(di Marco Buttino, professore di Storia dell’Oriente europeo presso l’Università di Torino e membro del consiglio direttivo di Memorial Italia e di Niccolò Pianciola, storico dell’Università di Padova e membro del consiglio direttivo di Memorial Italia)
07 ottobre 2022
ore 17:49
Memorial nasce in URSS alla fine degli anni Ottanta, con un centro in Russia, ma con gruppi indipendenti di attivisti in varie repubbliche sovietiche, dall’Ucraina al Kazakhstan. Ne fanno parte intellettuali e scienziati autorevoli, esponenti conosciuti di quanto era stato definito “dissenso” sovietico, ossia dell’opposizione in difesa dei diritti dell’uomo che aveva fatto parlare di sé già negli anni Settanta ed aveva subito la repressione del regime.
Quando nasce Memorial il clima politico è cambiato, la perestrojka di Gorbačëv sta aprendo spazi di pluralismo e libertà di espressione. L’associazione si presenta non soltanto come erede e continuatore delle battaglie del dissenso degli anni bui, ma anche come espressione dell’esigenza di aprire una riflessione sul periodo del terrore e delle violenze del passato. Il diritto alla memoria è infatti reclamato come parte integrante dell’impegno a praticare spazi di libertà fino ad allora sconosciuti, e come una necessità morale per una società in cui vittime e carnefici avevano vissuto fianco a fianco per decenni, in un silenzio imposto dal regime.
Negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica, in un clima di nuova euforia nascono infinite iniziative che forzano le cautele e aggirano i controlli. Nato inizialmente come un movimento della società civile con lo scopo di erigere un monumento ai milioni di vittime delle repressioni staliniane (un “memoriale”, appunto), l’associazione nel 1988 inizia a raccogliere testimonianze e documenti sulle e delle vittime del terrore. Questo lavoro porta, negli anni, alla creazione di un grande archivio popolare fatto di oggetti e testi privati, che meglio dei tersi resoconti prodotti dalle burocrazie che avevano messo in atto gli assassini di massa, gli internamenti, gli esili, tramandano fino a noi la storia delle sofferenze dei popoli sovietici.
Alcuni membri di Memorial ottengono la possibilità di lavorare sulle carte riservate degli archivi, di entrare anche in quelli del KGB, di esaminare i documenti del GULag. Memorial così raccoglie informazioni anche sui carnefici. Trasforma il dovere del silenzio del regime in un dovere dell’informazione. Gli attivisti di Memorial cercano anche i resti, nelle foreste e nelle steppe, degli uccisi senza nome, alle cui famiglie il regime aveva mentito per decenni: prima sulla loro sorte, poi sulle cause della morte e sul luogo di sepoltura. Le molte fosse comuni recuperate dall’oblio diventano dei luoghi di memoria sia per i discendenti delle vittime, sia per le società post-sovietiche, prime fra tutte quelle dei due stati successori più popolosi, la Russia e l’Ucraina.
L’impegno degli attivisti di Memorial si basa sulla convinzione che il cambiamento politico richieda un ripensamento sul passato per evitare che l’ombra del non detto permetta pericolose continuità politiche. Il Nobel oggi è un riconoscimento anche di questo primo impegno di Memorial ed è la constatazione che quella era una via ben diversa da quella seguita da chi oggi afferma che il crollo dell’URSS fu un’immensa tragedia, rivendica continuità imperiali traducendole in guerra di aggressione.
All’inizio degli anni Novanta viene creato il Centro per i diritti umani “Memorial”, che durante la prima guerra in Cecenia (1994-1996) svolge una fondamentale funzione di informazione e di difesa dei diritti della popolazione civile sottoposta a violenze e uccisioni, ma anche dei soldati russi mandati a uccidere e morire nel Caucaso. Memorial, dunque, nasce come un’associazione della società civile scomoda per il potere. Ma negli anni di El’cin è ancora possibile, a volte, una collaborazione con le istituzioni dello stato.
Tutto cambia sotto Putin, soprattutto negli ultimi dieci anni, dopo l’introduzione della legge sugli “agenti stranieri” (2012), per mezzo della quale Memorial verrà vessata. Ma fin dall’inizio Memorial si scontra con Putin, non soltanto con il suo pensiero, ma anche la sua azione, quando l’ex ufficiale del KGB diventa prima Primo ministro, poi Presidente della Federazione Russa. Siamo a cavallo tra 1999 e 2000: Putin avvia la sua trionfale campagna in un clima di terrore creato da atti terroristici che uccidono centinaia di persone a Mosca e in altre città. Poi invia di nuovo l’esercito in Cecenia e bombarda la capitale della piccola repubblica autonomista. Il “putinismo” in fondo è già tutto presente nei mesi della sua nascita, ed è infatti su questa svolta che inizia ad attuarsi il progetto di stato forte e violento contro la società civile.
Memorial segue la guerra giorno per giorno: crea un centro di difesa dei diritti a Groznyj, fornisce sistematicamente informazioni ad Anna Politkovskaja che ne fa articoli per “Novaja Gazeta”, raccoglie documentazioni necessarie agli avvocati che aprono decine di processi contro la Russia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Putin intanto continua il cammino che tutti conosciamo. Nel 2008 invade la Georgia, tra 2014 e 2015 si impadronisce della Crimea e manda l’esercito a combattere nel Donbas ucraino, oggi minaccia l’uso delle armi atomiche per sconfiggere la resistenza ucraina.
Memorial continua ad operare in due direzioni: fornire materiali per la riflessione sul Novecento sovietico e sulle continuità politiche tra passato e presente; difendere gli spazi di democrazia e, in particolare, i diritti umani e quelli delle minoranze. La dittatura che si inasprisce nel paese limita però sempre di più le possibilità di azione. Poche settimane prima dell’aggressione all’Ucraina, Memorial è stata chiusa dalle autorità russe sotto l’accusa di non aver rispettato le norme della legge contro gli “agenti stranieri”.
L’impegno di Memorial continua e il riconoscimento del Nobel lo rafforza. Per noi è un successo quasi commuovente, che dà più forza all’impegno per la difesa dei diritti.