(di Grigorij Judin. Il presente testo è stato pubblicato originariamente in russo su Meduza; l’originale può essere consultato a questo link. Ringraziamo la redazione per l’autorizzazione a tradurlo in italiano. Tradotto da Ester Castelli e Sara Polidoro. Foto di Radio Baltkom I Mixnews – CC BY-SA 4.0)
23 luglio 2022
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:13
Il 24 febbraio la Russia ha scatenato un’imponente invasione militare contro l’Ucraina. Grigorij Judin, sociologo russo di fama internazionale, è stato uno dei pochi che si sono azzardati a scendere in piazza per protestare contro la guerra. Durante una manifestazione, Judin è stato arrestato ed è finito anche in ospedale. Ma insiste a rimanere in Russia e, come ricercatore, si pone l’obiettivo di capire (e di spiegare agli altri) come mai non esista nel suo paese una reale resistenza di massa. In un articolo per il quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung, Judin attribuisce una fetta di responsabilità ad alcuni leader occidentali, in particolare a coloro che non volevano la guerra, e che semplicemente pretendevano di proseguire il “business as usual” con il regime di Mosca.
Sto in piedi in un comodo vagone della metropolitana di Mosca e leggo sul telefono le previsioni degli analisti sull’andamento delle ostilità. Mi si avvicina uno sconosciuto e, un po’ imbarazzato, mi dice “grazie”. Da quando è iniziata la guerra episodi così mi capitano regolarmente.
Sono un ricercatore e la mia giornata tipo si svolge a casa davanti al computer. Esco di rado, e negli ultimi mesi esco anche meno del solito. Tuttavia, da quando è iniziata la guerra, non passa giorno senza che uno sconosciuto mi si avvicini per strada o sui mezzi per dirmi “grazie”. Mi succede ovunque: a Mosca, a Vienna, a Erevan, a Berlino. Ma perché ringraziano proprio me? Il motivo è semplice: mi sono espresso subito, pubblicamente, contro la guerra.
Ho una strana sensazione: mi sento come se fossi membro di un ordine invisibile, di una resistenza silenziosa e gigantesca, che attende solo il momento giusto per far sentire la sua voce. Improvvisamente mi rendo conto di quello che molti attorno a me non percepiscono: non siamo soli, tutt’intorno è pieno di gente che ha conservato buon senso, compassione e senso di responsabilità per il suo paese… Le persone si avvicinano a me una a una, pronunciano la parola “speranza” e se ne vanno, mestе, disperate.
Conosco fin troppo bene questo tipo di sofferenza: si chiama “atomizzazione”. Quando i legami sociali si spezzano, quando, con chiunque ci si trovi, diventa scomodo e inopportuno toccare “argomenti pericolosi”, quando i sondaggi sono l’unica fonte di informazione sul proprio simile – sembra di trovarsi in una massa ostile, stupida e incattivita. Ci si può fondere in questa massa e farsi forti sentendo di esserne parte. Oppure si prendono le distanze sentendosi superiori e navigati. Ci si può fare coraggio e opporsi alla massa. Ma alla massa non puoi parlare o muovere obiezioni. La massa comunque ti schiaccia. Ti assale, minacciosa. Anche se di fatto non esiste, ha un potere spaventoso.
Ogni giorno che passa aumentano i messaggi di giornalisti stranieri che vogliono sempre sapere la stessa cosa: com’è possibile che circa l’ottanta per cento dei russi sia a favore di questa guerra? In questa domanda avverto sconcerto e indignazione: davanti ai loro occhi si leva proprio quella massa spaventosa, russi spietati che, come un’unica orda, vogliono rubare, violentare e uccidere. Digito al telefono: “Non è questo il punto. Se il 24 febbraio Vladimir Putin avesse annunciato che, per importanti motivi di sicurezza, avrebbe trasferito i territori della Repubblica popolare di Lugansk e della Repubblica popolare del Donetsk all’Ucraina, il suo consenso sarebbe stato esattamente lo stesso…”. Stringo la mano tesa dello sconosciuto e con lo sguardo abbraccio tutto il vagone, cercando automaticamente di proiettare sui passeggeri la domanda del mio giornalista, che si interroga su di loro dal suo studio lontano.
Vorrei rispondere così al giornalista, per evitare che poi lui spieghi al suo pubblico: “Cercate di capire, i russi sono completamente diversi, la loro è una diversità strutturale”. Ma in effetti non è vero. Per capire come la pensano i russi basta capire come la pensano i vari Gerhard Schroeder, François Fillon o Karin Kneissl. Nessuno di loro è un assassino assetato di sangue, nessuno di loro vuole veder soffrire il popolo ucraino. Aspirano solo al proprio quieto vivere. Vogliono che la guerra finisca il prima possibile e che si torni alla “vita normale”, quella in cui si guadagna bene e si è rispettati.
Mi spiace dire che non c’è nulla di particolarmente sinistro nei russi, altrimenti basterebbe isolarli, chiuderli per sempre in un recinto e mettere il pianeta ben al sicuro. Ma no, il problema non sono i russi. Il fatto è che Vladimir Putin ha capito fin troppo bene come funziona il mondo contemporaneo. Sa precisamente quali sono i suoi punti deboli e quali leve può azionare per controllarlo. L’ordine sociale che Putin ha costruito in Russia è una versione radicale del moderno capitalismo neoliberista. Domina l’avidità, il criterio definitivo di successo sono i beni accumulati. Il cinismo, l’ironia e il nichilismo regalano una sensazione salvifica di facile superiorità.
Putin non è spuntato improvvisamente dalle foreste siberiane. Da anni corrompe élite finanziarie e politiche di tutto il mondo. I suoi oligarchi hanno goduto così a lungo di lusso sfrenato, circondati dall’adulazione di tutti, che si considerano i padroni del mondo. E non hanno tutti i torti… Putin ha corrotto politici di dozzine di paesi, li ha inseriti nei suoi consigli di amministrazione, ha condiviso con loro, apertamente, denaro intriso di sangue. Ora ha le sue buone ragioni per considerare questi politici dei deboli. Putin ha proposto ai russi lo stesso principio che i poteri forti perseguono da sempre: “Se i soldi non riescono a comprare qualcosa significa che non erano abbastanza”.
I giornalisti stranieri che mi scrivono cercano di capire come mai i russi siano così “rimbecilliti dalla propaganda”. Io mi guardo intorno e non vedo affatto degli idioti. Vedo anzi tantissima gente che ha imparato la lezione: inutile cercare di opporsi a Putin, tanto per come è fatto il mondo lui vince sempre. Guardo chi ha cercato di evitare la catastrofe attuale, chi mette a repentaglio la propria libertà e la propria vita, e ogni volta vede che i soldi di Putin risolvono tutto. Che ogni volta che viene soffocata una ribellione Putin ottiene contratti miliardari e i suoi oligarchi diventano sempre più ricchi, mentre i suoi “amici europei” ottengono nuovi incarichi in nuovi consigli di amministrazione. Le Big Tech sono disposte a concedere qualsiasi cosa in cambio di guadagni sul mercato russo: si va da Google, disposto a tacere sulle minacce fisiche degli agenti segreti russi ai loro massimi dirigenti, fino a Nokia, che ha aiutato Putin a costruire un sistema di spionaggio totale contro i suoi oppositori. Eppure ogni volta questi russi intrepidi ci riprovano. Continuano a combattere questa guerra contro Putin, anche se privi di armi anticarro o cannoni. E ogni volta si sentono dire “tanto nessuno vi aiuta, Putin ha comprato tutti”. Oggi molti di loro finalmente ci credono.
I miei amici che lavorano per le multinazionali mi raccontano tutti come i dirigenti stranieri reagiscono alla guerra. In sostanza, non reagiscono. Neanche una parola. Anzi, tutti indignati per le famigerate “sanzioni” che costringono a limitarsi da soli gli incassi sul mercato russo. E se le aziende americane e britanniche devono nascondere questo scontento per non far infuriare i leader mondiali, le aziende tedesche e soprattutto francesi dicono, praticamente con nonchalance, di non capire cosa c’entrino loro con la guerra in Ucraina e perché dovrebbero rimetterci dal punto di vista economico.
In un’intervista a Der Spiegel il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato che la sua visione della Russia è stata plasmata dal libro di Masha Gessen [del 2017, NdR] Future is history (Il futuro è storia). In qualche centinaio di pagine, il libro veicola con insistenza una sola idea: la Russia non cambierà mai, il totalitarismo è passato, presente e futuro, e qualsiasi tentativo di cambiarla risulta vano. Vladimir Putin e i suoi critici liberali convengono da tempo su questo punto: tanto la Russia non la cambi. Scholz mi pare terrorizzato da questa paura russa, dalla paura di un’orda tremenda contro cui si ha sempre la peggio.
Torno ad osservare il mio vagone moscovita. Sguardi cupi, fissi verso il finestrino o a terra; si sa che i russi sorridono poco. La speranza qui sorgerà non prima che il mondo ammetta che Vladimir Putin e la sua guerra sono nient’altro che il risultato inevitabile di com’è andato il mondo negli ultimi decenni. Non prima che le aziende internazionali si sentano responsabili delle vite degli ucraini, e non solo dei dividendi dei loro azionisti. Non prima che il mondo capisca che siamo tutti a bordo di questo vagone della metropolitana di Mosca. Non prima che il cancelliere Scholz si convinca che un’altra Russia è possibile.