Ricordare è lottare. La vicenda di Sandormoch

Oggi, nel 1937, venne emesso il decreto 00447 che avrebbe scatenato la fase peggiore del Grande terrore, quella che trasformò le purghe in un enorme massacro su scala nazionale.

(di Andrea Gullotta, professore di Letteratura russa all’Università di Palermo e presidente di Memorial Italia)


05 agosto 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 15:19



Lastra memoriale all’ingresso del cimitero di Sandormoch
(foto di Semenov.m7, CC BY-SA 4.0)


Cognome, nome, patronimico. Data di nascita, spesso solo l’anno. Nazionalità, raramente altre informazioni, di solito solo la professione. E poi dettagli precisi su arresto, pena, fucilazione. È così che sono composte le stringate biografie delle vittime delle repressioni di stato di epoca sovietica, che ogni anno vengono lette in due occasioni, il 29 ottobre (nella giornata in memoria delle vittime delle repressioni sovietiche) e il 5 agosto, data in cui si commemorano le vittime del Grande terrore staliniano.


In questa data, nel 1937, venne emesso il decreto 00447 che avrebbe scatenato la fase peggiore del terrore. Iniziato sulla scia dell’omicidio di Sergej Kirov, avvenuto a Leningrado l’1 dicembre del 1934, il Grande terrore vide una prima fase segnata soprattutto dai grandi processi del 1936 con cui venne annientata la vecchia guardia rivoluzionaria. Il decreto 00447 del 5 agosto 1937 trasformò le purghe in un enorme massacro su scala nazionale, scatenato anche dalle famigerate quote indicate nei documenti inviati dal quartier generale della polizia segreta sovietica, l’NKVD, agli uffici delle repubbliche sovietiche, in cui venivano richiesti i sacrifici di migliaia di persone: 35000 persone da arrestare, di cui 5000 da fucilare nella regione di Mosca, 14000 arresti, di cui 4000 da fucilare nella regione di Leningrado, 28800 arresti di cui 8000 da fucilare in Ucraina, e così via. Un freddo calcolo, basato su logiche ancora non del tutto chiarite, che scatenò quella che lo storico Nicolas Werth, oggi presidente di Memorial Francia, definì “un’orgia di terrore”.


L’operazione speciale richiedeva la fucilazione di circa 76000 persone e l’arresto di quasi 270000 persone, ma portò, nel giro di soli 15 mesi, alla fucilazione di 681692 persone (secondo altri dati, ad essere arrestati furono circa 767000 persone, di cui 387000 fucilate) anche grazie all’istituzione delle famigerate “trojke”, tribunali composti da tre ufficiali che giudicavano le persone da arrestare e fucilare spesso consultando solo gli elenchi forniti dagli uffici locali dell’NKVD. È per questo meccanismo feroce che il Grande terrore staliniano è passato alla storia per essere la più cruenta repressione di massa di civili mai registrata in tempo di pace.


A partire dal 5 agosto 1998, l’epicentro delle commemorazioni delle vittime di questo enorme olocausto è diventato Sandormoch. Questo nome esotico, ormai diffusosi nel russo corrente con la grafia alternativa “Sandarmoch”, non identifica alcun centro abitato, ma una località boschiva sita a una ventina di chilometri di distanza da Medvež’egorsk, centro della Carelia russa famoso per essere stato un importante snodo nella costruzione del Belomorsko-Baltijskij Kanal, il canale lungo più di 200 chilometri voluto da Stalin per collegare il Mar Baltico e il Mar Bianco e costruito a tempo di record tra il 1931 e il 1933 con l’uso del lavoro forzato dei prigionieri del gulag: un progetto folle, costato migliaia di vite e di fatto quasi abbandonato di lì a poco, visti i numerosi errori tecnici compiuti durante la costruzione a causa della fretta e delle condizioni di lavoro. Terminato il canale, il sistema dei campi di concentramento utilizzato per tenere i prigionieri costretti a scavare quasi a mani nude il canale (conosciuto come Belbatlag) rimase attivo. Dopo l’emissione dell’ordine 00447 da parte del capo delll’NKVD, Nikolaj Ežov, migliaia di prigionieri del Belbaltlag vennero portati nei boschi di Sandormoch, fucilati e seppelliti.


Di loro e delle altre vittime sepolte a Sandormoch non si seppe nulla fino al 1997, quando due spedizioni di ricercatori di Memorial unirono le loro forze. Jurij Dmitriev, membro di Memorial Carelia e assistente del parlamentare Ivan Čuchin (che sarebbe morto proprio nel 1997 in un incidente stradale poco prima della scoperta di Sandormoch), cercava il luogo di sepoltura di migliaia di vittime del Belbaltlag. Anche Venjamin Iofe e Irina Flige, dissidenti e studiosi di Memorial San Pietroburgo, cercavano il luogo di sepoltura di una tradotta di 1111 prigionieri presi dal campo di concentramento delle Solovki, trasportati in Carelia e fucilati in un luogo non meglio identificato. Unendo i dati a loro disposizione, Iofe, Flige e Dmitriev si inoltrarono nei boschi fin quando non scorsero degli avvallamenti nel terreno: erano le fosse comuni in cui giacevano le migliaia di vittime di Sandormoch.


A partire da quel momento, Sandormoch è diventato il luogo simbolo della memoria delle vittime del Grande terrore. Trasformato in cimitero memoriale civile, dove i parenti delle vittime, attivisti e delegazioni nazionali hanno appeso ai fusti degli alberi i volti delle vittime ed eretto monumenti funerari, Sandormoch ha saputo rendere in tutta la sua potenza simbolica la tragedia della violenza di stato sovietica: scorrendo i volti, i nomi, le date di nascita delle vittime, si può percepire la dimensione universale del terrore staliniano. Nobili e fornai, vescovi e contadini, adolescenti e anziani, analfabeti e poeti, invalidi e atleti. Persone di 58 nazionalità diverse, tra cui due italiani: Giacomo Pergolo, 57enne della comunità italiana di Kerč, in Crimea, e Leone Aurelio Cogrossi, comunista di Acqui Terme emigrato in Unione Sovietica alla ricerca del paradiso in terra e fucilato a 33 anni dopo averne trascorso quasi 7 in un campo di concentramento.


A rendere Sandormoch un luogo simbolo hanno contribuito gli stessi scopritori e Memorial, creando la tradizione di leggere i nomi delle vittime di Sandormoch. Una tradizione che ha subito diversi cambiamenti negli anni: sostenuta inizialmente dalla chiesa ortodossa e dallo stato, negli anni ha visto diminuire la presenza di rappresentanti ecclesiastici e governativi. Nel 2014, a seguito dell’annessione della Crimea, la delegazione ucraina ha deciso di non partecipare più alla cerimonia, nonostante la dura condanna che Dmitriev ha rivolto al governo russo proprio dal palco allestito a Sandormoch.


Il risultato è stato, invece, un altro: tutte le delegazioni ufficiali russe hanno progressivamente rifiutato di partecipare alle commemorazioni del 5 agosto. Nel dicembre 2016 Dmitriev è stato arrestato con l’accusa di creare materiale pedopornografico. Era l’inizio di una delle più clamorose vicende giudiziarie degli ultimi anni. Orfane di Dmitriev, le commemorazioni sono andate avanti fin quando la pandemia non le ha interrotte. Da allora i nomi delle vittime di Sandormoch non vengono letti solo nel luogo in cui sono stati uccisi, ma in diversi angoli del mondo grazie all’iniziativa di sostenitori di Dmitriev e attivisti, che hanno trasformato l’evento della lettura dei nomi in una commemorazione globale fatta online. Quest’anno, durante la cerimonia, sarà possibile ascoltare anche i nomi letti da cinque italiani.


La globalizzazione della giornata della memoria delle vittime del Grande terrore assume un valore ancora più simbolico oggi, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina. Sandormoch è infatti un luogo fondamentale per la coscienza nazionale ucraina: lì sono stati fucilati migliaia di ucraini, tra cui molti dei rappresentanti del cosiddetto “rinascimento fucilato”, un movimento culturale in lingua ucraina formatosi tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta e represso nel sangue durante gli anni del Terrore.


Ma Sandormoch è importante per comprendere le radici del conflitto anche per quanto concerne la parte russa: la persecuzione giudiziaria di Dmitriev, condannato dopo tre processi farsa a 15 anni di colonia penale, e quella di Sergej Koltyrin, amico di Dmitriev e direttore del dipartimento museale di cui Sandormoch fa parte, condannato nel 2018 per reati simili e morto in prigione, hanno fatto da sfondo al tentativo di riscrivere la storia di Sandormoch e delle loro vittime seguendo una teoria avanzata da due storici dell’Università di Petrozavodsk secondo la quale a Sandormoch sono sepolti anche soldati dell’Armata rossa uccisi dai finlandesi durante la Guerra di continuazione. Una teoria non basata su documenti o ritrovamenti di archivio, né suffragata dai fatti.


Ciononostante, e grazie al ruolo della Società Russa di Studi Militari capeggiata da Vladimir Medinskij, ideologo del regime, a Sandormoch sono stati fatti degli scavi per riesumare le vittime e cercarne di cambiarne i connotati, facendole così rientrare in una narrazione più consona ai contenuti dell’interpretazione della storia promossa da Putin nel discorso che ha fatto da preambolo all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022.


In questo senso, la mostra che verrà inaugurata oggi a Praga da Memorial Repubblica Ceca, le iniziative in vari paesi e la lettura dei nomi delle vittime di Sandormoch – quelle vere – in diversi angoli del globo dimostrano come Memorial, ONG liquidata dal regime alla vigilia della guerra, sia ancora capace di proporre un’idea di Russia alternativa a quella dei carri armati.

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz.

La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz con curatela di Luca Bernardini (Guerini e Associati, 2024). Una testimonianza al femminile sull’universo del Gulag e sugli orrori del totalitarismo sovietico. Arrestata nel 1945 a ventidue anni per la sua attività nell’AK (Armia Krajowa), l’organizzazione militare clandestina polacca, Anna Szyszko-Grzywacz viene internata nel lager di Vorkuta, nell’Estremo Nord della Siberia, dove trascorre undici anni. Nella ricostruzione dell’esperienza concentrazionaria, attraverso una descrizione vivida ed empatica delle dinamiche interpersonali tra le recluse e della drammatica quotidianità da loro vissuta, narra con semplicità e immediatezza la realtà estrema e disumanizzante del Gulag. Una realtà dove dominano brutalità e sopraffazione e dove la sopravvivenza per le donne, esposte di continuo alla minaccia della violenza maschile, è particolarmente difficile. Nell’orrore quotidiano raccontato da Anna Szyszko-Grzywacz trovano però spazio anche storie di amicizia e solidarietà femminile, istanti di spensieratezza ed emozioni condivise in una narrazione in cui alla paura e alla dolorosa consapevolezza della detenzione si alternano le aspettative e gli slanci di una giovane donna che non rinuncia a sperare, malgrado tutto, nel futuro. Anna Szyszko-Grzywacz nasce il 10 marzo 1923 nella parte orientale della Polonia, nella regione di Vilna (Vilnius). Entra nella resistenza nel settembre 1939 come staffetta di collegamento. Nel giugno 1941 subisce il primo arresto da parte dell’NKVD e viene rinchiusa nella prigione di Stara Wilejka. Nel luglio 1944 prende parte all’operazione “Burza” a Vilna come infermiera da campo. Dopo la presa di Vilna da parte dei sovietici i membri dell’AK, che rifiutano di arruolarsi nell’Armata Rossa, vengono arrestati e internati a Kaluga. Rilasciata, Anna Szyszko cambia identità, diventando Anna Norska, e si unisce a un’unità partigiana della foresta come tiratrice a cavallo in un gruppo di ricognizione. Arrestata dai servizi segreti sovietici nel febbraio 1945, viene reclusa dapprima a Vilna nel carcere di Łukiszki, e poi a Mosca alla Lubjanka e a Butyrka. In seguito alla condanna del tribunale militare a venti anni di lavori forzati, trascorre undici anni nei lager di Vorkuta. Fa ritorno in patria il 24 novembre 1956 e nel 1957 sposa Bernard Grzywacz, come lei membro della Resistenza polacca ed ex internato a Vorkuta, con cui aveva intrattenuto per anni all’interno del lager una corrispondenza clandestina. Muore a Varsavia il 2 agosto 2023, all’età di cento anni.

Leggi

Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società, opposizione.

Le trasformazioni della Russia putiniana. Stato, società, opposizione. A cura di Riccardo Mario Cucciolla e Niccolò Pianciola (Viella Editrice, 2024). Il volume esplora l’evoluzione della società e del potere in Russia dopo l’aggressione all’Ucraina e offre un’analisi della complessa interazione tra apparati dello stato, opposizione e società civile. I saggi analizzano la deriva totalitaria del regime putiniano studiandone le istituzioni e la relazione tra stato e società, evidenziando come tendenze demografiche, rifugiati ucraini, politiche nataliste e migratorie abbiano ridefinito gli equilibri sociali del paese. Inoltre, pongono l’attenzione sulla società civile russa e sulle sfide che oppositori, artisti, accademici, minoranze e difensori dei diritti umani affrontano sia in un contesto sempre più repressivo in patria, sia nell’emigrazione. I saggi compresi nel volume sono di Sergej Abašin, Alexander Baunov, Simone A. Bellezza, Alain Blum, Bill Bowring, Riccardo Mario Cucciolla, Marcello Flores, Vladimir Gel’man, Lev Gudkov, Andrea Gullotta, Andrej Jakovlev, Irina Kuznetsova, Alberto Masoero, Niccolò Pianciola, Giovanni Savino, Irina Ščerbakova, Sergej Zacharov. In copertina: Il 10 aprile 2022, Oleg Orlov, ex co-presidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, viene arrestato sulla Piazza Rossa a Mosca per avere manifestato la sua opposizione all’invasione dell’Ucraina con un cartello con la scritta “La nostra indisponibilità a conoscere la verità e il nostro silenzio ci rendono complici dei crimini” (foto di Denis Galicyn per SOTA Project).

Leggi