“È il momento di svegliarsi e agire”. Andare al fronte adesso fa davvero paura ai giovani russi

Centinaia di persone hanno deciso di sfidare la polizia in assetto antisommossa. Sui cartelli, “Net mobilizacii” (No alla mobilitazione), in aggiunta al “Net vojne” (No alla guerra) diffuso già da mesi.

(di Francesca Lazzarin, dottore di ricerca in slavistica, traduttrice e interprete)


22 settembre 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 15:27


“Noi siamo qui. E continuiamo a resistere”, mi ha scritto ieri sera su Instagram (che, ricordiamo, è bloccato nel territorio della Federazione Russa, a meno che non si faccia uso dei servizi VPN) la mia ex studentessa universitaria Uliana, moscovita e poliglotta. Ha la stessa età delle tante ragazze tra i 20 e i 30 anni che, a giudicare dai video prontamente diffusi sul web, hanno costituito lo zoccolo duro dei manifestanti usciti spontaneamente di casa nella giornata del 21 settembre per esprimere il proprio dissenso nei confronti della “mobilitazione parziale” annunciata da Vladimir Putin alcune ore prima. 


Il discorso alla nazione del presidente russo, dai toni ancor più cupi e incattiviti di quello con cui era stato dato il via alla cosiddetta “operazione speciale” all’alba del 24 febbraio, è stato trasmesso verso le 9 di mattina (fuso orario di Mosca). Pochi minuti dopo, gli attivisti del movimento “Vesna” (Primavera) avevano già invitato i cittadini russi a far sentire la propria voce nelle strade e nelle piazze di ogni città, alle 19.00 secondo il fuso orario di riferimento. Le prime immagini di raduni e picchetti sono dunque arrivate dall’Estremo Oriente russo, da Jakutsk e Ulan-Ude. E poi, man mano che passavano le ore e la giornata terminava anche a occidente, da Tomsk, Novosibirsk, Ekaterinburg e così via, per arrivare ovviamente a Mosca e San Pietroburgo. Hanno invitato a manifestare anche altri gruppi che erano stati costantemente attivi con iniziative e flash mob pacifisti e antimilitaristi, come le femministe di Feminist Antiwar Resistance, per arrivare ai sodali di Aleksej Naval’nyj.


I numeri sono stati consistenti (alcune centinaia di persone nelle “due capitali” russe, diverse decine di persone nelle altre città), anche se non come quelli delle proteste immediatamente successive all’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina alla fine dello scorso febbraio: d’altronde, gran parte di chi si era esposto allora è già emigrato da tempo, per non parlare del fatto che nel corso dei mesi le pene previste per il “discredito delle Forze Armate” si sono inesorabilmente inasprite, di pari passo con la censura, portando non solo a multe consistenti, ma anche ad arresti e a pesanti condanne penali, incarcerazione compresa. Inoltre va anche considerato che, soprattutto a Mosca e in altri grandi centri meno toccati direttamente dalla campagna militare (la maggior parte dei soldati inviati al fronte proviene infatti da regioni più periferiche e disagiate, come Tyva, Buriazia o Daghestan), durante la primavera e l’estate l’angoscia e lo sdegno di molti cittadini russi avevano ceduto il posto a una sorta di apatica rimozione di quanto stava succedendo. 


La guerra in Ucraina, lontana e ormai data per scontata, aveva iniziato ad essere percepita quasi come la guerra in Afghanistan nell’URSS degli anni ’80, tanto più che i cambiamenti provocati dalle sanzioni occidentali si sono rivelati meno radicali del previsto e, per esempio a Mosca, le autorità locali hanno cercato di fare di tutto per eliminare dallo spazio urbano qualsiasi riferimento che potesse riaccendere il pensiero fisso della guerra. E dunque, al di là di qualche Z o V appesa in giro, si è potuto riprendere a fare selfie raggianti sullo sfondo di parchi e fontane colorate, scacciando le emozioni negative e continuando a vivere come se nulla fosse. Ora, però, la mobilitazione rischia di far ripiombare prepotentemente la guerra anche nelle case di chi non ne parlava più da settimane, e con conseguenze davvero impensabili.


E dunque, ieri, centinaia di persone hanno deciso di sfidare la polizia in assetto antisommossa, a volte brandendo piccoli banner con su scritto quello che da ieri è il nuovo slogan contro la politica irresponsabile del Cremlino: “Net mobilizacii” (No alla mobilitazione), in aggiunta al “Net vojne” (No alla guerra) diffuso già da mesi – per cui, non sarà superfluo ricordarlo, si rischia la sopracitata accusa di “discredito”, oltre che di “diffusione di fake news”, dato che ufficialmente in Russia non si dice che è in corso una guerra, nemmeno ora. La componente femminile delle proteste, come si diceva, è stata molto significativa. “Chi è che state proteggendo, voi? Non certo noi!”, hanno gridato alcune ragazze sull’Arbat, una delle arterie centrali di Mosca, di rimando agli agenti di polizia che intimavano loro di andarsene immediatamente. “Non vi vergonate? Tornerete pure voi dentro il Carico 200!”, hanno poi incalzato le ragazze, riferendosi ovviamente al trasporto in patria dei cadaveri dei soldati dentro bare di zinco. Non a caso, un gioco di parole già divenuto virale, e che ha fatto scaturire l’altro slogan chiave della protesta di ieri, è “Net mogilizacii”, letteralmente “No alla tombizzazione”, ottenuto fondendo le parole “mobilizacija” (mobilitazione) e “mogila” (tomba).


Forse per strada, dove non hanno tardato ad arrivare anche i fermi della polizia (più di 1400 le persone trattenute in 38 città, non senza episodi di violenza da parte degli agenti, secondo i dati forniti dall’ONG OVD-info) si sono viste più ragazze che ragazzi perchè, già nel corso della giornata di ieri, numerosissimi giovani russi che rientrano potenzialmente nelle categorie suscettibili di mobilitazione (e non solo) erano impegnati ad acquistare biglietti aerei in modo da lasciare il paese prima di ricevere la temuta chiamata del commissariato militare più vicino. O prima che, in questa congiuntura in cui le misure straordinarie si susseguono alla velocità della luce, venga bloccata l’uscita dalla Federazione Russa a tutti i cittadini maggiorenni di sesso maschile. I voli diretti verso le capitali dei paesi in cui i cittadini russi possono recarsi senza visto hanno avuto un’impennata inaudita di prenotazioni, talvolta fino ad esaurimento posti. 


Ad ogni modo, tra i partecipanti alle proteste c’erano, naturalmente, anche ragazzi e uomini. Alcuni di loro, stando a notizie diffuse stamattina, hanno ricevuto la cartolina ufficiale per la coscrizione proprio al commissariato di polizia dove erano stati trattenuti. Il che alimenta i sospetti, ventilati anche dal politologo russo Aleksandr Baunov, che il governo possa decidere di inviare al fronte, a mo’ di punizione alternativa, i soggetti che si rivelino “scomodi”. Tanto più che il decreto firmato ieri dal presidente russo presenta svariati punti ambigui circa la selezione dei potenziali coscritti: il reclutamento coatto come meccanismo repressivo è quindi un’eventualità che al momento comincia veramente a spaventare.

 

E tra chi ora ragiona sul da farsi ci sono anche molti giovani russi del ceto medio che, dopo il 24 febbraio, si erano limitati a non commentare gli eventi tragici in corso, giustificandosi con un Leitmotiv della Russia putiniana (“Non me ne intendo di politica, non mi va di parlarne”), oppure, addirittura, si erano espressi tendenzialmente a favore dell’“operazione speciale”, argomentando la propria posizione con l’usuale discorso sulla difesa del Donbas russofono e russofilo dai “neonazisti” ucraini. Basta scorrere molti feed del social network russo VKontakte per rendersi conto di quanto simili opinioni fossero capillarmente diffuse all’inizio di quest’anno. Gli stessi feed, però, ieri erano eloquentemente vuoti: nessun repost di dichiarazioni propagandistiche, nessun elogio per la potente Russia che la NATO intenderebbe indebolire e distruggere. La sensazione che si percepisce ora è sintetizzabile con una parola: sbigottimento. Andare al fronte per davvero fa paura, c’è poco da fare. 


Anche perché, come ha detto ieri il sociologo russo Grigorij Judin, in un regime putiniano più poliziesco che davvero totalitario, neanche in questi mesi si è riusciti a delineare una narrazione davvero vincente (e convincente) che possa far sentire il russo medio in una situazione di minaccia esistenziale e spingerlo a lottare in nome di un’idea forte e condivisa dalla collettività. Di fatto, ora pare che la questione sia combattere per la conservazione del potere putiniano. Che in ultima analisi ha meno sodali disposti al sacrificio di quanto sembri, complici anche la generale atomizazzione della società e uno spiccato individualismo che negli ultimi anni ha portato molti, in parole povere, a coltivare il proprio orticello a discapito del senso civico. Ed era come se, in una sorta di tacito patto, il governo si fosse impegnato a non varcare i confini di quell’orticello e i cittadini, da parte loro, a non insinuarsi nello spazio politico. Con la mobilitazione, però, questo patto è stato definitivamente infranto.


Non ci resta quindi che sperare che un’idea forte e condivisa arrivi non dalla vecchia guardia del Cremlino, ma dalla generazione nata tra gli anni ’90 e gli anni 2000 che “è lì e resiste”. E anche da chi fino ad ora è rimasto intorpidito dopo il breve shock di febbraio, ma adesso non può più fare finta di niente. Come ha scritto su Telegram il famoso rapper russo Noize MC, emigrato all’estero mesi fa e promotore della serie di concerti di beneficenza per i profughi ucraini “Voices of Peace”, “basta con l’indifferenza! Quanto sta accadendo riguarda ciascuno di noi. È il momento di svegliarsi ed agire”. A questo appello è seguita una sua nuova canzone, registrata insieme alla cantautrice pop Monetočka, il cui ritornello, fanta-utopico ma non troppo, non necessita di ulteriori commenti: “Ci addormenteremo tra i fumi dell’azoto / e ci rialzeremo giovani / di nuovo insieme. / Vedrai, vedrai, lo so, davvero: / ci sveglieranno con una nuova canzone / che ancora non conosciamo. / E, con le nostre mani fredde, / apriremo le porte delle criocamere… / Non sono bugie della televisione: / tutto questo è proprio reale. / Credimi, credimi…”.

Nel frattempo, è attesa per il pomeriggio di sabato 24 settembre una nuova ondata di manifestazioni pacifiste in tutta la Federazione Russa.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Verona, 14 novembre 2024. Il caso Sandormoch.

Giovedì 14 novembre alle 16:00 nell’aula co-working del dipartimento di lingue e letterature straniere dell’università di Verona la nostra presidente Giulia De Florio terrà il seminario Riscrivere la storia, proteggere la memoria: il caso di Sandormoch. Giulia De Florio e Andrea Gullotta hanno curato per Stilo Editrice la traduzione italiana del volume Il caso Sandormoch: la Russia e la persecuzione della memoria di Irina Flige, presidente di Memorial San Pietroburgo. Del volume hanno voluto parlare Martina Napolitano, Stefano Savella, Francesco Brusa e Maria Castorani. Nell’immagine il monumento in pietra presente all’ingresso del cimitero di Sandormoch sul quale si legge l’esortazione “Uomini, non uccidetevi”. Foto di Irina Tumakova / Novaja Gazeta.

Leggi

Pisa, 8-29 novembre 2024. Mostra “GULag: storia e immagini dei lager di Stalin”.

Il 9 novembre 1989 viene abbattuto il Muro di Berlino e nel 2005 il parlamento italiano istituisce il Giorno della Libertà nella ricorrenza di quella data, “simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo”. Per l’occasione, l’assessorato alla Cultura del Comune di Pisa porta a Pisa la mostra GULag: storia e immagini dei lager di Stalin. La mostra, a cura di Memorial Italia, documenta la storia del sistema concentrazionario sovietico illustrata attraverso il materiale documentario e fotografico proveniente dagli archivi sovietici e descrive alcune delle principali “isole” di quello che dopo Aleksandr Solženicyn è ormai conosciuto come “arcipelago Gulag”: le isole Solovki, il cantiere del canale Mar Bianco-Mar Baltico (Belomorkanal), quello della ferrovia Bajkal-Amur, la zona mineraria di Vorkuta e la Kolyma, sterminata zona di lager e miniere d’oro e di stagno nell’estremo nordest dell’Unione Sovietica, dal clima rigidissimo, resa tristemente famosa dai racconti di Varlam Šalamov. Il materiale fotografico, “ufficiale”, scattato per documentare quella che per la propaganda sovietica era una grande opera di rieducazione attraverso il lavoro, mostra gli edifici in cui erano alloggiati i detenuti, la loro vita quotidiana e il loro lavoro. Alcuni pannelli sono dedicati a particolari aspetti della vita dei lager, come l’attività delle sezioni culturali e artistiche, la propaganda, il lavoro delle donne, mentre altri illustrano importanti momenti della storia sovietica come i grandi processi o la collettivizzazione. Non mancano una carta del sistema del GULag e dei grafici con i dati statistici. Una parte della mostra è dedicata alle storie di alcuni di quegli italiani che finirono schiacciati dalla macchina repressiva staliniana: soprattutto antifascisti che erano emigrati in Unione Sovietica negli anni Venti e Trenta per sfuggire alle persecuzioni politiche e per contribuire all’edificazione di una società più giusta. Durante il grande terrore del 1937-38 furono arrestati, condannati per spionaggio, sabotaggio o attività controrivoluzionaria: alcuni furono fucilati, altri scontarono lunghe pene nei lager. La mostra è allestita negli spazi della Biblioteca Comunale SMS Biblio a Pisa (via San Michele degli Scalzi 178) ed è visitabile da venerdì 8 novembre 2024, quando verrà inaugurata, alle ore 17:00, da un incontro pubblico cui partecipano Elena Dundovich (docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Pisa e socia di Memorial Italia), Ettore Cinnella (storico dell’Università di Pisa) e Marco Respinti (direttore del periodico online Bitter Winter). Introdotto dall’assessore alla cultura Filippo Bedini e moderato da Andrea Bartelloni, l’incontro, intitolato Muri di ieri e muri di oggi: dal gulag ai laogai, descriverà il percorso che dalla rievocazione del totalitarismo dell’Unione Sovietica giunge fino all’attualità dei campi di rieducazione ideologica nella Repubblica Popolare Cinese. La mostra resterà a Pisa fino al 28 novembre.

Leggi

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz.

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz con curatela di Luca Bernardini (Guerini e Associati, 2024). Una testimonianza al femminile sull’universo del Gulag e sugli orrori del totalitarismo sovietico. Arrestata nel 1945 a ventidue anni per la sua attività nell’AK (Armia Krajowa), l’organizzazione militare clandestina polacca, Anna Szyszko-Grzywacz viene internata nel lager di Vorkuta, nell’Estremo Nord della Siberia, dove trascorre undici anni. Nella ricostruzione dell’esperienza concentrazionaria, attraverso una descrizione vivida ed empatica delle dinamiche interpersonali tra le recluse e della drammatica quotidianità da loro vissuta, narra con semplicità e immediatezza la realtà estrema e disumanizzante del Gulag. Una realtà dove dominano brutalità e sopraffazione e dove la sopravvivenza per le donne, esposte di continuo alla minaccia della violenza maschile, è particolarmente difficile. Nell’orrore quotidiano raccontato da Anna Szyszko-Grzywacz trovano però spazio anche storie di amicizia e solidarietà femminile, istanti di spensieratezza ed emozioni condivise in una narrazione in cui alla paura e alla dolorosa consapevolezza della detenzione si alternano le aspettative e gli slanci di una giovane donna che non rinuncia a sperare, malgrado tutto, nel futuro. Anna Szyszko-Grzywacz nasce il 10 marzo 1923 nella parte orientale della Polonia, nella regione di Vilna (Vilnius). Entra nella resistenza nel settembre 1939 come staffetta di collegamento. Nel giugno 1941 subisce il primo arresto da parte dell’NKVD e viene rinchiusa nella prigione di Stara Wilejka. Nel luglio 1944 prende parte all’operazione “Burza” a Vilna come infermiera da campo. Dopo la presa di Vilna da parte dei sovietici i membri dell’AK, che rifiutano di arruolarsi nell’Armata Rossa, vengono arrestati e internati a Kaluga. Rilasciata, Anna Szyszko cambia identità, diventando Anna Norska, e si unisce a un’unità partigiana della foresta come tiratrice a cavallo in un gruppo di ricognizione. Arrestata dai servizi segreti sovietici nel febbraio 1945, viene reclusa dapprima a Vilna nel carcere di Łukiszki, e poi a Mosca alla Lubjanka e a Butyrka. In seguito alla condanna del tribunale militare a venti anni di lavori forzati, trascorre undici anni nei lager di Vorkuta. Fa ritorno in patria il 24 novembre 1956 e nel 1957 sposa Bernard Grzywacz, come lei membro della Resistenza polacca ed ex internato a Vorkuta, con cui aveva intrattenuto per anni all’interno del lager una corrispondenza clandestina. Muore a Varsavia il 2 agosto 2023, all’età di cento anni. Recensioni La mia vita nel Gulag in “Archivio storico”. La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz di Paolo Rausa in “Italia-express”, 13 dicembre 2024. “Una donna nel Gulag”: Anna Szyszko-Grzywacz, la vittoria dei vinti di Elena Freda Piredda in “Il sussidiario.net”, 20 dicembre 2024.

Leggi