

Proteggi le mie parole. A cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio con prefazione di Marcello Flores (Edizioni E/O, 2022). «Due membri di Memorial (l’associazione insignita nel 2022 del Premio Nobel per la Pace) – Sergej Bondarenko, dell’organizzazione russa, e Giulia De Florio, di Memorial Italia (sorta nel 2004) – ci presentano una testimonianza originale e inedita che getta una luce inquietante, ma anche di grande interesse, sul carattere repressivo dello Stato russo, prima e dopo il 24 febbraio 2022, data d’inizio della guerra d’aggressione all’Ucraina. La raccolta che viene presentata comprende le ‘ultime dichiarazioni’ rese in tribunale da persone accusate di vari e diversi reati, tutti attinenti, però, alla critica del potere e alla richiesta di poter manifestare ed esprimere liberamente le proprie opinioni» L’idea del volume nasce da una semplice constatazione: in Russia, negli ultimi vent’anni, corrispondenti al governo di Vladimir Putin, il numero di processi giudiziari è aumentato in maniera preoccupante e significativa. Artisti, giornalisti, studenti, attivisti (uomini e donne) hanno dovuto affrontare e continuano a subire processi ingiusti o fabbricati ad hoc per aver manifestato idee contrarie a quelle del governo in carica. Tali processi, quasi sempre, sfociano in multe salate o, peggio ancora, in condanne e lunghe detenzioni nelle prigioni e colonie penali sparse nel territorio della Federazione Russa. Secondo il sistema giudiziario russo agli imputati è concessa un’“ultima dichiarazione” (poslednee slovo), la possibilità di prendere la parola per sostenere la propria innocenza o corroborare la linea difensiva scelta dall’avvocato/a. Molte tra le persone costrette a pronunciare la propria “ultima dichiarazione” l’hanno trasformata in un atto sì processuale, ma ad alto tasso di letterarietà: per qualcuno essa è diventata la denuncia finale dei crimini del governo russo liberticida, per altri la possibilità di spostare la discussione su un piano esistenziale e non soltanto politico. Il volume presenta 25 testi di prigionieri politici, tutti pronunciati tra il 2017 e il 2022. Sono discorsi molto diversi tra loro e sono la testimonianza di una Russia che, ormai chiusa in un velo di oscurantismo e repressione, resiste e lotta, e fa sentire forte l’eco di una parola che vuole rompere il silenzio della violenza di Stato. Traduzioni di Ester Castelli, Luisa Doplicher, Axel Fruxi, Andrea Gullotta, Sara Polidoro, Francesca Stefanelli, Claudia Zonghetti.

Leggi