(di Andrea Gullotta, professore di Letteratura russa all’Università di Palermo e presidente di Memorial Italia)
25 agosto 2022
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 15:22
Oggi al Meeting di Rimini si tiene un incontro a margine della mostra Uomini nonostante tutto. Storie da Memorial, a cura della Fondazione Russia Cristiana e dell’Associazione Memorial. All’incontro parteciperanno anche Elena Žemkova, direttore esecutivo di Memorial, e Irina Ščerbakova, una dei soci fondatori di Memorial. Per l’occasione pubblichiamo l’introduzione al catalogo della mostra.
“Naša zadača – dojti do každoj sud’by”. Il nostro compito è arrivare a ogni singolo destino. Queste poche parole di Arsenij Roginskij riassumono con efficacia lo spirito con cui, negli anni a cavallo tra la perestrojka, il collasso dell’Urss e l’inizio dell’esperienza postsovietica, nasce Memorial. Un processo, quello della formazione di Memorial, che simbolicamente chiude il sipario sull’era sovietica riportando alla luce gli orrori delle repressioni di stato; lo fa in un regime totalitario ormai annaspante, contrapponendo alla logica assolutista un approccio sconosciuto alle masse sovietiche: quello democratico. L’eccellente La memoria mutilata della compianta Maria Ferretti è dedicato proprio a questo processo di riappropriazione della memoria: Maria Ferretti, La memoria mutilata, Corbaccio, Milano, 1993.
Memorial nasce per riparare non solo i crimini sovietici contro milioni di cittadini innocenti, ma anche il torto, gravissimo, di aver impedito alle vittime di parlare. Quando, con le riforme di Gorbačëv, l’Unione Sovietica scopre finalmente la libertà di espressione, la gente invade le piazze portando con sé ciò che era stato lasciato da padri, madri, amici, parenti, conoscenti inghiottiti nel tritacarne, come veniva definita la macchina repressiva sovietica (Jacques Rossi). A raccogliere questa onda di dolore si pone un gruppo di persone provenienti da esperienze diverse ma unite dalla necessità di non disperdere questo patrimonio civile e memoriale, oltre che fornire, di fatto, l’antidoto al sistema che aveva causato quegli orrori. Dissidenti, storici, reduci dei campi, orfani di vittime e tantissimi giovani si uniscono con l’obiettivo di creare un complesso memoriale (donde il nome) che non si limitasse a perpetuare la memoria delle innumerevoli vittime con l’erezione di un monumento, ma anche di creare un archivio, una biblioteca, un centro studi e un centro educativo capaci di studiare a fondo la natura delle repressioni, gli eventi macro e microstorici legati ad esse, e soprattutto di radicare questo lavoro di ricerca e di recupero della memoria all’interno della società sovietica. In maniera quasi spontanea, si forma anche un centro per monitorare il rispetto dei diritti umani e civili nello spazio postsovietico.
Lungo una serie di momenti fondativi, Memorial si impone quindi come collettore del grande trauma sovietico. E la gente inonda Memorial di materiali: lettere, memorie, oggetti, artefatti, fotografie, sculture, dipinti. E storie, innumerevoli storie. Alle porte di Memorial bussano migliaia di persone, con vicende biografiche proprie o di chi non c’è più. Vengono predisposti dei moduli per fissare nel modo più unitario possibile questo oceano di dati e vite, vengono organizzate interviste, si avvia una straordinaria opera di salvataggio di una memoria che sembrava ormai destinata all’oblio. Ricalcando nei fatti il desiderio di Anna Achmatova di “chiamare ciascuna per nome” tutte le vittime, Memorial infrange il muro di silenzio imposto dal regime sulle repressioni e lo fa accogliendo le singole voci delle vittime con l’intento di formare un simbolico coro di dolore e dignità. Parallelamente, gli attivisti di Memorial cercano negli archivi statali, che nei primi anni Novanta vanno finalmente aprendosi, i documenti necessari per ricostruire le vicende storiche che hanno reso possibili le repressioni, per scovare i nomi dei carnefici, per garantire una base solida alle ricerche sull’epoca sovietica. Si formano così gli archivi di Memorial, oggi a rischio di sparizione, da cui sono tratti i materiali che compongono questa mostra. Archivi sempre aperti, a differenza di quelli statali, molti dei quali sono stati chiusi negli anni Novanta e non sono più stati messi a disposizione degli studiosi e della cittadinanza. Si tratta di archivi unici, non solo per il modo in cui si sono formati, ma anche per i materiali in essa contenuti (si pensi ai numerosi documenti degli archivi del KGB, ora non più accessibili se non, in copia, negli archivi di Memorial).
La mostra Uomini nonostante tutto. Storie da Memorial restituisce un piccolo spaccato delle vite delle vittime, delle vicende di chi veniva colpito da arresti, di chi finiva nei campi di concentramento, di chi veniva fucilato e anche di chi rimaneva indietro, attendendo disperatamente – e spesso invano – notizie dei propri cari. È proprio leggendo i particolari delle vite delle vittime, guardando i loro volti, i loro oggetti, arrivando in altre parole “a ogni singolo destino”, che si riesce a percepire l’entità dei crimini commessi dallo stato sovietico e dai suoi funzionari ed evitare la fredda logica dei numeri – peraltro viziata dalla scarsa affidabilità delle statistiche della violenza di stato sovietica – e confrontarsi con l’orrore delle violenze sulle partorienti e sui propri figli, delle fucilazioni arbitrarie, delle atrocità inflitte ai detenuti.
Per capire perché questo patrimonio inesauribile sia a rischio di eliminazione basta ricordare le parole di Jurij Dmitriev, storico e attivista di Memorial, scopritore nel 1997 assieme a Venjamin Iofe e Irina Flige (e con l’aiuto fondamentale di Ivan Čuchin) di Sandormoch, un luogo boschivo nella Carelia sovietica dove negli anni del Grande Terrore staliniano vennero fucilate tra le 6 e le 12mila vittime, tra cui alcuni dei detenuti presenti in questa mostra. Accusato ingiustamente di pedofilia e condannato a 15 anni di detenzione in una colonia penale al termine di una vicenda giudiziaria palesemente viziata da innumerevoli violazioni – una vicenda svoltasi mentre a Sandormoch lo stato mandava l’esercito a riesumare le vittime per cambiargli i connotati e renderle più accettabili per la retorica nazionale russa – Dmitriev ha riassunto la propria vicenda in una frase emblematica:
“Sono fermamente convinto che una persona che conosce la storia della propria famiglia […] può costruire la propria relazione con lo stato basandosi su principi radicalmente diversi da quelli odierni. Non l’individuo per lo stato, ma lo stato per l’individuo. Io lavoro in questa direzione. È per questo che sono scomodo”.
Il nocciolo della persecuzione da parte dello stato russo contro Memorial sta qui: è forse possibile immaginare, nella Russia odierna, che un’organizzazione indipendente possa continuare a fare ricerca, studiare ed educare le giovani generazioni sui crimini commessi da uno stato contro i propri cittadini, quando lo stato erede della Russia sovietica, comandato da un ex agente del KGB, scatena una guerra di invasione feroce contro l’Ucraina commettendo innumerevoli crimini di guerra e imponendo misure repressive contro chiunque protesti in patria? E potrebbe mai entrare nella narrazione nazionale russa sul gulag la figura di Chava Volovič, scrittrice e attrice ucraina, testimone della brutalità dello stato con i suoi racconti lucidi?
Questa mostra ricorda non solo il dramma del gulag, ma anche il carattere universale della sua memoria. Oggi Memorial, custode delle vicende di migliaia di vittime dell’arbitrio dello stato sovietico, combatte strenuamente la battaglia per i diritti umani e la memoria in Russia e contemporaneamente cerca di parlare al mondo affinché la memoria delle vittime della repressione sovietica e della Russia postsovietica non venga dispersa. Questa mostra, organizzata mentre dall’Ucraina arrivano notizie di gravi violazioni di diritti umani, ricorda quanto sia attuale e importante la battaglia di Memorial.